Attualità | Dal numero

Così parlò Elly Schlein

Idee politiche, passioni culturali e incontri importanti: cosa diceva la neo eletta segretaria del Pd in un'intervista a Rivista Studio del 2020.

di Mattia Caniglia

Nell’inverno 2020, per il numero 45 di Rivista Studio, avevamo intervistato Elly Schlein, oggi nuova segretaria del Pd. Era già vicepresidente dell’Emilia Romagna e una delle promesse della politica italiana ed europea: con lei avevamo parlato dell’importanza degli incontri in politica e della capacità di mettersi in discussione e ascoltare le ragioni degli altri.

ⓢ Cosa ti fa venire in mente la parola incontro?
Incontro mi fa venire in mente un’opportunità. Un’opportunità di crescere fondamentalmente.

ⓢ Quali sono le persone che hai incontrato che ti
hanno aiutato ad arrivare dove sei o forse a non andare dove non volevi andare?
Sarebbe una lista sterminata, perché è un percorso quello che abbiamo provato a fare in questi anni che si è articolato sugli incontri. Cioè si è articolato sul ritrovare l’ascolto che da troppo manca alla politica e quindi anche la disponibilità a lasciarsi forgiare da quell’ascolto, da quell’incontro soprattutto con persone che ne sanno più di noi. Persone più competenti sulle battaglie che fanno, su quello di cui si occupano per lavoro, su quello di cui studiano e ricercano. Alcuni degli incontri più rilevanti li ho fatti durante la mia esperienza europea. Ho incontrato colleghe e colleghi che pur in contesti nazionali molto diversi, si battono esattamente per la stessa visione di futuro. Sempre a livello europeo, ma stavolta ideale, l’incontro con il pensiero social democratico e con quello ecologista mi ha lasciato tantissimo. Se lo potessi racchiudere in due personalità sarebbero quelle di Ana Gomez, deputata portoghese di lunga esperienza che si è battuta molto contro la corruzione, e Ska Keller, co-presidente dei Verdi tedeschi.

ⓢ E invece in Italia?
So che farò torto a qualcuno non citandolo. Su due piedi ti direi: sicuramente l’incontro con Fabrizio Barca e il suo forum sulle diseguaglianze, quello con Rossella Moroni, e quello con Michela Murgia, persone che sono diventate per me un punto di riferimento fortissimo. E non posso dimenticare Pippo Civati e il pensiero ecologista di Alex Langer. Forse però non c’è un incontro in particolare ma una voglia di farsi arrotondare, plasmare dai tanti incontri e dalle cose che ascolti. Su questo, l’altro giorno mi ha colpito molto una frase di Jacinda Ardern, pronunciata appena vinte le elezioni in Nuova Zelanda: «Siamo troppo piccoli per prescindere dal punto di vista degli altri». Racchiude esattamente il mio senso per l’incontro.

ⓢ La Ardern me l’aspettavo nel tuo pantheon. Quanto sono stati gli incontri ad averti condotto alla politica?
L’esperienza fatta da volontaria per la campagna di Obama mi ha permesso di fare tanti incontri illuminanti, che hanno contribuito a piantare il seme di quello che poi è diventato il mio impegno politico concreto. Personalmente non mi aspettavo di fare politica in modo così attivo. È stato un po’ un percorso senza soluzione di continuità, dove siamo andati passo per passo, ma senza premeditazione. Non avevo idea che sarei finita al Parlamento Europeo o ad essere la Vicepresidente della Regione Emilia Romagna.

