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C’è un’estensione per browser che fa tornare internet com’era nel 2022 per evitare di dover avere a che fare con le AI Si chiama Slop Evader e una volta installata "scarta" dai risultati mostrati dal browser tutti i contenuti generati con l'intelligenza artificiale.
Kristin Cabot, la donna del cold kiss-gate, ha detto che per colpa di quel video non trova più lavoro e ha paura di uscire di casa Quel video al concerto dei Coldplay in cui la si vedeva insieme all'amante è stata l'inizio di un periodo di «puro orrore», ha detto al New York Times.
I Labubu diventeranno un film e a dirigerlo sarà Paul King, il regista di Paddington e Wonka Se speravate che l'egemonia dei Labubu finisse con il 2025, ci dispiace per voi.
Un reportage di Vanity Fair si è rivelato il colpo più duro inferto finora all’amministrazione Trump Non capita spesso di sentire la Chief of Staff della Casa Bianca definire il Presidente degli Stati Uniti una «alcoholic’s personality», in effetti.
Il ministero del Turismo l’ha fatto di nuovo e si è inventato la «Venere di Botticelli in carne e ossa» come protagonista della sua nuova campagna Dopo VeryBello!, dopo Open to Meraviglia, dopo Itsart, l'ultima trovata ministeriale è Francesca Faccini, 23 anni, in tour per l'Italia turistica.
LinkedIn ha lanciato una sua versione del Wrapped dedicata al lavoro ma non è stata accolta benissimo dagli utenti «Un rituale d'umiliazione», questo uno dei commenti di coloro che hanno ricevuto il LinkedIn Year in Review. E non è neanche uno dei peggiori.
C’è una specie di cozza che sta invadendo e inquinando i laghi di mezzo mondo Si chiama cozza quagga e ha già fatto parecchi danni nei Grandi Laghi americani, nel lago di Ginevra e adesso è arrivata anche in Irlanda del Nord.

Emily in Esselunga

La quarta stagione della serie cult di Netflix porta il product placement su un livello mai toccato prima. È questo il futuro delle serie in streaming?

19 Settembre 2024

Product placement? In Emily in Paris? Avanguardia pura! Parafrasando Miranda Priestley la si potrebbe chiudere così, con laconico pragmatismo. E in effetti, chi ha guardato la quarta stagione di una delle serie Netflix più riuscite di sempre – 58 milioni di utenti e picchi di ascolto di 19,9 milioni nei primi quattro giorni di streaming – qualche domanda se l’è posta. Perché questa volta, come direbbero a Roma, dove sono ambientati i nuovi episodi e dove riprenderà la quinta stagione già confermata, non si sono regolati: per ogni episodio c’è un un marchio reale e riconoscibilissimo a dominare la scena, dieci su dieci. Sedici se includiamo gli esercizi commerciali – anche questi menzionati in modo chiaro, visibile, sceneggiato – usati come location. Da Ami Paris – protagonista già del finale della stagione precedente – a Vestiaire Collective, da Baccarat a Boucheron, Augustinus Bader o Air France, i nuovi episodi di Emily in Paris presentano una carrellata continua di marchi del lusso assurti al ruolo di copotragonisti, parte integrante della trama di ogni puntata.

Certo, il product placement non l’ha inventato Paramount/MTV Entertainment Studios, produttore dello show. Per restare nel campo dello streaming altre serie di culto come Stranger Things e Bridgerton si sono prestate a collaborazioni commerciali di varia natura. La prima con prodotti di largo consumo perfettamente integrati nella sceneggiatura, da edizioni vintage della Coca Cola ai waffles surgelati Eggo. La seconda con una serie di iniziative per cui è la serie stessa a diventare un brand che le aziende usano per lanciare edizioni limitate cavalcando il momento, come la Bridgerton Collection di Primark o la linea Lacoste x Netflix : Bridgerton. La novità con la quarta stagione di Emily in Paris, però, sta nel modo in cui si verificano questi scambi, spesso denominati co-marketing. Una modalità per cui il brand che dovrebbe essere ospite prende il sopravvento sulla narrazione stessa, ed è lecito per lo spettatore chiedersi: esattamente, cosa sto guardando?

È il caso della scena in cui, nell’ultimo episodio (spoiler alert) la capa di Emily, Silvie, sta per incontrare un suo ex italiano interpretato da Raoul Bova. Per introdurre il personaggio, che di mestiere fa il regista, non vediamo una scena di lui che dirige lo spot di un’automobile, vediamo direttamente lo spot di una Renault 5. Solo alla fine del suddetto spot la narrazione riprenderà con l’entrata in scena di Bova e Silvie. Lo spettatore resta spiazzato: ho visto una pubblicità? (Sì). E anche: quando guardo una serie, mi sta bene seguire le vicende dei miei personaggi preferiti senza interruzioni, e quindi con un formato ibrido del genere, o voglio una demarcazione netta che non intacchi la narrazione? (Chiediamocelo noi e chiediamolo sia ai produttori delle serie che a chi le acquista e le manda in onda).

Il battage pubblicitario sulla quarta stagione di Emily in Paris è partito ad agosto in grande stile con la notizia che, per la prima volta, una serie Netflix avrebbe avuto una title sponsorship e questo sponsor era Google. In pratica, se durante un episodio puntiamo la Google Lens su uno degli attori, il motore di ricerca mostra in tempo reale dove poter comprare quel capo o accessorio preciso o dove trovare qualcosa di simile. E funziona anche con i personaggi minori, non solo con gli outfit barocchi di Lily Collins e Ashley Park. Sommando il tutto – co-marketing, product placement reale o percepito, episodi shoppabili (scusate) – l’impressione è di guardare la serie non dal divano di casa, ma dal carrello del supermercato.

E con Emily in Paris succede anche l’opposto: che prodotti creati come props di scena vengano realizzati veramente da aziende del settore. È successo ad esempio col Kir Royale ready-to-drink Chamère, un’idea che Emily ha nella terza stagione della serie e ad agosto è stata lanciata da Quintessential Brands, gruppo di base a Londra ma presente su oltre cento mercati a livello globale. Un prodotto di largo consumo che nasce dall’intuizione imprenditoriale di un personaggio fittizio e dalla creatività dei suoi sceneggiatori. Lungi dal voler essere una disamina bacchettona sulla pubblicità, qui si cerca di capire che futuro ci aspetta come spettatori. Per fare le cose ci vuole budget, e se noi vogliamo continuare a pagare sei euro al mese per bingiare le nostre serie preferite senza interruzioni pubblicitarie, magari anche in alta definizione, qualcosa da qualche parte deve pur cedere. È quindi questo il compromesso storico che Emily in Paris ci prospetta, una narrazione ibrida senza soluzione di continuità fra advertising e trama?

Fossimo un marchio del lusso, di largo consumo, o un’agenzia di marketing con clienti importanti, guarderemmo a questo futuro-già-presente con entusiasmo. Le possibilità che una piattaforma del genere offre per attivazioni o campagne sono pressoché infinite, nonché un parco giochi ideale su cui testare idee e prodotti. Ma da spettatori l’entusiasmo cala: forse, quando guardiamo una serie vogliamo ancora farlo per la dimensione del sogno, per la seduzione che esercitano su di noi storie e personaggi, credibili e incredibili. Forse vogliamo ancora fruire della narrazione intesa come arte e guardare lo schermo coi nostri occhi, più che attraverso la lente di un motore di ricerca. Forse, anche in futuro avremo ancora voglia di prenderci una pausa e distrarci per un attimo dalla compulsione all’acquisto.

Nota: Netflix è stata contattata per un commento ufficiale.

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