Cultura | Teatro

Fabio Cherstich vuole portare il teatro ovunque

Intervista al regista (e scenografo, scrittore, collezionista) del primo adattamento del libro di Katharina Volckmer, L'appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo: lo spettacolo torna al Teatro Parenti di Milano dal 3 all'11 aprile.

di Davide Giannella

Fabio Cherstich è un regista di teatro che non parla (solo) ai teatranti. Un autore, in senso lato, capace di sviluppare narrazioni e relazioni verso pubblici ampi e diversificati. Un’attitudine, questa, che assieme alla sua passione e conoscenza dei linguaggi del contemporaneo lo ha portato a collaborare con le maggiori istituzioni nazionali – dal Teatro Franco Parenti di Milano al Teatro dell’Opera di Roma o il Teatro Massimo di Palermo – con brand di moda o design, di scrivere libri su artisti scomparsi e di essere indicato dal New York Times come la figura capace di riportare il teatro d’opera alle sue radici più vere. Nel 2022 Cherstich aveva portato a Milano il primo adattamento del libro di Katharina Volckmer, L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo, che torna al Teatro Parenti dal 3 all’11 aprile.

ⓢ Come stai Fabio?
Travolto da mille cose, come sempre. Ma sono felice, è un buon periodo.

ⓢ Finalmente qualcuno mi dice che è contento.
Credo sia molto più facile lamentarsi che riconoscersi felici. In generale mi sono stancato delle lamentazioni…

ⓢ A cosa è dovuta questa felicità?
Sto lavorando molto e in spazi molto diversi, fuori e dentro al teatro.

ⓢ Bello, fuori e dentro. Faccio fatica infatti a vederti semplicemente come un uomo di teatro, mi pare che la tua figura sia ben più articolata, molto più in linea se vuoi con lo scenario culturale contemporaneo. Di fatto ti occupi di regia, di scenografia, di scrittura, di ricerca sui linguaggi, collezioni…
A volte penso che mi dovrei dare una regolata, capire cosa voglio fare da grande, ma forse la chiave è proprio questa. Ho scelto di non scegliere, o meglio ho scelto di fare tutto quello che mi piace.

ⓢ Ovvero?
A me piacciono le storie e chi le scrive, la letteratura e la musica ma altrettanto mi piacciono il design, l’architettura, l’arte e le immagini in generale.

Foto di Sofia Blu Cremaschi

ⓢ Però ti definisci regista teatrale.
È per semplificarmi la vita e darmi un minimo di collocazione in questo mondo che necessita continue etichette. Diciamo che il teatro mi ha sempre permesso di abitare linguaggi diversi: ci sono gli spazi e le scenografie e quindi l’architettura, i props e quindi il design e gli oggetti, al tempo stesso la trama e il racconto, la letteratura, la musica…e soprattutto l’interazione umana con attrici e attori, cantanti e danzatrici. Non riesco a considerare il teatro come un linguaggio unico, impermeabile. Ha il vantaggio specifico di essere dal vivo, è uno scambio reale tra persone in un dato tempo e luogo. Questo è cardinale in tutto quello che faccio perché di fondo esiste sempre uno storytelling, una narrazione volta al dialogo con qualcuno. Che avvenga su un palcoscenico, in una vetrina, nello svolgimento di una sfilata, o anche in forma di articolo per un magazine, il mio obiettivo è sempre quello di raccontare delle storie. Quindi mi pongo sempre il problema di cosa, come e per chi lo voglio raccontare.

ⓢ Interazione e storytelling. Le due cose mi pare presuppongano un’idea di pubblico, anche. Hai in mente uno o più pubblici ai quali ti rivolgi?
Da regista non posso conoscere il “mio pubblico”, io arrivo in un teatro come un visitatore: ci resto un mese, vedo il pubblico alla prima e riparto. Non ho proprio modo di capire chi è questo pubblico… In generale più ampio ed eterogeneo è e più interessa. Diciamo che non faccio il teatro per i teatranti, la maggior parte sono troppo noiosi.

