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13:06 domenica 16 novembre 2025
In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.
Rosalía ha condiviso su Instagram un meme buongiornissimo in cui ci sono lei e Valeria Marini  Cielo azzurro, nuvole, candele, tazza di caffè, Rosalia suora e Valeria Marini estasiata: «Non sono una santa, però sono blessed», si legge nel meme.
Hideo Kojima si è “giustificato” per la sua foto al Lucca Comics con Zerocalcare dicendo che l’ha fatta senza sapere chi fosse Zerocalcare Non c’era alcuna «intenzione di esprimere sostegno a nessuna opinione o posizione» da parte di Kojima, si legge nel comunicato stampa della Kojima Productions.
Anche Charli XCX si è messa a scrivere su Substack Il suo primo post si intitola "Running on the spot of a dream" e parla di blocco della scrittrice/musicista/artista.
A poche ore dalla vittoria al Booker Prize è stato annunciato che Nella carne di David Szalay diventerà un film Ad acquisire i diritti di trasposizione del romanzo sono stati i produttori di Conclave, noti per il loro fiuto in fatto di adattamenti letterari.
Il nuovo film di Tom Ford è già uno dei più attesi del 2026, per tantissime e buonissime ragioni Un progetto che sembra quasi troppo bello per essere vero: l'adattamento di uno dei più amati romanzi di Ann Rice, un cast incredibile, Adele che fa l'esordio da attrice.
Nel primo teaser del Diavolo veste Prada 2 si vede già la reunion di Miranda e Andy Le protagoniste salgono insieme sull’ascensore che porta alla redazione di Runway, riprendendo una scena cult del film originale.

Emily in Esselunga

La quarta stagione della serie cult di Netflix porta il product placement su un livello mai toccato prima. È questo il futuro delle serie in streaming?

19 Settembre 2024

Product placement? In Emily in Paris? Avanguardia pura! Parafrasando Miranda Priestley la si potrebbe chiudere così, con laconico pragmatismo. E in effetti, chi ha guardato la quarta stagione di una delle serie Netflix più riuscite di sempre – 58 milioni di utenti e picchi di ascolto di 19,9 milioni nei primi quattro giorni di streaming – qualche domanda se l’è posta. Perché questa volta, come direbbero a Roma, dove sono ambientati i nuovi episodi e dove riprenderà la quinta stagione già confermata, non si sono regolati: per ogni episodio c’è un un marchio reale e riconoscibilissimo a dominare la scena, dieci su dieci. Sedici se includiamo gli esercizi commerciali – anche questi menzionati in modo chiaro, visibile, sceneggiato – usati come location. Da Ami Paris – protagonista già del finale della stagione precedente – a Vestiaire Collective, da Baccarat a Boucheron, Augustinus Bader o Air France, i nuovi episodi di Emily in Paris presentano una carrellata continua di marchi del lusso assurti al ruolo di copotragonisti, parte integrante della trama di ogni puntata.

Certo, il product placement non l’ha inventato Paramount/MTV Entertainment Studios, produttore dello show. Per restare nel campo dello streaming altre serie di culto come Stranger Things e Bridgerton si sono prestate a collaborazioni commerciali di varia natura. La prima con prodotti di largo consumo perfettamente integrati nella sceneggiatura, da edizioni vintage della Coca Cola ai waffles surgelati Eggo. La seconda con una serie di iniziative per cui è la serie stessa a diventare un brand che le aziende usano per lanciare edizioni limitate cavalcando il momento, come la Bridgerton Collection di Primark o la linea Lacoste x Netflix : Bridgerton. La novità con la quarta stagione di Emily in Paris, però, sta nel modo in cui si verificano questi scambi, spesso denominati co-marketing. Una modalità per cui il brand che dovrebbe essere ospite prende il sopravvento sulla narrazione stessa, ed è lecito per lo spettatore chiedersi: esattamente, cosa sto guardando?

È il caso della scena in cui, nell’ultimo episodio (spoiler alert) la capa di Emily, Silvie, sta per incontrare un suo ex italiano interpretato da Raoul Bova. Per introdurre il personaggio, che di mestiere fa il regista, non vediamo una scena di lui che dirige lo spot di un’automobile, vediamo direttamente lo spot di una Renault 5. Solo alla fine del suddetto spot la narrazione riprenderà con l’entrata in scena di Bova e Silvie. Lo spettatore resta spiazzato: ho visto una pubblicità? (Sì). E anche: quando guardo una serie, mi sta bene seguire le vicende dei miei personaggi preferiti senza interruzioni, e quindi con un formato ibrido del genere, o voglio una demarcazione netta che non intacchi la narrazione? (Chiediamocelo noi e chiediamolo sia ai produttori delle serie che a chi le acquista e le manda in onda).

Il battage pubblicitario sulla quarta stagione di Emily in Paris è partito ad agosto in grande stile con la notizia che, per la prima volta, una serie Netflix avrebbe avuto una title sponsorship e questo sponsor era Google. In pratica, se durante un episodio puntiamo la Google Lens su uno degli attori, il motore di ricerca mostra in tempo reale dove poter comprare quel capo o accessorio preciso o dove trovare qualcosa di simile. E funziona anche con i personaggi minori, non solo con gli outfit barocchi di Lily Collins e Ashley Park. Sommando il tutto – co-marketing, product placement reale o percepito, episodi shoppabili (scusate) – l’impressione è di guardare la serie non dal divano di casa, ma dal carrello del supermercato.

E con Emily in Paris succede anche l’opposto: che prodotti creati come props di scena vengano realizzati veramente da aziende del settore. È successo ad esempio col Kir Royale ready-to-drink Chamère, un’idea che Emily ha nella terza stagione della serie e ad agosto è stata lanciata da Quintessential Brands, gruppo di base a Londra ma presente su oltre cento mercati a livello globale. Un prodotto di largo consumo che nasce dall’intuizione imprenditoriale di un personaggio fittizio e dalla creatività dei suoi sceneggiatori. Lungi dal voler essere una disamina bacchettona sulla pubblicità, qui si cerca di capire che futuro ci aspetta come spettatori. Per fare le cose ci vuole budget, e se noi vogliamo continuare a pagare sei euro al mese per bingiare le nostre serie preferite senza interruzioni pubblicitarie, magari anche in alta definizione, qualcosa da qualche parte deve pur cedere. È quindi questo il compromesso storico che Emily in Paris ci prospetta, una narrazione ibrida senza soluzione di continuità fra advertising e trama?

Fossimo un marchio del lusso, di largo consumo, o un’agenzia di marketing con clienti importanti, guarderemmo a questo futuro-già-presente con entusiasmo. Le possibilità che una piattaforma del genere offre per attivazioni o campagne sono pressoché infinite, nonché un parco giochi ideale su cui testare idee e prodotti. Ma da spettatori l’entusiasmo cala: forse, quando guardiamo una serie vogliamo ancora farlo per la dimensione del sogno, per la seduzione che esercitano su di noi storie e personaggi, credibili e incredibili. Forse vogliamo ancora fruire della narrazione intesa come arte e guardare lo schermo coi nostri occhi, più che attraverso la lente di un motore di ricerca. Forse, anche in futuro avremo ancora voglia di prenderci una pausa e distrarci per un attimo dalla compulsione all’acquisto.

Nota: Netflix è stata contattata per un commento ufficiale.

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