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Essere tradotti nella propria lingua

La strana esperienza di vedere il proprio libro ritradotto nella lingua madre senza neanche più una parolaccia.

07 Luglio 2020

Finalmente ho ricevuto la traduzione in albanese di Dal tuo terrazzo si vede casa mia. La aspettavo da un pezzo ed ero un po’ emozionato: la mia opera nella mia lingua madre con le parole di un altro. Qualcun altro si era impossessato della mia opera. «Traduttore traditore», conoscevo il detto, quindi sapevo cosa aspettarmi. Solo che ci tenevo che mi avesse tradito bene. Ho letto il libro tutto d’un fiato.

Non sono un grande conoscitore della letteratura albanese e non ho letto tantissimo nella mia lingua madre, ma ciò a cui ho pensato dopo aver finito la lettura è stato: ho mai incontrato le parole «cazzo», «fica» e «scopare» in un libro albanese? No, perché in Dal tuo terrazzo si vede casa mia (pubblicato da Racconti edizioni) non ce n’era più traccia, scomparse tra eufemismi e sottintesi. Nel primo racconto, «ti diamo la fica» è diventato «ti diamo la “pesca”». Pure le virgolette. Oppure nel racconto “Scarpe”, dove Dede viene rifiutato e la porta gli sembra sbattere direttamente sul suo cazzo, in albanese invece sbatte sul «suo amichetto». E così per tutto il libro. Il massimo del turpiloquio a cui si arrivava è «merda». Poi questa parola multiuso, trap – il dizionario me lo dà come: «Il solco lasciato dal vomere sul terreno» –, che ingloba le parole stronzo, coglione e cazzo; più palloj al posto di scopare – che il significato più vicino al contesto potrebbe essere: vincere su qualcuno in un gioco.

Cercando di rispondere alla domanda di prima, il caso più azzardato di turpiloquio che mi viene in mente in un libro albanese è Kadare nel romanzo Chi ha riportato Doruntina?, che, riferendosi alla fica della moglie del protagonista, la chiama «il suo sesso». Tornando alla mia traduzione in “L’incidente” i peli della fica sono «il triangolo nero». Altro grande azzardo lessicale. Allora ho provato con Driterò Agolli, l’altro pilastro della letteratura albanese, e ad altri scrittori meno conosciuti, ma niente, vuoto. Le parole «cazzo», «fica» e «scopare» non le avevo mai viste. Mi è venuto un dubbio. Allora sono andato sul dizionario e ho cercato kar. Non l’ho trovato. Forse devo cercare kari, la declinazione. Ma niente. Pill, pilli, qi, qisha, qiju, karuc, rroçk. Niente di niente. Come se il cazzo e la fica non esistessero.

A quel punto i dubbi sono diventati seri. Ma quando ero in Albania, io, che lingua parlavo? Un frivolo gergo giovanile? Beh no, mi ricordo quando mio padre, uomo di vecchio stampo, usava il cazzo nei sui discorsi. Anzi – contraddistinto per la sua eloquenza –, a volte mio padre riusciva a dare un colorito così icastico alle sue parole che i presenti arrossivano. Allora si tratta di un modo di esprimersi di noi bifolchi del nord? E invece no. Questa volta il compagno Enver Hoxha in persona mi viene in soccorso; durante una riunione del Comitato Centrale, dice: qini motren.

Questo tipo di turpiloquio è un aspetto importante del nostro quotidiano, ormai un fatto culturale (o anticulturale), è parte del nostro modo di interagire, ed è efficace soprattutto nell’esprimere i sentimenti accesi. Che poi non è solo dell’Albania ma di tutti i Balcani. La prima volta che io ho detto «ti scopo tua madre» avevo quattro anni e l’ho detto a mia madre. Non è che avessi intenti sessuali verso la nonna – la nonna era vecchia, e comunque non era il mio tipo –, ma ho risposto così perché mia madre mi ha fatto incazzare. Mi esortava ad uscire dalla vasca da bagno perché era tardi. Ma io mi rifiutavo, si stava troppo bene lì a sguazzare mentre mia madre mi versava l’acqua calda – non c’era l’acqua corrente. A un certo punto lei dice basta e si alza per andarsene. Non andare, le ho detto. E lei, sì. Ah sì? Allora, t’qisha nanen!

