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Perché il nuovo film di Ron Howard è stato distrutto dalla critica

Anche se è piaciuto agli spettatori, Elegia americana, su Netflix, ha innervosito la maggior parte dei giornalisti.

di Giuseppe Giordano

Elegia americana, di Ron Howard, su Netflix

All’inizio, l’attesa per Elegia americana dipendeva dai grandi nomi coinvolti nella realizzazione del film: Ron Howard, la sceneggiatrice della Forma dell’Acqua, cioè Vanessa Taylor, Amy Adams, Glenn Close e Netflix. Il 24 novembre, data di uscita, il motivo di maggiore interesse era diventato un altro: recensioni terribili. Così brutte da posizionare l’ultima opera di un regista da Oscar al ventiseiesimo posto tra i peggiori film distribuiti in esclusiva da Netflix. Nella parte bassa della classifica di Metacritic, creata assegnando un voto a ogni recensione in modo da fare una media ponderata, Howard è in compagnia di altre produzioni potenzialmente promettenti: Murder Mystery, con Adam Sandler, The Cloverfield Paradox, ultimo capitolo di una trilogia per il resto assai fortunata e Mute, del tutto sommato bravo Duncan Jones. La differenza è che Elegia americana agli spettatori è piaciuto. La forbice è ampia: valutato (al momento) 39 su cento dai giornalisti, secondo le stime di Metacritic, diventa una visione da otto (su dieci) per gli utenti.

La contraddizione dipende dal fatto che una delle due categorie, quella dei critici, ha utilizzato strumenti interpretativi che gli spettatori non hanno preso in considerazione. La storia è quella di J.D. Vance, nato a Middletown, Ohio, ma con il cuore in Kentucky, a Jackson. Nei flashback, J.D. tenta di scappare da un contesto che non offre molte possibilità di avanzamento sociale, mentre viene tirato a fondo dalla madre Bev (Amy Adams), con chiari problemi psichici non diagnosticati, e tenuto a galla da Mamaw (Glenn Close), nonna ruvida ma temprata e dalla statura morale non comune. Nel presente J.D. è uno studente di legge a Yale che torna a casa per assistere Bev, ricoverata in ospedale dopo un’overdose, ormai consapevole di come i legami familiari siano un ostacolo che lo separa dal futuro che sogna. Tutto intorno si muovono altri hillbillies, gli uomini delle colline, da cui deriva il titolo originale del film e dell’autobiografia da cui il film è tratto (Hillbilly Elegy).

Nel volume che ha ispirato Ron Howard, J.D. Vance descrive dettagliatamente la quotidianità dei montanari americani e mette a nostra disposizione un prezioso repertorio di momenti significativi, dai quali traspare chiaramente uno stile di vita alieno ai lettori. Alcuni, tra cui il New York Times, hanno individuato in Vance un interlocutore in grado di spiegare ai liberal la cultura hillbilly e decifrare una parte del voto anti-estabilishment che aveva spiazzato gli osservatori con la vittoria di Trump nel 2016. Il sottotitolo del volume americano, assente nell’edizione italiana del 2020, tradisce un’ambizione sociologica: “A memoir of a family and culture in crisis”, proprio come se Vance volesse elevare a vissuto collettivo la storia della sua famiglia. Al contrario, i detrattori sottolineano che un’autobiografia è un’autobiografia e il racconto di un’intera comunità non può passare attraverso un filtro di nome James David. Per i sostenitori di questa tesi, Vance non sarebbe un hillbilly (lui tra le montagne del Kentucky avrebbe vissuto per poco), inoltre il reddito della famiglia di J.D. sarebbe stato sì basso, ma pur sempre superiore a quanto può dichiarare la maggior parte dei bianchi operai degli Appalachi.