ⓢ E invece quali sono gli incontri con la letteratura, l’arte, il cinema, la musica che ti hanno influenzata?
Questa domanda coglie la mia scissione. Sono adesso impegnata attivamente in politica ma sono sempre stata un’aspirante regista e probabilmente rimarrò tale. La passione però non va mai via. Ogni anno vado al Festival internazionale del Film di Locarno, lì ho fatto tutta la mia formazione cinematografica e ho imparato che amo cose molto diverse. Sicuramente il cinema orientale, quello poetico ma di grande di sostanza di Wong Kar-wai o Kim Ki-duk. Tra molti dei loro film uno in particolare: Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera. Ma apprezzo stili anche molto estetizzanti: tipo Tarantino o Baz Luhrmann. E naturalmente il cinema più impegnato, che forse ci si aspetta da me, come quello di Ken Loach. La fissazione però è per il documentario, che oggi secondo me esprime una grande stagione di creatività e rappresenta anche un mio inizio: per il documentario Anija-La nave ho fatto l’assistente alla regia. A livello musicale, dico un nome fra tutti perché sono in troppo pochi a conoscerli: i Rural Alberta Advantage, un gruppo indie canadese che fa musica pazzesca. Mi piacciono molto anche i Mumford & Sons e i The National.

 Sembra che la tua storia politica sia una storia in cui si coltiva dissenso. Hai spesso detto “meglio creare problemi”. Oggi in molte democrazie occidentali sembra si faccia fatica a recuperare il dissenso, a integrarlo, in un confronto politico che – basti guardare alla campagna per le presidenziali Usa – diventa sempre più violento, fatto di bassi stimoli emotivi e divisivo. C’è bisogno di dissenso nella politica di oggi? E come lo recuperiamo all’interno del processo democratico?
C’è assolutamente bisogno di dissenso. Ho iniziato questo percorso politico con le campagne di Occupy Pd contro le larghe intese da persona che comunque aveva contribuito alla campagna elettorale del Pd. Percorso che poi si è articolato con la partecipazione alle primarie del Pd accanto a Civati. Non abbiamo vinto quelle primarie, e ci siamo ritrovati seppur con un risultato straordinario in una posizione di minoranza. L’incapacità di ricondurre quel nostro dissenso nelle dinamiche del partito ci ha poi portato anche a scelte sofferte, come quella di uscire da quel contesto. In generale, se rinunciamo alla possibilità che posizioni contrastanti si incontrino, corriamo il rischio di perdere l’opportunità di trovare soluzioni più efficaci.

“Riappassionare”, “Coraggio”, sono termini ricorrenti del tuo lessico politico e di comunicazione e che sembrano suggerire un approccio “empatico”. C’è bisogno di una nuova leadership fatta anche di intelligenza emotiva per cambiare questa politica?
Assolutamente sì. È fondamentale. L’empatia in politica è una parte importante, perché ti tiene a terra. Cioè ti tiene comunque legato alla quotidianità delle persone che cerchi di rappresentare. La cosa però ha i suoi pro e i suoi contro. Soprattutto perché quando ti occupi di fragilità in qualche modo quelle fragilità ti rimangono addosso e finisci per portarle con te. Non ti lasciano indifferente. Ma sicuramente l’empatia aiuta a creare legami più inclusivi. E soprattutto aiuterebbe a superare un grande vulnus irrisolto del nostro sistema politico: quello del modello dell’uomo solo al comando. Che non possiamo assolutamente risolvere con il modello della donna sola al comando. C’è bisogno invece di creare nuovi meccanismi che portino al comando squadre di persone, con competenze diverse e che siano capaci di avere una visione a 360 gradi di quelle che sono le complessità dei problemi sociali economici e ambientali. Che questo sia il modello di leadership da spingere con forza penso l’abbia imparato anche qualche leader nostrano, che sembrava fortissimo ma che poi, senza questa capacità di farsi crescere attorno una nuova classe dirigente, si è sbriciolato molto in fretta.