In poche parole, la letteratura dovrebbe osservare quello che c’è intorno all’uomo e dentro di lui e raccontarlo usando la sua lingua. Allora perché la letteratura albanese è così bigotta? Perché usa una lingua diversa da quella della realtà di tutti i giorni? Come se vissuto e letteratura fossero due cose completamente separate, lontane tra loro. E infatti è stato così, per quasi mezzo secolo.

Mi rode dover ritornare sempre lì, ma finché non avremo digerito quel pezzo di storia continueremo ad avere il suo retaggio sul groppone. Nella seconda metà del Novecento, in Albania – secondo la teoria marxista-leninista – il progresso umano raggiunge il suo stadio più elevato: il comunismo. E la corrente letteraria adeguata a questo nuovo raggiungimento, e l’unica consentita dal partito, è il realismo socialista. Nonostante nasca proprio con lo scopo di raccontare la realtà quotidiana, i suoi aspetti problematici, le ingiustizie sociali, la povertà e via dicendo, il realismo finisce per diventare il contrario di sé stesso. Perché? Perché siamo nella fase più avanzata del progresso umano, che ha risolto tutti quei problemi. A parte che in una società del genere non avrebbe più senso neanche la letteratura – lo scrittore socialista albanese, per quanto aderisca agli ideali comunisti e i suoi intenti siano puri, cioè assolutamente non lesivi verso il regime, per poter scrivere deve ignorare completamente la realtà in cui vive, oppure raccontare il suo opposto. Prendiamo un esempio banale: da noi i negozi erano vuoti, per avere un litro di latte ti dovevi alzare alle sei del mattino, fare due ore di fila e sperare che quando arrivava il tuo turno fosse rimasto del latte. Se uno scrittore avesse raccontato questo… beh, l’avrebbero fucilato; o, se la fortuna era dalla sua, mandato al confino.

Il motivo è che scrivere una cosa del genere equivarrebbe a un’aspra critica contro il partito; stavi dicendo che le condizioni sociali ed economiche erano una miseria; stavi istigando il popolo al malcontento; avevi fini eversivi; e voleva dire che eri un infiltrato dei servizi segreti greci, o jugoslavi, o dipende da chi era il nemico del momento. Insomma, si metteva in moto un meccanismo autoprotettivo del regime – un teatrino subdolo e perverso – che ti risucchiava e ti rigettava o morto o condannato per sempre. Pertanto in quel periodo abbiamo una produzione letteraria che è totalmente sconnessa alla realtà. Gli scrittori erano creature che vivevano nelle torri d’avorio, si formavano sui libri e vivevano nei libri. Qualsiasi cosa avessero raccontato della realtà sarebbe stata inevitabilmente una critica. Una buona parte della letteratura di allora è ambientata prima dell’instaurazione del regime comunista – perché così non c’era rischio di critica –, con una particolare predilezione per lotta partigiana sotto l’occupazione fascista. In quella che viene dopo, invece, i temi sono: la lotta di classe, i successi degli operai, il reazionario o il borghese di aspirazioni capitaliste che falliva, l’individualista egoista che finiva male o si pentiva e chiedeva scusa, più poi le solite storielle d’amore – amore casto, ovviamente – e altre tematiche innocue. Viene citato spesso Kadare per aver detto: «La letteratura autentica e le dittature sono incompatibili». È un eufemismo.

Dopo trent’anni dalla caduta del comunismo gli scrittori albanesi faticano a scrollarsi di dosso tale retaggio e quindi abbiamo una letteratura che non parla dei nostri problemi, non parla la nostra lingua e non parla della nostra realtà. Esiste addirittura una lingua, insegnata già dalle elementari, che si chiama gjuha letrare, e cioè la lingua dei libri. Come se i libri fossero fatti non per raccontare di noi, ma per parlare di altri libri.

Riguardo alla traduzione di Dal tuo terrazzo, ho fatto ricorso all’editore per ripristinare un po’ di cazzi e qualche fica. Così il libro è snaturato. Avere un libro senza fica è come avere una ragazza senza fica. Cioè, adesso non voglio dire che la ragazza sta tutta nella fica, però la fica è una parte non indifferente della ragazza.

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