ⓢ Però tu hai girato le piazze con Opera Camion e lì il pubblico lo hai incontrato veramente…
L’Opera Camion è in qualche modo una sorta di manifesto del mio lavoro. È un progetto che ho creato appositamente per il Teatro dell’Opera di Roma e il Teatro Massimo di Palermo. Le due istituzioni mi invitavano a sviluppare qualche cosa che avvicinasse grandi titoli operistici al pubblico, qualcosa che potesse essere colto e apprezzato non solo da melomani o abbonati. La prima cosa a cui ho pensato quindi è stata quella di uscire dai consueti spazi fisici del teatro e raggiungere direttamente il pubblico, mettere le ruote al palcoscenico e girare per le strade, nelle piazze, intercettando anche chi non si sarebbe mai avvicinato a certi contenitori andando a perdersi contenuti ed esperienze.

ⓢ L’opera fuori dal teatro dell’opera… il New York Times ti ha dedicato un’intera pagina dicendo che hai riportato l’opera alle sue radici. È cosi?
Opera Camion promuove un teatro di intrattenimento che va verso il pubblico, gratuitamente, grazie ad un intrattenimento di altissima qualità, in primis musicale. Per certi versi è stata una pratica di rottura profonda delle consuetudini di proposta e fruizione dell’opera, un’attitudine anti-istituzionale portata avanti in collaborazione con le istituzioni stesse. Un cortocircuito felice.
Nel caso specifico di Opera Camion io mi spendevo ogni giorno nelle piazze in cui allestivamo e avremmo messo poi in scena un’opera, parlavo continuamente con le persone e avevo quindi modo di conoscere realmente questo ipotetico pubblico. Non è detto poi che il pubblico di quelle sere farà degli abbonamenti a teatro, sarebbe forse anche presuntuoso pensarlo, però senza dubbio si è resa un’opera accattivante e partecipata.

ⓢ Credi che il teatro o comunque un certo tipo di linguaggio espressivo più tradizionale possa ancora significare il mondo e quindi raccontarlo al pubblico più giovane?
Quando alcune persone mi dicono che il teatro è noioso, faccio fatica a controbattere. Il teatro spesso e volentieri lo è, particolarmente poi per i più giovani. Non so te ma io alle
superiori a Udine sono stato trascinato a vedere dei lavori orrendi, polverosi o ancora peggio monumentali. E’chiaro che poi la gente scappa dal Teatro. È necessario come per ogni ambito un rinnovamento, bisogna ripensare proprio le azioni nei confronti del pubblico. Ovviamente sto parlando rispetto a quelle che sono le mie urgenze, ovvero innovare mantenendo sempre in chiaro quelli che sono gli obiettivi e i limiti eventuali della mia relazione col pubblico. Affinare questo rapporto non semplicemente per assecondare esigenze altrui, però cercando sempre delle chiavi di contatto e relazione.

ⓢ Cioè?
In questo momento sto mettendo in scena a Roma un nuovo lavoro, Cenerentola Remix. Il fatto stesso di partire da una favola ampiamente conosciuta e di utilizzare anche nel titolo la parola remix mi permette di creare dei ponti con una fascia di pubblico più giovane. Remix non è solo un termine contemporaneo: è coerente con la storia secolare di riscrittura del testo originale scritto in napoletano da Basile nel 1600 fino alla versione ottocentesca dei Grimm passando per Perrault e Disney! Sono felice di dire che è uno spettacolo per il nuovo pubblico, il pubblico che verrà… speriamo bene!

«Ciò che rimane insostituibile nel teatro è il senso di responsabilità condiviso tra chi offre contenuti e chi decide di venire in sala a fruirne. Significa avere la volontà di dedicarsi a un dialogo tra palco e platea, uscendo di casa, facendo una coda, spegnendo i cellulari, dimenticandosi di sé»

ⓢ Uno spettacolo semplificato per arrivare ai più piccoli?
Assolutamente no! Non semplifico nulla, non abbasso la qualità delle proposta o il valore del messaggio. Cerco una nuova forma, più dinamica e accattivante per esempio… Ciò che rimane insostituibile nel teatro è il senso di responsabilità condiviso tra chi offre e produce contenuti e chi decide di venire in sala a fruirne. Significa disporsi appunto ad una relazione, avere la volontà di dedicarsi per un dato tempo a un dialogo tra palco e platea, uscendo di casa, facendo una coda, spegnendo i cellulari, dimenticandosi di sé. È una forza tuttora incredibile.