ⓢ Dicevi delle donne al comando. Oggi molte donne corrono (e vincono) per le più alte cariche in numeri senza precedenti, ma i progressi sono stati lenti. Siamo passati da 12 donne capo di stato nel ’95 a sole 22 oggi. Soltanto 14 Paesi nel mondo su 193 hanno parità di genere nei loro consigli dei ministri. La percentuale di parlamentari donne nei parlamenti dei Paesi del mondo rimane inferiore al 25 per cento in media. Solo 4 Paesi al mondo hanno raggiunto la parità di genere quest’anno. Cosa ostacola l’incontro tra i diritti delle donne e il loro accesso al potere politico?
Quello che è di ostacolo e che siamo immersi in un sistema a livello italiano, ma anche a livello europeo, che fa i conti con secoli e secoli di cultura patriarcale. In politica i dati sono quelli che davi tu ed effettivamente anche in Europa siamo molto indietro. Un’Europa che peraltro ha inserito nel Trattato di Lisbona all’articolo 8 un’innovazione culturale straordinaria: il principio del gender mainstreaming. Cioè non politiche di genere a compartimenti stagni, ma un approccio di genere trasversale a tutte le politiche pubbliche. Il punto, infatti, non è cambiare lo sguardo sulle donne ma integrare lo sguardo delle donne. A livello di partiti gli ostacoli sono anche legati ad atteggiamenti sessisti e non è una questione di destra o di sinistra. Anche a sinistra il sessismo c’è e tanto. Ma il problema sistemico e fondamentale, che poi sta a monte di mille altri problemi, è la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Questo è il primo ostacolo irrimandabile per le donne. I lavori domestici, la cura dei figli, la cura degli anziani non autonomi, la cura delle persone con disabilità, tutto ricade sulle spalle delle donne e in maniera sproporzionata. Come possono queste donne, e quelle che anche lavorano, riuscire a dedicarsi alla cosa pubblica? Per cambiare marcia serve un approccio di genere che coinvolga anche gli uomini. E non si tratta solamente di diritti, ma anche di opportunità economiche. Anche l’Ocse ci dice che con una piena parità occupazionale al 2030 si libererebbero 12 punti aggiuntivi di Pil. Per l’Italia, Banca D’Italia ci dice che al raggiungimento del 60 per cento di occupazione femminile si legano sette punti di Pil aggiuntivo.

ⓢ Questo è un momento di forte frizione lungo differenze sociali, economiche, culturali, religiose secondo un processo di polarizzazione ormai visibile nelle nostre società. Si accentua un polo dell’appartenenza per ritrovare in esso un rifugio, rifiutando il diverso. Lungo i confini – geografici e sociali – si costruiscono muri per soddisfare un bisogno di conservazione connesso a una paura provocata dalla caduta di certezze sociali e identitarie. Come combattiamo questa vertigine identitaria e come la spieghiamo ad una società provata nelle sue energie culturali ed economiche?
È verissimo, in un momento di crisi c’è un rigurgito identitario. C’è chi cerca un’identità forte. Veniamo da più di un decennio di processi di globalizzazione che hanno scardinato alcuni riferimenti. Si è rinunciato a regolare aspetti importanti di questi processi e il risultato è che molti si sono sentiti esclusi. Ai cambiamenti vertiginosi si è aggiunta una crisi triplice. Demografica, dove la popolazione Europea invecchia mentre i sistemi di welfare non sembrano essere preparati a gestire questo mutamento. Una crisi climatica, che ha polarizzato e polarizza a livello politico. Infine, una crisi geopolitica con diseguaglianze globali e conflitti sempre più accesi. Davanti a tutto questo, una persona – che è anche più povera di prima a causa di queste crisi – oggi guarda con paura al futuro. Quella paura, qualcuno ha raccontato che dovesse essere rivolta verso chi sta peggio. E qui il meccanismo, la strategia della destra nazionalista, di questa internazionale nera.

ⓢ Non sono molto d’accordo. Più che una certa destra che approfitta con grande maestria vedo opportunismo. La domanda vera è come approcciamo le persone intimorite da tanto cambiamento?
Facevo una premessa per dire due cose. La prima. Ti citavo l’internazionale dei nazionalisti. La retorica che certe destre usano è la stessa, io l’ho osservata molto da vicino al Parlamento europeo, e utilizzandola si rafforzano a vicenda. Così il muro di Orban rafforza i porti chiusi di Salvini, rafforza Le Pen, il muro di Trump e le idee di Farage. Noi l’internazionalismo non lo possiamo lasciare ai nazionalisti. La seconda. Ma cacchio, mentre questi qui si fanno forza a vicenda, noi dove siamo? Perché sulle battaglie delle forze progressiste ed ecologiste delle sinistre europee non riusciamo a fare la stessa operazione e appoggiarci a vicenda? I nostri avversari esprimono una visione distorta della società e del futuro ma chiara. Noi non esprimiamo una visione chiara. Non possiamo rispondere alla visione degli altri né con il silenzio, né ammiccando a idee che non ci appartengono, né con la timidezza. Ma questo è esattamente quello che è successo in questi anni a tutte le forze socialdemocratiche europee. Bisogna quindi riconoscere che c’è stato un cedimento culturale. Non c’è stata da parte nostra la capacità di interpretare le grandi trasformazioni della società che hanno terrorizzato le persone.