A conti fatti, Elegia Americana è finito nel tritacarne delle due Americhe che sperava di mettere in comunicazione. Il film ha innescato un deja-vù e il dibattito prodotto dal libro si è ripetuto molto simile. Le osservazioni negative si sono concentrate su tre punti: l’atteggiamento paternalistico di Ron Howard, un ricco che ha deciso di raccontare al mondo la vita dei poveri; i facili stereotipi utilizzati per rappresentare la vita degli hillbillies; l’intenzione chiarissima di fare un film da Oscar, più imbarazzante e scorretta se perseguita attraverso i primi due punti. «Puoi capire quando ricchi privilegiati che non sono mai stati poveri scrivono sceneggiature sull’essere poveri dal fatto che includono sempre scene in cui la carta di credito del povero viene goffamente rifiutata», sostiene Aja Romano in una conversazione a più voci su Vox. Secondo la giornalista originaria dell’America rurale, i poveri sarebbero molto bravi con i calcoli finanziari: «Conosci ogni centesimo che hai in banca, fino all’ultimo penny, e hai già calcolato esattamente quanto gas puoi mettere nella tua macchina e quanto lontano questo gas ti porterà prima che finiscano i soldi». Nella sezione dedicata alle opinioni di Nbc News, Tyler C.Lee, avvocato praticante con una storia molto simile a quella di Vance, definisce Elegia Americana «due ore di poverty porn che suonano come l’ennesimo modo di J.D. Vance di speculare sul dolore di una comunità che dice di avere in compassione». The Ringer è sulla stessa onda: Netflix si sarebbe assicurata «un pezzo di intrattenimento in streaming per la fine dell’anno che tenta di vendersi facendo leva sulla contrapposizione politica.

In realtà Elegia Americana comunica soprattutto un grande sforzo per aggirare ogni questione potenzialmente incendiaria, rischiando comunque di far arrabbiare qualcuno per un peccato di ignavia. Nelle sue argomentazioni più discutibili, Vance sostiene che gli hillbillies scontano un retaggio di autocommiserazione e passività ereditato da una cultura cambiata in peggio. È strano resuscitare il sogno americano a più di dieci anni dall’avvio del processo di rottamazione, cominciato con la Grande Recessione e proseguito con l’irruzione sulla scena di Trump e i suoi elettori. Gli economisti già lo sapevano, ma dal 2007-2008 è diventato molto più difficile sostenere che l’ascensore sociale del capitalismo americano non fosse in panne. Eppure, secondo Vance, la ricetta dell’olio di gomito, che ha funzionato per lui, può funzionare per tutti. Quando nel libro si parla della percezione della mobilità sociale tra gli abitanti di Middletown, l’autore prova a scandalizzarci con parole in realtà più consapevoli rispetto a una riesumazione della narrativa dell’american dream. Si legge: «C’era, e c’è ancora, l’idea che quelli che ce la fanno si possano dividere sostanzialmente in due categorie. La prima è quella dei fortunati: vengono da famiglie ricche che hanno i contatti giusti (…). La seconda è quella dei meritevoli: sono nati con un cervello fino e non potrebbero fallire neanche se ci provassero».

Il film di Ron Howard asporta il nucleo di un messaggio politico discutibile, ma insieme all’acqua sporca getta via anche la parte di analisi che aveva regalato al libro la sua dose di attenzioni. Resta in piedi una vicenda edificante, ma banale. Materiale buono per un melodramma intenzionalmente ridotto ai minimi termini per incoraggiare gli spettatori a mettere in moto le emozioni senza smarrirsi nelle sfumature interpretative. Il risultato finale non è buono, ma neanche così cattivo da suscitare reazioni sdegnate. Invece Entertainment Weekly pubblica una recensione da zero: «È due film messi insieme: uno ridicolmente brutto, uno noiosamente brutto». Su Vox Alissa Wilkinson lo considera «il film peggiore visto da anni», un’affermazione che richiederebbe almeno qualche giorno di riflessione prima di essere messa per iscritto, mentre Polygon ne parla come «un esempio eccellente di fallimento totale: dallo script, alla realizzazione, alla recitazione». Non è chiaro cosa giustifichi simili toni, a meno che non si voglia caricare Elegia Americana degli stessi significati politici del libro, che però sono andati perduti durante la trasposizione.

A differenza dei giornalisti, per il pubblico non c’è nessun caso Hillbilly Elegy. Gli spettatori hanno visto il film senza sovrastrutture e hanno colto una sintonia con fatti e personaggi che potrebbe essere senso ultimo dell’operazione di Netflix. A conti fatti la cosa peggiore di Elegia americana ha a che fare solo indirettamente con Elegia americana, ed è un dibattito fuori fuoco alimentato da chi risponde a una raffigurazione edulcorata del capitalismo statunitense con toni troppo carichi per poter essere anche credibili. D’altra parte lo zero non lo si dà neanche a scuola, e se succede la maestra è chiaramente in malafede.