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La missione impossibile di spiegare i giovani ai vecchi

Intervista a Vincenzo Marino, autore della newsletter zio e di Sei vecchio. I mondi digitali della Generazione Z: con lui abbiamo parlato dell'internet della Gen Z, della fama su TikTok e dei bambini che sognano di fare gli youtuber.

di Arnaldo Greco

Una buona prova per verificare l’accuratezza di quelle liste con “le migliori 10 (o 8, 15, 12, 20) newsletter da seguire” è controllare che ci sia zio di Vincenzo Marino. zio è, come da presentazione, «la newsletter che cerca di capire cosa fanno i teenager di oggi quando fissano i loro telefoni», non si scivola mai nel moralismo, non c’è un occhio giudicante, ma non si cade mai neanche nell’errore opposto: la lettura edificante dei giovani che salveranno il mondo. Dallo sviluppo dei temi trattati nella newsletter, per Nottetempo è appena uscito Sei vecchio. I mondi digitali della Generazione Z (edizioni nottetempo), un’indagine tra i consumi culturali dei nati tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Dieci, ma, soprattutto, un’indagine sui meccanismi dei nuovi media e su chi ottiene successo. C’è chi, in cambio di piccoli pagamenti, si fa svegliare nelle maniere più assurde, chi diventa, senza alcuna ragione apparente, di colpo popolare grazie a una capra e poi, con altrettanta rapidità, esce dai radar e resta solo a domandarsi il perché, chi diventa famoso attraverso un tormentone nonsense e pure chi ci riesce attraverso dei semplici panini.

ⓢ Mi pare di capire che tu, da un lato, metta in guardia sul fatto che descrivere una generazione sia impossibile. Dall’altra dici che comunque dei tratti comuni della Generazione Z, soprattutto su cosa sia l’intrattenimento, esistano. Quali?
L’urgenza che ho avuto in questo libro, e che da anni mi porto dietro anche nella mia newsletter zio, è chiarire sin da subito che non credo alle categorizzazioni generazionali: nessuno è l’anno in cui nasce e per questo affine all’altro nato nello stesso periodo. Di certo, però, il panorama sociale e culturale con cui si cresce è rilevante, ed esercita — anche se in modo non uniforme — una sua influenza. Per provare a raccontare questo spaccato ho preso in analisi l’offerta dei contenuti digitali: da un lato perché, stando ormai a decine di ricerche, è in rete che i ragazzi sotto una certa soglia anagrafica trascorrono il loro tempo. Dall’altro, perché i fenomeni di internet sono più facilmente analizzabili di altri, sia in termini qualitativi che quantitativi.

ⓢ Cosa ne viene fuori?
Un panorama nel quale spiccano alcune tendenze più di altre, spesso tenute insieme da un filo sottile: l’esigenza dell’essere visibili, del manifestarsi e dell’uso dei social network come piattaforma performativa piuttosto che come rete di relazioni, per esempio, si sposano perfettamente coi casi in cui la fama istantanea di alcuni personaggi esplode per poi volatilizzarsi dopo qualche mese, con la gigantesca offerta di contenuti “motivazionali”, con le liriche – volendo – iper-liberiste di buona parte della produzione rap contemporanea. Da qui una traccia, che non cerca di definire pienamente una generazione, ma che può aiutarci a disegnare qualche contorno.

ⓢ Perché tutto si riduce, molto spesso, a delle visioni polarizzate di cosa sono i giovani della Generazione Z?
Non credo di avere una risposta precisa, ma voglio provare ad azzardare: la mancanza di comunicazione tra i media mainstream e il pubblico più giovane, tra chi cerca di studiare i fenomeni legati alla cosiddetta Gen Z e i ragazzi stessi, magari anche tra genitori e figli, è tale da indurre a vecchie semplificazioni. Cosa che suona come un paradosso, se consideriamo i mezzi e le opportunità di cui disponiamo oggi. In più, i contenuti creati “per e da” i nuovi utenti della rete appaiono il più delle volte impossibili da comprendere se non si frequentano assiduamente le piattaforme e non se ne colgono i meccanismi. Portando inevitabilmente a una polarizzazione.

ⓢ Il disagio è una condizione inevitabile del successo su Twitch o TikTok?
Per me l’elemento del “disagio”, inteso nell’accezione contemporanea dell’essere ironicamente in pena per sé o per qualcun altro, intercetta perfettamente uno degli spiriti del tempo – quanto meno sui social: l’urgenza di mostrarsi reali, perfettibili, per come si è. Genuini a tutti i costi. Non a caso i contenuti digitali più apprezzati e consumati sono quelli che appaiono più autentici, quasi come fossero girati per caso, apparentemente senza uno sforzo editoriale o pianificazione marketing. E non a caso la pubblicità, in rete, pare sempre più organica nel suo stile e nel suo linguaggio, adeguandosi al gusto. 

ⓢ Nel libro c’è un bel catalogo di esempi.
Che sia dietro il bancone di una salumeria o a bordo di un tir, essere sé stessi senza un effettivo contenuto – magari anche in condizioni che mostrano un reale stato di disagio: psicologico, economico – sta diventando di per sé il vero contenuto. Sono decine i creator italiani che si sono mostrati volutamente in un momento di sofferenza psicologica, provando a parlarne apertamente o a simularne gli effetti per seguire un trend e creare “content”. Così come sono centinaia i video in cui, per esempio, si sfruttano le condizioni di indigenza dei senza fissa dimora per filmare degli improvvisati “esperimenti sociali”.

