Cultura | Cinema
Douglas Sirk, il tedesco che inventò il melò hollywoodiano
Il teatro politico nella Repubblica di Weimar, l'incontro con Hitler, la fuga in un allevamento di polli in California, il successo commerciale e la rivalutazione intellettuale: storia di Douglas Sirk, raccontata in Lo specchio della vita, in uscita l'1 luglio per il Saggiatore.
Tra il 1950 e il 1959 Douglas Sirk fece ventitré film, la maggior parte con l’etichetta di melodrammi. Alcuni, come Secondo amore, vennero targetizzati a un pubblico femminile, con pubblicità sulle riviste da donna. Come le foglie al vento raggiunse il record di biglietti venduti il giorno dell’uscita. Tempo di vivere, a livello di incassi, diventò il film dell’anno. Lo stesso accadde con Lo specchio della vita e non fu una sorpresa per la Universal. La maggior parte di questi film venivano prodotti aspettandosi che andassero molto bene al botteghino. La stampa li accostava a delle soap e, a parte qualche nomination per le attrici e una vittoria agli Oscar come best supporting actress, venivano ignorati dai premi. Oggi questi film possiamo vederli nelle salette del quinto arrondissement, tra un Wong Kar-Wai e un Pasolini, oppure su Mubi. Questo passaggio postumo, questa elevazione a pane per cinematografari d’essai, si deve soprattutto a Jean-Luc Godard, che scrive un elogio sui Cahiers du Cinéma nel ‘59, paragonando i movimenti di camera di Sirk alle pennellate di Fragonard. Truffaut fa degli accostamenti con Balzac. Fassbinder più di tutti si spende poi per farlo diventare un maestro a posteriori: «Ha girato i film più teneri che io conosca: sono i film di un uomo che ama la gente invece di disprezzarla come facciamo noi», richiamandolo espressamente nei suoi film – cos’è La paura mangia l’anima se non un remake da Nuovo Cinema Tedesco di Secondo amore? Troviamo allusioni all’opera di Sirk nelle pellicole di François Ozon, Pedro Almodóvar, Todd Haynes, David Lynch e John Waters. Questi ammiratori sono quasi tutti autori con grande visibilità, seppur amati anche dai cinefili snob, film da Cannes, insomma. Successo e autorialità, un equilibrio che Sirk ha raggiunto in due fasi separate della vita. Ma, come ha detto più volte lui stesso, «il successo non mi interessa». Dopo gli exploit da botteghino degli anni Cinquanta, Douglas Sirk torna in Europa, si trasferisce in Svizzera, e smette di fare film, se non si contano quei tre girati con i suoi studenti della Scuola di Cinema di Monaco, dove insegna negli anni settanta. «Mi dicevano “Sei arrivato all’apice della tua carriera e molli tutto”. Di sicuro, prima di allora non era mai accaduto niente di simile a Hollywood, dove il successo è tutto. Nessuno capì il mio gesto».
Ma Sirk aveva già avuto successo quando ancora si chiamava Detlef Sierck. Era nato in Germania nel 1897 da un padre danese che faceva il giornalista. Aveva studiato filosofia e storia dell’arte tra Jena e Amburgo, era stato studente di Panofsky, era andato ad ascoltare le prime lezioni di Einstein sulla relatività, era amico di Max Brod e appassionato lettore di Kafka. Negli anni della Repubblica di Weimar era diventato un riconosciuto regista teatrale, portando sulle scene diverse opere, molte di sinistra, come quelle di Brecht, o uno spettacolo su Sacco e Vanzetti che venne interrotto dalle camicie brune. Sono i nazisti a spingerlo verso il cinema, ad allontanarlo forzatamente dal teatro, anche per il suo (secondo) matrimonio con una donna ebrea. Resta in Germania fino al 1937, anni già molto pericolosi e il motivo viene fuori nella nuova versione di Sirk on Sirk, il libro-intervista di Jon Halliday appena tradotto in italiano e in uscita l’1 luglio col titolo Lo specchio della vita per il Saggiatore. Sirk aveva chiesto ad Halliday di aspettare la sua morte per pubblicare nel libro alcuni passaggi, come commenti sull’omosessualità di Rock Hudson o, evento strappalacrime quanto un suo film, la storia del suo unico figlio. Prima di sposare l’attrice teatrale ebrea Hilde Jare, Sirk era stato per qualche anno con Lydia Brinken, diventata poi fervente hitleriana. Avevano avuto, appunto, un figlio e, per via del secondo matrimonio “impuro”, Brinken era riuscita ad avere un ordine restrittivo perché lui non vedesse il figlio, diventato attore cinematografico, soprattutto in pellicole naziste di propaganda. Così Sirk era rimasto il più possibile in patria, con dolore, per poter almeno intravedere da lontano il giovane su qualche set, o sugli schermi di qualche film che elogiava il Reich.
Sirk aveva sottovalutato Hitler, l’aveva anche incontrato a una festa, prima che diventasse Cancelliere, chiedendosi «cosa ci fa gente così, qui?». Ma a un certo punto le cose si fanno troppo rischiose e decide di andarsene in America, senza soldi – «pensavo che non avrei mai più fatto cinema», dice. Invece qui inizia la sua seconda fase da cineasta, dopo un paio d’anni di vita californiana – in un allevamento di polli nella San Fernando Valley, in una piantagione di erba medica e di avocado, – gira per caso un film sui produttori di vini della Napa valley e poi ottiene un contratto con la Columbia dove però si trova malissimo. Fa alcuni film di cui non va per niente fiero, costretto a subire le angherie dei produttori. Riesce poi a stracciare il contratto e per un anno va a cercare il figlio in Europa, dove scopre che è morto sul fronte, nella campagna di Russia. Tornato a Hollywood, inizia a collaborare con la Universal, che gli darà la possibilità di affermarsi come re del melodramma da botteghino.
«Non c’è nessuno che fa film americani belli come i suoi», gli diceva spesso il direttore degli studios della Universal. Un tedesco, colto, con un passato nel teatro, che rappresenta i sobborghi americani meglio di chiunque altro; sembra strano (ma in fondo chi ha raccontato Roma meglio di un riminese?). La differenza tra Sirk e gli altri suoi numerosi colleghi expat arrivati a Los Angeles dall’Europa in fiamme è che a lui l’America interessava davvero. Fa anche un western a un certo punto, dice, per poter vedere e conoscere i nativi. «Viaggiavo ogni volta che potevo, mentre quasi tutti gli altri se ne stavano comodi comodi a Hollywood a parlare dei bei tempi andati e non videro mai niente dell’America». Questa curiosità si mescola con un bagaglio drammatico – Shakespeare, Euripide, Tennessee Williams… – che porta le meccaniche e l’intensità della tragedia classica nel Dopoguerra, infilandoci dentro quei tic sociali della classe medio-alta statunitense, comprese le ingiustizie razziali, il tutto in un’atmosfera di saturazione cromatica che avvolge subito lo spettatore. Nei film di Sirk ci sono degli ostacoli, che si inseriscono tra i protagonisti con cui ci immedesimiamo, e il raggiungimento dell’amore, della felicità e della salvezza, una semplicità narrativa che ha spesso tratto in inganno – leggendo le parole di Sirk in questo libro ci rendiamo conto di quanti strati di pensiero ci siano sotto le lacrime di Jane Wyman e Susan Kohner e Lauren Bacall, per troppo tempo considerate scenate da film di serie B.