Cultura | Cinema

Documentare il Covid-19

Il bisogno di raccontare la pandemia ha dato il via a una miriade di progetti, alcuni già usciti, altri in preparazione: un elenco di cose da vedere.

di Studio

Una scena tratta da "The Ark" di Dan Wei

Guardando indietro agli ultimi dieci anni di produzione audiovisiva, è impossibile non notare la “rinascita” del genere documentaristico, un movimento che ha contribuito, e non poco, al successo delle piattaforme di streaming, ma che ha anche ottenuto i suoi riconoscimenti nelle sale cinematografiche, quando ancora erano aperte. Basta pensare al recente successo di Free Solo, documentario diretto da Jimmy Chin e Elizabeth Chai Vasarhelyi, che racconta l’impresa dell’arrampicatore Alex Honnold sulla parete di El Capitan e che ha incassato quasi 30 milioni di dollari al botteghino. Nel 2019 si è anche aggiudicato l’Oscar per il Miglior documentario. Oppure basta scorrere il catalogo delle piattaforme per ritrovarne di tutti i tipi: su specifici casi di cronaca (e il true crime, di fatto, è un genere a sé), su eventi storici e personaggi celebri, soprattutto musicisti, sebbene questi ultimi siano notoriamente i più artefatti e deludenti. Com’era prevedibile, già dalla fine di quest’anno e per i prossimi a venire, il documentario sarà il genere scelto da molti cineasti per raccontare l’annus horribilis che è stato il 2020, e in particolare la pandemia causata dal Coronavirus.

La scorsa primavera, Francesco Longo e Clara Mazzoleni si erano chiesti qui su Rivista Studio in che modo letteratura e arte avrebbero metabolizzato gli eventi eccezionali che hanno colpito il mondo negli ultimi mesi, e quando avremmo avuto il grande romanzo o la grande opera d’arte capaci di sublimare quegli eventi e restituircene un significato condiviso. Guardando al passato, è molto probabile che non accada tanto presto: è molto più verosimile che consumeremo prima, come facciamo oggi con le notizie che si rincorrono senza tregua sulle nostre timeline, un documentario che racconti cos’è successo in questa o quella parte del globo, cos’è andato storto o al contrario cosa è stato fatto bene. Ad aprile, Vulture segnalava che almeno 20 progetti di questo tipo erano in cantiere, tutti a firma di documentaristi riconosciuti e apprezzati – da Laura Nix (Inventing Tomorrow) a Drea Cooper (Flint Town) fino ad Alex Gibney (Taxi To The Dark Side) – che negli ultimi anni hanno realizzato alcuni dei migliori documentari che abbiamo visto arrivare sui grandi e piccoli schermi. Se le motivazioni a imbarcarsi in un’impresa di questo tipo sono piuttosto chiare, le sfide che essa comporta sono nuove anche per chi è avvezzo a filmare e raccontare realtà difficili. Come ha spiegato a Vulture Matthew Heineman, che ha diretto Cartel Land e City of Ghosts, due docufilm dedicati rispettivamente ai cartelli messicani e allo Stato Islamico, «Nel realizzare i miei documentari ci sono state esperienze decisamente spaventose e intense. Ma per la maggior parte, tornando a casa a New York, potevi staccare il cervello da quello che avevi vissuto, decomprimere. Una delle parti più insidiose e difficili del fare un film come questo è che il Coronavirus è onnipresente. È sempre intorno a te. È invisibile, quindi non puoi sfuggirgli. Non puoi abbassare la guardia. Non riesci mai a smettere di pensarci».

E la sua onnipresenza comporta almeno altri due fattori di rischio da tenere in considerazione. Il primo riguarda i nuovi, rigidi, protocolli di sicurezza da seguire durante le riprese, dal rinunciare alle interviste di persona a favore di conversazioni condotte su Zoom, FaceTime e Skype, fino allo stabilire procedure di sterilizzazione ad hoc per la consegna dei filmati. Quindi c’è l’assuefazione del pubblico, qualcosa che soprattutto i distributori temono: dopo tutto quello che abbiamo passato quest’anno e la mole di notizie che abbiamo letto e introiettato sul virus, quanti vorranno andare al cinema o guardare in tv un documentario che ripercorre quello che è successo? Un dubbio legittimo, ma ciononostante di documentari sulla pandemia ne usciranno a bizzeffe. Il Guardian ha recentemente stilato una lista di quelli più interessanti, a partire proprio da Totally Under Control di Alex Gibney, che ripercorre lo spettacolare fallimento dell’amministrazione Trump nella gestione della pandemia: il titolo, non a caso, viene dalla dichiarazione dell’ormai ex presidente due giorni dopo la scoperta del primo caso nel Paese: «tutto sotto controllo», disse.

Quindi c’è The Curve di Adam Benzine (su Vimeo), che racconta la stessa storia, ma «molto più concentrata», scrive il Guardian, «e più commuovente, con gli americani intervistati che raccontano la storia dei familiari che hanno perso». Non mancano poi quelli che cercando di raccontare cos’è successo in Cina: 76 Days di Weixi Chen, Hao Wu e un terzo cineasta anonimo, girato in quattro ospedali durante il blocco di Wuhan, con i registi che vagavano per i reparti con una telecamera portatile; CoroNation di Ai WeiWei (su Vimeo) che restituisce un’immagine più critica della risposta cinese e in particolare di quella militare; e The Ark di Dan Wei, che invece racconta come una famiglia ha affrontato la malattia (che non è il Covid-19) della madre nel bel mezzo della pandemia. È una storia molto circoscritta, ma probabilmente una di quelle che meglio riesce nell’intento di descrivere cos’è stato il 2020 per milioni di persone nel mondo.

Nell’introdurre il suo elenco di 62 titoli stilato per il New Yorker a ottobre, Richard Brody ha scritto che «Da quando la pandemia e la vita sociale sono state gravemente limitate, i documentari sono diventati la mia ossessione, anche più del solito. La loro vera essenza è fornire connessioni virtuali a persone in tempi e luoghi lontani, e a esperienze che altrimenti rimarrebbero non condivise, anche tra persone vicine. Desiderando queste connessioni virtuali, ho guardato molti più documentari del solito, soprattutto data la scarsità di nuove uscite, e più di quanti ne possa spremere nel normale ciclo di recensioni». Il critico individua due grandi momenti di svolta nella storia del genere: il primo tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, quando l’attrezzatura divenne sempre più leggera e i film maker poterono finalmente infiltrarsi quasi ovunque, e il secondo con l’arrivo dei device digitali. Storicamente, l’approccio dei documentaristi è stato quello del “fly on the wall”, ovvero quello di scomparire dentro la storia alla ricerca della fantomatica oggettività, ma i documentari che vediamo oggi sono figli di un’altra scuola, dice Brody. Devono qualcosa al “mumblecore” degli anni Duemila, il cinema che predilige dialoghi naturali e storie molto intime, e hanno rimesso al centro il cineasta e il suo punto di vista, abbandonando la pretesta dell’infallibilità. Si tratta spesso di storie molto personali e non è difficile prevedere che, anche nel caso del Covid-19, alla fine saranno quelle che ci colpiranno di più.