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LinkedIn ha lanciato una sua versione del Wrapped dedicata al lavoro ma non è stata accolta benissimo dagli utenti «Un rituale d'umiliazione», questo uno dei commenti di coloro che hanno ricevuto il LinkedIn Year in Review. E non è neanche uno dei peggiori.
C’è una specie di cozza che sta invadendo e inquinando i laghi di mezzo mondo Si chiama cozza quagga e ha già fatto parecchi danni nei Grandi Laghi americani, nel lago di Ginevra e adesso è arrivata anche in Irlanda del Nord.

L’anno di Demon Slayer: il più grande successo del cinema d’animazione giapponese di tutti i tempi

Esce oggi su Prime video l’anime che ha riscritto ogni record d’incassi.

13 Luglio 2021

La città incantata di Hayao Miyazaki è stato il più grande successo della storia del cinema giapponese. Non del cinema d’animazione soltanto, del cinema giapponese tutto. In patria fu più visto di Titanic, nel mondo incassò la bellezza di 330 milioni di dollari. La città incantata di Hayao Miyazaki è stato il più grande successo della storia del cinema giapponese per 19 anni, fino a quando, a ottobre dello scorso anno, nelle sale giapponesi è uscito Demon Slayer – Kimetsu no Yaiba – The Movie: Mugen Train (sì, i titoli dei film d’animazione giapponesi sono spesso così): da quel 16 di ottobre tutti i record d’incassi del cinema nipponico sono stati riscritti, e poi quelli del botteghino internazionale. I numeri di questo successo sono tali e tanti che occuperebbero troppo spazio a elencarli tutti. I principali: è il film giapponese che ha incassato di più in patria e nel mondo, e il film che ha incassato di più nel 2020. Si dirà: bella forza, nell’anno della pandemia. Si risponderà: nell’anno della pandemia e nell’anno di Tenet, che in questa classifica sta al quinto posto. Miyazaki, uno che nella sua vita non si è mai curato manco della concorrenza di James Cameron, ha definito Demon Slayer «un rivale» per il suo Studio Ghibli.

Demon Slayer, che da oggi 13 luglio si può vedere su Prime video, è tratto dal manga omonimo di Koyoharo Gotouge pubblicato da Shueisha (sia sulle pagine della rivista-raccoglitore Weekly Shonen Jump che in 23 volumetti dedicati) tra febbraio 2016 e maggio 2020. La storia racconta di Tanjiro, un ragazzino che diventa spadaccino per vendetta e per amore: la vendetta è contro il demone che ha sterminato la sua famiglia, l’amore è per la sorella minore Nezuko, sopravvissuta alla strage ma trasformata in demone dal contatto con il sangue del mostro. Alla caccia dell’assassino della sua famiglia e alla ricerca di una cura che restituisca all’umanità sua sorella, Tanjiro si unisce al corpo di guerrieri conosciuto come gli Ammazzademoni, spadaccini che da millenni proteggono l’umanità dagli orrori che strisciano nel buio.

Se sapete perché è importante dire manga quando si parla di fumetto giapponese, se una delle poche volte in cui Sheldon Cooper vi ha fatto ridere è quella in cui rimbrottava Penny spiegandole che «it’s not a cartoon, it’s anime», allora la storia di Tanjiro è una storia che avete già sentito, letto, visto altre decine di volte. Niente di questo riassunto di Demon Slayer spiega l’incredibile successo che ha ottenuto, eppure, allo stesso tempo, tutto di questo riassunto di Demon Slayer spiega l’incredibile successo che ha ottenuto. Demon Slayer piace perché è familiare, e non ci sono mai state così tante persone nel mondo (fuori dal Giappone, soprattutto) che trovassero familiari forma e contenuti, etica ed estetica dell’animazione giapponese. Merito di anni di pirateria e streaming illegali prima, di abbonamenti alle piattaforme e di distribuzioni in sala poi. Merito anche di un’epoca in cui le nuove scoperte ce le propone l’algoritmo a 9.99 al mese, quindi il biglietto del cinema si paga per la certezza di uscire soddisfatti: oggi il rischio con Akira, Ninja Scroll, Ghost in the Shell oPerfect Blue chissà se ce lo prenderemmo. Quentin Tarantino dice che un grande artista non copia ma ruba, Checco Zalone che le note sono sette e chi vuole se le fotte. In Demon Slayer c’è tutto quello che ci si aspetta da una cosa così fatta in quel Paese lì: il ragazzino a caccia di demoni è anche Yusuke Urameshi di Yu Yu Hakusho; i mostri divoratori di carne umana, che però non sono solo mostri divoratori di carne umana, erano anche i ghoul di Tokyo Ghoul; le “spade del sole” (nichirin) si ritrovano in quasi tutte le spade del fumetto giapponese, le ultime in ordine cronologico probabilmente sono le zanpakuto di Bleach (il cui protagonista, Ichigo Kurosaki, era pure lui un cacciatore di spiriti-demoni-fantasmi chiamati hollow); il ragazzino dal cuore d’oro, dal passato traumatico e con il padre misterioso è Naruto di Masashi Kishimoto. E così via, di rimando in referenza in citazione: d’altronde il genere è quello, è lo shonen, è il fumetto per ragazzini al quale appartengono talmente tanti prodotti dell’editoria giapponese che è impossibile che alla fine non si somiglino tutti, anche un poco, magari senza nemmeno volerlo.

