Attualità | Dal numero

Profonda destra

Come la crescita social dell'estrema destra in Europa e nel mondo sta sfruttando la rabbia sociale per radicalizzare nuovi membri e polarizzare il dibattito pubblico.

di Gian Luca Atzori

È stato condannato per bancarotta in Norvegia nel 2010 e ora fa propaganda estremista online allo scopo di reclutare milizie per il battaglione Azov. Joachim Furholm arrivò in Ucraina nel 2017 per combattere nel Donbass. Tuttavia, il mese dopo fu espulso dalle operazioni. Per Furholm – schedato da Oslo dall’età di 15 anni per le sue idee estremiste – è colpa del governo norvegese. Oggi Joachim sfrutta i social per contattare profili simili al suo, scambiare esperienze di combattimento e ricercare occasioni di incontro e coinvolgimento di affini in pieno stile paramilitare. Tuttavia, il battaglione Azov è ben più di una milizia: ha un partito politico (anche se pesa il 2 per cento, come Casapound e Forza Nuova in Italia); ha due case editrici; organizza campi scuola e ronde di vigilanza, la cosiddetta “milizia nazionale” al fianco della polizia ucraina. Soprattutto, come riportato da Time, fuori dall’Ucraina il battaglione Azov funge «da magnete per giovani affamati di esperienza militare», dagli Usa all’Europa. Secondo Ali Soufan, consulente per l’FBI, in sei anni sono arrivati in Ucraina oltre 17 mila legionari stranieri da cinquanta Paesi. Nonostante il battaglione Azov «abbia reclutato, radicalizzato e addestrato cittadini americani per anni», per il governo degli Stati Uniti non si tratta di un’organizzazione terroristica. Come già accadeva per lo Stato Islamico e altri gruppi estremisti nel mondo, il reclutamento dell’Azov avviene attraverso un uso pervasivo dei social media, Telegram e soprattutto Facebook, definito «il principale canale» dallo stesso Furholm. Nonostante la società di Zuckerberg abbia reagito alla propaganda di questo tipo, affermando di aver bannato i gruppi legati all’Azov e altre 250 formazioni suprematiste, la piaga sembra ormai insanabile.

Basta pensare alle stragi che si sono consumate negli Usa nel mese di maggio, da quella della Robb Elementary School di Uvalde, in Texas, in cui hanno perso la vita ventuno persone, di cui diciannove bambini, a quella di Buffalo, nello stato di New York, in cui sono morte dieci persone. Payton Gendron, il diciottenne responsabile della strage di Buffalo, ha dichiarato di essersi radicalizzato sui social, in particolare su siti come 4chan, perché isolato e annoiato durante la pandemia. Ed è proprio su 4chan, dopo il massacro di Uvalde, che hanno iniziato a circolare false notizie che dipingevano l’attentatore di Uvalde, il diciottenne Salvador Ramos, come un immigrato, transessuale e di sinistra. Niente di tutto questo era vero, neanche la foto di Ramos (che era di una donna trans che ha dovuto chiarire l’equivoco). Gendron non è l’unico autore di stragi e crimini di odio a seguire determinate abitudini su internet e ad aver avviato un processo di autoestremizzazione a partire da social e forum online. È accaduto a Capitol Hill nel 2021 con le masse aizzate su Twitter. È successo a Christchurch, in Nuova Zelanda, nel 2019, con la morte di cinquantuno persone trasmessa in diretta su Facebook. L’autore scrisse sul suo fucile il nome di Luca Traini, che nel 2018, a Macerata, sparò contro sei immigrati, insieme a quello di Alexandre Bissonnette, che nel 2017 uccise in Canada sei musulmani durante la preghiera. È avvenuto anche con le violente campagne mediatiche in Europa durante la crisi dei rifugiati, così come in Siria tramite l’arruolamento social di stranieri e milizie islamiste. Oggi, con la pandemia e la guerra, la situazione non è cambiata e vediamo gli effetti concreti dell’aver sottovalutato il fenomeno. È soprattutto destabilizzante se pensiamo al legame con quanto avviene in Ucraina. Per esempio, dopo il massacro di Christchurch, l’Azov diffuse copie del manifesto dell’attentatore, glorificando le sue gesta. Per il U.S. Government Accountability Office, tra il 2001 e il 2017, degli 85 attentati mortali negli Usa, tre quarti erano legati a simili formazioni. Un pericolo maggiore del terrorismo di matrice islamista, eppure decisamente meno dibattuto. Un fatto sottolineato anche dal Dipartimento di Stato nel 2019, «il legame tra il battaglione Azov e gli atti di terrorismo in America è evidente».