ⓢ A proposito della quantità sterminata di contenuti, ne vengono ormai prodotti talmente tanti, e gratuitamente, da essere umani in carne e ossa che l’intelligenza artificiale nell’intrattenimento non serve, è come se esistesse già… è così?
Certi tiktok forzatissimi in cui si cerca di far ridere i propri viewer con battute pensate o raccontate male mi ricordano le barzellette di ChatGPT, senza un senso logico e spiegate pure peggio dalla stessa IA. È una teoria interessante, comunque: se pensiamo all’enorme quantità di video pressoché uguali che vengono pubblicati ogni giorno, per esempio. O al tempo speso in diretta dagli streamer a cercare un argomento di cui parlare, aspettando che succeda qualcosa con cui tirarla avanti ancora per un paio d’ore. Probabilmente stiamo passando dall’“overload informativo” a un presunto “overload dell’intrattenimento”: lo dimostra il successo di piattaforme come TikTok – col suo algoritmo entertainment-oriented. O il fatto che, secondo varie statistiche, fare lo youtuber sarebbe diventato il nuovo lavoro dei sogni.

ⓢ Tu citi un sondaggio secondo il quale il 29 per cento dei diplomati e il 30 per cento dei bambini vorrebbero fare lo youtuber, contro un misero 11 per cento che sogna di fare l’astronauta.
In questo caos, ognuno è spronato a fare una cosa prima degli altri, come gli altri, meglio degli altri, spesso per assecondare meccaniche e trend: è quello che succede ogni anno, per esempio, quando ricomincia Il Collegio su RaiDue. E tutti gli youtuber più importanti d’Italia cominciano a parlarne, influenzando le metriche della piattaforma e migliaia di emuli.

ⓢ In questo panorama l’unica chance di sopravvivenza per i vecchi media è quella di diventare generatori di “reactions” per i nuovi media? Non solo Il Collegio, anche il Grande Fratello o Sanremo sono già generatori di meme, trend, parodie e altro.
Quello delle “reaction”, oggi, è sicuramente il modello per eccellenza: permette di allargare la conversazione e di ricreare contenuto, a potenziale beneficio dello show in questione – almeno in termini di awareness, si direbbe nel marketing – e di chi il meme lo crea. Alla fine, citi programmi televisivi che non hanno tanto in comune, se non la fama (anche) digitale che sono riusciti a ottenere. L’unico elemento che forse li associa è la centralità dei protagonisti, le individualità dei personaggi, che con i loro profili possono fare da moltiplicatore della platea potenziale, e declinare naturalmente uno show mainstream in un content digitale – penso per esempio alla fama social di alcuni protagonisti del Grande Fratello, o ai concorrenti-tiktoker del Collegio, o ancora a Sanremo e alla partecipazione sempre più assidua di fenomeni musicali cresciuti in rete. Nella macchina iper-personalizzante dei social, le individualità finiscono spesso per essere premiate. Lasciando ai creatori di contenuti – specie di quelli televisivi – davanti a una sfida: come trovo il modo per diventare rilevante su internet, cercando di non rincorrere le personalità che su di essa sono già diventate famose? Qual è la formula magica? E come faccio a monetizzarla?

ⓢ Alcune delle dinamiche che descrivi, pur se tipiche della Gen Z, si diffondono anche in altre fasce d’età. Perfino gli anziani oggi fanno i video ai bambini che scartano i regali invece di “godersi il momento”. È una mutazione antropologica?
Probabilmente sì. Penso all’impulso immediato che, per esempio al ristorante, muove quasi automaticamente la mia mano verso il telefono appena arriva quello che ho ordinato. O ancora, penso alle centinaia di braccia incerottate che potevi trovare su Instagram nelle prime settimane della campagna vaccinale: contenuti che la piattaforma ha in qualche modo incoraggiato, rendendoci – inconsapevolmente o meno – portavoci di una causa, influencer. In Sei vecchio, una delle tesi di fondo che cerco di far emergere è: sono i giovani, ma siamo tutti. I linguaggi delle nuove generazioni saranno forse inaccessibili per chi non ha modo o voglia di provare a capire, il loro modo di approcciare al reale è certamente influenzato dalla loro esistenza online più del nostro, ma le piattaforme e gli strumenti sono gli stessi. E modellano pian piano le nostre diete culturali, le nostre relazioni sociali, le nostre abitudini, le nostre velleità.

ⓢ Nel libro non entri nel merito di chi usa i social per le “buone cause”. È impossibile evitare le dinamiche di cui abbiamo parlato e di cui scrivi? (Perdita del controllo, spersonalizzazione, dipendenza, etc).
Assolutamente, c’è modo di usare i social in modo sano ed esistono diversi esempi in merito: mi viene da pensare a chi sta provando a fare del buon giornalismo attraverso Instagram e TikTok, sfidando però un oceano di distrazioni in cui ognuno è potenzialmente in grado di distrarci con qualsiasi altro mezzo. Sono dinamiche che cambieranno, probabilmente, con l’aggiornarsi delle piattaforme e i loro relativi algoritmi: quello che è diventato TikTok oggi, e quanto sia ormai rilevante dentro e fuori dalla rete, era quasi inimmaginabile tre anni fa – ossia quando usavamo i social media in modo ancora diverso, se ci pensi. Poi: chiaramente è complicato immaginare scenari futuri. Ma la sensazione che ho è che l’offerta social di oggi – caratterizzata da una certa facilità nel poter diventare famosi e virali in modo quasi casuale – abbia intercettato una domanda preesistente, umanissima, ancora non pienamente ascoltata prima: il desiderio di essere visti da più persone possibile, nel modo più semplice possibile, e amati per quello che si è. Magari questo non cambierà più. E sarebbe un po’ spaventoso.