Non che sia tutto già visto. In Demon Slayer, l’ambientazione in epoca Taisho rappresenta di per sé una originalità, soprattutto per un Paese che mette le sue fantasie sempre dentro versioni medievali o futuristiche di se stesso. Può sembrare uno sfondo e basta, ma l’epoca Taisho è un oggetto delicato per qualsiasi artista giapponese: nella sua prefazione a Rashomon, la raccolta di racconti di Akutagawa Ryunosuke, Murakami Haruki scrive che in quegli anni si inventò un detto e si fece necessaria una capacità che ancora oggi decide molto della vita di un artista nipponico: “kokon tozai ni tsujiru”, cioè dialogare col vecchio e col nuovo, con l’Est e con l’Ovest. E in effetti, Demon Slayer sta su questo punto di equilibrio in cui è giapponese senza essere esotico, in cui i nemici sono gli oni (i demoni del folklore nipponico che qui in Occidente conosciamo soprattutto grazie alle arti figurative) ma il capo dei nemici è un oni che veste in eleganti completi alla occidentale.

E poi c’è Nezuko, la sorella minore di Tanjiro. Gli appassionati di manga e anime sanno che i rapporti tra fratello e sorella sono fonte di imbarazzo, non in quanto tale ma per la rappresentazione che se ne fa in questo pezzo di cultura pop giapponese. C’è la snervante imouto (sorellina) sempre adorante nei confronti del suo oniichan (fratellone) e ci sono le disgustose allusioni al lolitismo incestuoso, spesso si va da una cosa all’altra senza niente nel mezzo. E non può che essere così in un settore, quello del fumetto, e in un Paese, il Giappone, in cui la più grande casa editrice di manga, alla domanda «come mai non avete mai avuto una editor?», risponde che «è possibile che succeda in futuro, ma è importante anche conoscere il cuore dei ragazzi». Ecco, Nezuko non è una imouto e non è una loli: rientra nei canoni estetici maggioritari nella cultura pop giapponese contemporanea, quelli del kawaii (è inevitabile, purtroppo), ma è anche un demone capace di spaccare il culo pressoché a tutti i coetanei e coprotagonisti dell’altro sesso. Insomma, in Demon Slayer c’è quel tanto che serve del vecchio e del nuovo, quel che basta sia in Oriente che in Occidente.

Gli aridi diranno che tutto il successo di questo che ormai è un franchise (c’è il manga da cui è stata tratta una serie anime, ora c’è il film che prosegue la storia da dove si era interrotta nella serie e c’è in lavorazione una nuova serie che riprenderà la storia da dove si interrompe alla fine del film) è dovuto alla pandemia: quando il film è uscito in Giappone in sala non c’era niente di niente, leggende metropolitane dicono di un cinema di Tokyo, in un quartiere che non si è mai saputo quale fosse, che lo proiettava quaranta volte al giorno riuscendo comunque a riempire le sale. Ovviamente la pandemia c’entra, il Covid aiuta a spiegare. Ma non basta di certo, non nell’epoca in cui c’è più intrattenimento che gente da intrattenere (e che sappia intrattenere, soprattutto). Forse Demon Slayer è come Dragon Ball, l’inizio del fumetto/anime shonen per come lo conosciamo oggi, una porta attraverso la quale è passato molto del Giappone che oggi vediamo attorno a noi, nelle nostre librerie, sui nostri scaffali, alle nostre pareti: una cosa che a un certo punto è successa perché poteva succedere e che poi è rimasta perché è riuscita a rimanere. Esiste una definizione di successo più sincera, più veritiera?

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