Cultura | Italia

Dividere il brutto dal bello

Da Pio e Amedeo a Maria De Filippi perché è diventato così difficile criticare prodotti culturali di massa.

di Antonio Pascale

Una scena di W la foca di Nando Cicero (1982)

Sarà che sono nato in un’epoca di ripartenze e di riscoperte. Sarà che diciottenne mi ero appena inscritto a Democrazia proletaria e il segretario ci disse: «La sinistra deve ripartire» (mi ero appena seduto, nemmeno ero partito che già dovevo ripartire). Sarà che vedevo in sale da terza visione e di nascosto dei film scollacciati: abitavo a Caserta, ero un adolescente e quello passava il convento. Qualche anno dopo ho ritrovato questi film nei festival e nei cinema d’essai: tutti a dire «è un must, è un cult». Sarà che uno si siede e deve subito ripartire. Sarà che avevi dimenticato le ore passate nelle sale di terza visione a vedere Viva la Foca – che nonostante avevi 15 anni pensavi “certo che questa ironia sui neri ben dotati non è un granché” – e ora ti tocca discutere sull’avanguardia di Nando Cicero. Insomma, sarà perché a forza di ripartire e di riscoperte uno si stanca ma vorrei chiedere: è veramente così difficile oggi giudicare un prodotto culturale ad ampio raggio?

Pio e Amedeo sono geniali rivisitatori e a loro modo critici del qualunquismo, oppure sono due insopportabili qualunquisti? E Maria de Filippi? Ne vogliamo parlare? È giusto dire: “che orribile programma è”? Oppure è una professionista che va celebrata ogni volta che si può, perché, da grande e instancabile lavoratrice, ha avviato una sana rivisitazione del romanzo popolare? E, visto che ci siamo, Michele Santoro? Grande giornalista che ha cambiato i format ingessati del giornalismo anni ’70 con inchieste al vetriolo, o al contrario quello che ha spianato la strada a Grillo, Striscia, le Iene, e ha introdotto nel mondo la tecnica del riflettore senza sé e senza ma: inquadra quello che indigna e ometti quello che potrebbe analizzare meglio l’indignazione. Che poi a rivedere su Rai Storia quei vecchi format di inchiesta anni ’70, mica erano male. Ed è possibile chiedere una moratoria per i talk televisivi, perché tanto sono recite che le sceneggiate napoletane gli danno due piste? Oppure vanno applauditi perché così sentiamo le opinioni di tutti, dunque rendiamo grazie all’ego della democrazia che è in noi?

Solo un secolo fa allo scrittore, all’artista era affidato il compito più alto: descrivere il mondo e i sentimenti di chi lo abita. C’erano pochi artisti e molti lettori. Gli artisti erano interessati alla vita degli altri, pure a quella di mio nonno. Invece se oggi mio nonno fosse vivo, si metterebbe a scrivere pure lui. Insomma le scuole, l’alfabetizzazione, la democratizzazione dello storytelling, oggi godiamo di questo ben di Dio di creatività. Ci sono format pronti all’uso, che tutti possono maneggiare. È un fatto nuovo.

Qual è il prodotto di questa “rivoluzione”? Un livellamento narrativo o un allenamento alla narrazione? Un abbassamento del senso critico? A volte sembra una barzelletta, ma più i cittadini si definiscono liberi pensatori meno pensieri originali abbiamo. Tutta questa creatività, almeno in questa fase, testimonia la volontà dei cittadini di essere esattamente come gli altri. Cosa è venuto meno? Forse la concezione dell’albatros di Baudelaire, l’artista come persona ferita, maldestra, presa in giro, ma magari anche per questo dotata di sensibilità rara, capace di cercare quel punto di vista per dire meglio la cosa che lo tormenta. L’artista come mostro che ci rende umani?  Questo appello potrebbe risultare troppo romantico.

Dobbiamo tirare fuori altri elementi perché qualcosa è successo in questi anni. Per restare in argomento narrativo: forse è venuto a mancare il secondo atto, il momento in cui un artista punta la telecamera, la penna, il pennello non solo contro gli altri ma contro se stesso. Indaga, osserva se stesso in rapporto agli altri, perde tempo, ragiona, analizza, si scervella. Se il secondo atto funziona, il conflitto viene fuori con prepotenza e ti costringe ad affrontarlo, e fine si cambia il punto di vista. Allora possiamo dire che l’arte ha svolto bene il suo compito: ha insegnato la qualità di uno sguardo artistico, ha preparato e sistemato un modello alto.

Il secondo atto: un ottimo esercizio, non sole per le cose narrative, ma per l’analisi delle società complesse. Invece, viviamo di primo e di terzo atto: di grandi dichiarazioni di intenti, esibizioni di sentimenti e di risoluzioni facili, di conflitti finti per audience, pacche sulle spalle.

Cosa ha causato questa mancanza di spirito critico che ci immerge in quest’epoca di grandi insalate miste culturali con così pochi strumenti di discernimento?  È cambiato il contesto. Ora tutti vogliono contare, il che non è necessariamente un male, purtroppo vogliono farlo nel modo più facile. Metti le spinte elettorali, alcuni politici bislacchi, i comici che imitano i politici bislacchi, fatto sta che viviamo in un perenne primo atto, prese di posizioni, inni alla diversità, alla libertà, presunzioni di sapere, senza sapere di che si parla, dichiarazioni solenni.

Il monologo di Pio e Amedeo insegna: sono io che spiego ai neri come bisogna etichettarli, mica mi sto zitto e li ascolto, mica chiedo loro perché mai hanno deciso di abolire alcune parole. Niente affatto, dico quello che penso perché è più importante esprimere il mio pensiero che indagare sulla qualità del mio pensiero: l’esibizione e le dichiarazioni di intenti, tipiche da primo atto, sono stati d’animo che non si accordano con l’introspezione: quella è roba da secondo atto. Ci vuole attitudine ed esercizio.