La disinformazione organizzata è divenuta un potente motore di violenza e politica della rabbia, alimentando un processo che richiede sempre meno tempo. Secondo gli studi del Science and Technology Directorate del governo americano, tra il 2005 e il 2016, il periodo necessario ad una persona dalla prima esposizione a contenuti fino al primo viaggio verso una zona di conflitto si è ridotto dai 18 ai 13 mesi. L’utilizzo dei social cresce in relazione al grado di coinvolgimento, è minore in chi compie azioni non-violente (40 per cento) e aumenta in chi attua violenza (52 per cento), raddoppiando in coloro che si arruolano come foreign fighters (79 per cento). Per le ricerche della National Academy of Sciences, nel testare democratici e repubblicani, l’esposizione prolungata e quotidiana a pensieri opposti ha finito per rafforzare le proprie convinzioni. Su Tandf viene confermato il trend anche in Asia, con l’esasperazione delle questioni taiwanese e coreana o del nazionalismo indiano su Whatsapp. In Giappone, ma anche in molti Paesi occidentali, la propaganda di estrema destra utilizza i personaggi e la cultura manga più in generale – con meme che hanno come protagonisti Dragon Ball, Naruto o Ken il Guerriero – per veicolare messaggi militaristi, nazionalisti e razzisti. Lo stesso è successo in Ucraina dal 2014 a oggi. Un Paese diviso – e al centro di una contesa internazionale – in cui dai social si evince un livello di intensità emotiva che, secondo il Royal Society Open Science, corrispondeva «a una polarizzazione crescente, marcata da un improvviso aumento del livello di coinvolgimento bimodale».

«Al di là dei toni allarmistici di una certa pubblicistica, chi studia il ruolo sociale delle emozioni è molto cauto in proposito», spiega lo scrittore Franco Palazzi, autore di Politica della rabbia, «Thomas Dixon, uno dei maggiori storici delle emozioni in attività, sostiene che l’enfasi contemporanea sulla rabbia non sia dovuta a un aumento della frequenza dell’emozione, ma alla crescita dell›attenzione che le viene prestata pubblicamente». Non dobbiamo infatti pensare all’estremizzazione emotiva come qualcosa di extra-ordinario, anzi: funziona attraverso meccanismi semplici e mondani. Furholm, ad esempio, parla di contatti profilati tramite gruppi social interessati al paganesimo nordico, come la religione vichinga, per poi condividere esperienze di odio, rabbia e violenza. Tra gli aspetti più complessi di questo fenomeno vi è l’analisi del ruolo svolto dalla disinformazione organizzata legata alla propaganda di Stati e partiti politici. Vi è infatti un chiaro legame tra le fabbriche di troll russe e l’elezione di Trump; la Brexit e gli interessi di importanti partiti europei; i No-vax e le argomentazioni attuali di molti sostenitori di Putin, dell’estrema destra e degli autoritarismi. Diversi studi mostrano il forte impatto di organizzazioni russe come l’Internet Research Agency (Ira) nell’influenzare processi elettorali democratici e nell’offrire una narrazione ad alcuni tra i maggiori partiti europei, tra cui Front National, Lega e Movimento 5 stelle. L’Ira è nata nel 2013 a San Pietroburgo e funziona da cassa di risonanza che agisce tramite la profilazione di utenti e la diffusione targetizzata di contenuti fittizi ed estremi. Secondo Marta Ottaviani, giornalista e autrice di Brigate Russe, «La guerra non lineare del Cremlino si avvale di mezzi non convenzionali per destabilizzare l’opinione pubblica nei singoli Stati e utilizza tutto: da appuntamenti come le elezioni americane o la Brexit fino a temi come i vaccini. Sicuramente la pandemia è stata un’occasione d’oro per i russi per creare destabilizzazione all’interno delle opinioni pubbliche occidentali». I troll sono infatti responsabili di un letale inquinamento dell’informazione sanitaria, causa di diffusione di celebri e pericolosi complotti, come i rischi della tecnologia 5G e i suoi legami con il Covid.