ⓢ E ora che si fa?
Ora non possiamo certo indicare con la stessa efficacia un nemico “altro”. Tantomeno questo nemico lo possiamo identificare solo con il “fascista cattivo”. Non è con un contrasto valoriale di questo tipo che riesci a ricostruire una connessione con quelle fasce che si sono empaticamente riconosciute in un messaggio diverso dal nostro. Bisognerà partire dal riconoscere che alcuni tra le fasce più svantaggiate sono davvero convinti che il problema dell’Italia sia stata l’immigrazione senza rendersi conto che in termini redistributivi abbiamo un problema più grosso. E poi scardinare questa retorica e spiegare che quel dito che gli altri puntano in giù per dire se oggi si sta male è per colpa dell’immigrato arrivato a Lampedusa, va girato all’insù perché l’unico “noi e loro” di cui ha davvero senso discutere è quello che divide le 26 persone più ricche al mondo dalla metà più povera della popolazione mondiale, circa 3,8 miliardi di persone.

ⓢ Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo avuto grandi mobilitazioni: per il clima, contro le discriminazioni, contro il razzismo, le piazze del Black Lives Matter e le mobilitazioni per i diritti delle donne. Ma da contro a queste abbiamo anche visto crescere la diffusione di teorie cospirazioniste che negano il cambiamento climatico, sfiducia nei confronti della scienza, estremismo violento di destra e Islamista, suprematismo bianco. Come si trova una via in una realtà sempre più fatta di opposti e quindi irragionevole, considerando che certe mobilitazioni hanno comunque creato un nuovo senso di appartenenza, di entusiasmo?
Non possiamo banalizzare le paure delle persone. Dobbiamo provare a spiegare che stanno dando loro una lettura sbagliata di dove sono i problemi e che soprattutto, quel messaggio delle destre crea empatia perché enuncia un problema sentito ma sfugge sempre quando si deve dare una soluzione concreta. Per arginare una polarizzazione che ormai tocca tutti gli aspetti non basta aprire un dibattito costruttivo con la parte politica avversa. Bisogna anche ricordarsi che chi fa politica ha una responsabilità che è quella non di soffiare sui venti della tensione sociale che le disuguaglianze inevitabilmente producono. E da qui poi andare ad agire sulle cause di quelle disuguaglianze. Fare cioè in modo che a ciascuno non manchi una risposta commisurata al bisogno che esprime.

ⓢ Qualcuno direbbe: la coperta è corta…
Forse. Ma la coperta siccome è corta va utilizzata in maniera progressiva. Il principio di progressività, questo sconosciuto, in Italia lo abbiamo anche in Costituzione. Quando in questi mesi abbiamo dovuto stanziare i contributi per l’affitto in Emilia Romagna, non abbiamo dato a tutti allo stesso modo, ma dato, a seconda del calo del reddito causato dall’emergenza Covid-19, un contributo diverso, modulato. Se adottiamo questo approccio possiamo ridurre le tensioni sociali e forse porre le basi per un incontro. Insomma, se adottassimo misure volte a mettere in pratica una vera coesione sociale, potremmo ridurre i conflitti sociali e quelli tra categorie. E magari alla fine scopriremmo che la società più sicura è proprio quella più inclusiva, perché è quella che si prefigge di non lasciare indietro nessuno. Meno marginalità significa anche meno radicalizzazione.