ⓢ In questo senso abbiamo visto anche dei tentativi – piuttosto maldestri mi verrebbe da dire – di sostituzione di questa partecipazione fisica e responsabile con una trasposizione immediata dell’esperienza sul piano digitale. Pensi che abbia in qualche maniera funzionato e quali credi possano essere le possibili interazioni tra le due dimensioni?
È stato un fallimento totale, fortunatamente. Una possibilità di integrazione tra analogico e digitale può senza dubbio esserci, però anche qui deve presupporre un cambio di prospettive e di approccio tra le parti. Si possono fare degli spettacoli anche su TikTok o Instagram per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere interessante, però bisogna essere consci del fatto che ogni piattaforma, ogni contesto o contenitore ha le proprie regole e le proprie caratteristiche. Anche qua partirei dalla relazione con chi conosce quell’ambito, qualcuno con cui collaborare che possa rispondere, rispetto a quella specifica dimensione, alle domande che ci si dovrebbe porre sempre: come verrà fruito questo contenuto? Da chi? In che tempi? Dove? Con quale grado di attenzione? La narrazione e il contenuto possono rimanere immutati ma non si può sorvolare la necessità di adattarli di volta in volta agli strumenti tecnici che si hanno a disposizione, perchP no, anche sfruttandone i potenziali che magari a teatro non potrebbero nemmeno esistere.

Foto di Sofia Blu Cremaschi

ⓢ Mi piacerebbe capire anche come ti poni nei riadattamenti di opere o testi già esistenti, dai classici dell’opera alle pièce di Jodorowsky passando per Brecht e Shakespeare.
Credo sia fondamentale studiare, conoscere bene ciò con cui ci si confronta. Proprio per scovarne aspetti poco considerati o più funzionali al discorso contemporaneo, per trovare anche nuove formule espressive di qualcosa che magari viene dato già per assodato. Per me è fondamentale offrire la mia lettura delle cose, il mio sguardo personale sulla storia narrata. È l’unica maniera per corrispondere alle proprie urgenze, offrendole anche al giudizio altrui ma con la consapevolezza di lavorare per crearsi un proprio spazio e scongiurare il rischio di omologazione.

ⓢ L’ultimo tuo spettacolo che ho visto al Teatro Franco Parenti di Milano era il primo adattamento mai fatto in palcoscenico del romanzo di Katharina Volckmer, un libro dal titolo-bomba.
In L’appuntamento, ossia la storia di un cazzo ebreo tutto è stato sviluppato partendo sostanzialmente da zero. O meglio, esisteva il testo ma non c’era uno storico, tutto è stato strutturato attraverso la mia relazione con la direttrice del teatro Andrée Ruth Shammah, Katharina Volckmer che con me firma l’adattamento e dalle capacità di traduzione di quel testo in una forma teatrale avendo in scena un’attrice straordinaria come Marta Pizzigallo.

ⓢ Il giudizio del pubblico ti preoccupa?
Il giudizio del pubblico fa parte del gioco, certo questa volta con un titolo del genere e una storia in cui una donna cambia gender, diventa un uomo e decide di diventare ebreo per risolvere da tedesca il suo senso di colpa rispetto all’olocausto… Un po’ di rumore tra gli spettatori a certe battute del testo te lo aspetti.

ⓢ Secondo me abbiamo parlato troppo e sicuramente ci tagliano…
E allora fermiamoci qui, che se non mi fermi io vado avanti all’infinito.

ⓢ Cosa ti auguri per il futuro?
Per una fine più teatrale ti risponderei con una citazione dell’amato e geniale Antonio Rezza: «La speranza la lascerei agli stronzi». Ma Fabio ti direbbe semplicemente: di annoiarmi e annoiare il meno possibile.