Secondo gli studi del Science and Technology Directorate del governo americano, tra il 2005 e il 2016, il periodo necessario a una persona dalla prima esposizione a contenuti fino al primo viaggio verso una zona di conflitto si è ridotto dai 18 ai 13 mesi

Già nel 2017, l’Authoritarian Populism Index mostrava un incremento storico nel gradimento di partiti autoritario-populisti, ovvero quelli che si auto definivano come l’opposizione all’establishment; la fusione di ideologie contrastanti; la promessa di mutamenti radicali rapidi; l’enfasi sul conflitto tra cittadini e istituzioni o tra maggioranza e minoranze. Tutti temi di contenuti mediatici prodotti dai falsi profili dell’Ira e dell’estrema destra. I partiti così raffigurati erano quasi tutti nazionalisti, euroscettici, contro la Nato o pro Putin, ma soprattutto fortemente antiliberali e tra i principali diffusori di notizie false sul web. Secondo Statista, durante l’elezione di Trump del 2016 il flusso di bufale ha superato quello di notizie vere. Dimostrazione della confusione dominante è data dai partiti che più hanno tratto vantaggio elettorale dalla propaganda antiamericana, euroscettica e filorussa dell’Ira, i quali oggi condannano la Russia e criticano l’Unione Europea perché imbrigliata dalla Nato. Negli ultimi anni, però, questo tipo di narrazione ha subito un contraccolpo non indifferente. La propaganda estremista è stata infatti, da una parte, causa delle basse vaccinazioni in Russia (sotto la media mondiale), mentre dall’altra ha fomentato un tipo di stile comunicativo che è stata sfruttato poi dal battaglione Azov per combattere gli stessi russi.

Per il Pew Research Center, nel 2020, l’Italia risultava essere il paese Ocse più favorevole alla Russia di Putin, con il 48 per cento dei consensi. «In Italia siamo particolarmente sotto fuoco, perché si tratta di un fenomeno inedito. Mentre Stati Uniti e Gran Bretagna stanno iniziando a prendere misure per contrastare questi fenomeni noi siamo molto indietro», avverte Ottaviani. Sarebbe necessario che politici, media e scuole prendessero consapevolezza del fenomeno: «I primi dovrebbero essere i politici, perché la propaganda tenta di infiltrarsi nei partiti e non solo, come spesso si crede, in quelli populisti e di destra», conclude l’esperta. Lo stesso accadeva con le “influenze” cinesi durante il primo anno di pandemia. Dal 2016, infatti, grazie a numerosi accordi e investimenti, l’influenza cinese sui media europei è stata strategicamente pervasiva. Secondo il sondaggio del 2020 di SWG, il gradimento popolare della Cina superava gli Stati Uniti in quanto “Paese amico” e “futuro alleato” del Bel Paese. Anche americani, tedeschi e francesi hanno raddoppiato l’attrazione per Pechino nei primi mesi del lockdown. Con i gialloverdi – cosiddetti “autoritario-populisti” che si servivano di questa propaganda – è aumentato il gradimento popolare verso l’autoritarismo russo e cinese. Ora, però, la situazione si è nuovamente ribaltata. La Grande Muraglia digitale cinese, tuttavia, continua a rafforzarsi, accomunando oltre 2 milioni di poliziotti del web e divenendo sempre più intransigente. Sui social la polarizzazione mostra sempre più netta la divisione tra nazionalisti e liberali. Mentre l’ondata di sinofobia globale scatenatasi a causa il Covid, che ha portato all’aumento dei crimini di odio nei confronti delle persone di origine asiatica, ha rafforzato alcune convinzioni anti-occidentali anche tra i giovani cinesi.

La disinformazione organizzata sfrutta fenomeni come l’analfabetismo di ritorno (6 su 10), quello digitale (1 su 3) e il cosiddetto Negativity bias mediatico, con effetti a lungo termine preoccupanti sul piano psicologico e sociale. Una situazione che si aggrava in contesti più poveri economicamente e culturalmente. Avvenimenti che distorcono e isolano le percezioni e alimentano emozioni ben precise e mediaticamente dominanti: confusione, indignazione, paura, odio, violenza. Ma la rabbia non ha mai avuto un’accezione esclusivamente negativa. Secondo Palazzi sarebbe necessario «spostare l’attenzione dalla cosiddetta rabbia dell’estrema destra (più legata all’odio) a quella che agisce in direzione politica opposta, soprattutto quella dei movimenti che reclamano diritti a fronte di ingiustizie strutturali (di genere, razza, classe…); tale “rabbia radicale”, lungi dall’essere irrazionale e regressiva, è infatti un’importante risorsa per la democrazia. Il ruolo dei social nel veicolare le emozioni favorisce lo sviamento di essa verso bersagli di comodo e capri espiatori. Un suggerimento, dentro i social e soprattutto fuori, è quello di produrre una “ecologia della rabbia”, un contesto ospitale nei confronti della rabbia di quelle soggettività discriminate o emarginate la cui stessa emozione resta il più delle volte incomprensibile, o comunque non è presa sul serio»