ⓢ Parli di coesione ma anche a livello europeo questa sembra mancare. La crisi Covid è stata l’ennesima dimostrazione di come per rilanciare il ruolo dell’Unione serva maggiore coesione interna. Tuttavia, i governi degli Stati membri, finora hanno costantemente preferito anteporre gli interessi nazionali a quelli comuni servendo scopi politici interni. Tu lo hai visto con i tuoi occhi lavorando al dossier sulla revisione del regolamento di Dublino. Che problema ha l’Unione Europea?
Il problema è sempre lo stesso ed è peggiorato. Ho usato parole forti a Strasburgo per descrivere la situazione quando dissi che «con questi leader l’Europa non si sarebbe mai fatta». C’è una drammatica incapacità di visione comune. Vincono il particolarismo, gli interessi dei singoli e gli egoismi nazionali, ma il vero problema è che vincono su partite su cui nessuno si salva da solo, cacchio! Se per uno stato è conveniente continuare a fare una politica di concorrenza fiscale aggressiva anche a detrimento degli altri, sarà complicato trovare una linea d’intesa e arrestare quelle politiche. La questione del regolamento di Dublino ha dimostrato però che in organi come il Parlamento europeo accordi di visione comune possono essere raggiunti. È in Consiglio europeo che la situazione diventa problematica. Questo perché i primi ministri a quel tavolo non si siedono guardandosi in faccia ma guardando verso casa. Così possono sempre dire “Visto che bravo? Ho difeso gli interessi del nostro Paese”, mentre guardano solo alla prossima scadenza elettorale e si rifiutano di comprendere come, su alcune questioni, da soli non abbiamo chance, soprattutto in questo contesto geopolitico sempre più complesso.

ⓢ Con Joe Biden cambieranno le cose?
Biden non è esattamente il mio modello, ma facevo il tifo per lui. Anzitutto è un colpo per i nazionalisti di tutto il mondo, perché come certe destre si sono rafforzate a vicenda in passato, ora la sconfitta di Trump produrrà ripercussioni anche per gli altri. Dal punto di vista delle politiche mi aspetterei sin da subito una gestione più accorta di questa pandemia, forse l’elemento che Trump ha pagato di più in queste elezioni. Molto più complessa la lettura sulla politica estera. Ma intanto sono contenta che ci sia Kamala Harris accanto a lui. Spero che questo sia il segnale di discontinuità forte di cui avevamo bisogno, soprattutto nel contesto internazionale, considerando che il multilateralismo è completamente in crisi. E questo anche data l’azione dell’ex presidente Trump.

ⓢ Resta che le cose devono cambiare a livello europeo. Come lo facciamo?
Dalle piazze delle grandi mobilitazioni che citavi prima ci vengono le maggiori speranze e i migliori insegnamenti sul come cambiare questa Europa. Prendiamo i Fridays for Future di Greta. Sono stati così efficaci perché il tema di quella protesta è stato subito interpretato come un tema che andava oltre ogni frontiera generando movimenti in tutta Europa, movimenti che si sono alimentati a vicenda. Questo genere di spirale positiva ha un carattere molto più forte di qualsiasi discorso che abbiamo fatto a Strasburgo, anche e soprattutto al fine di mettere i temi che contano in agenda. L’indicazione non è solo sulle modalità, ma anche sui temi. Oggi noi siamo chiamati a guidare una svolta sia sul versante sociale che su quello ambientale e della transizione ecologica – che come avrai capito sono la mia ossessione – tenendo insieme ciò che la società sta già tenendo insieme e che solo la politica divide. Ricongiungendo diversi sentimenti di appartenenza. Forse il mio personale è questo. Io sono un coacervo di appartenenze incompiute che non sono in contrasto tra loro ma convivono.

ⓢ Il risultato di un sacco di incontri insomma…
Esatto. (ride)

ⓢ È stato un piacere Elly, qualche “cacchio” posso tenerlo?
I “cacchio” vanno bene, non fanno male a nessuno. Danno colore, tipo il Crystal Ball.