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Abbiamo ancora bisogno degli influencer?

Tra i creator “genuini” sempre più ricercati dai marchi e la nuova spontaneità formato TikTok, come cambia il ruolo dell’influencer nell’economia digitale.

di Silvia Schirinzi

Uno dei video che si trovano seguendo l'hashtag #BamaRush su TikTok, che ha accumulato più di 369 milioni di visualizzazioni

Non troppo tempo fa avevamo già rilevato che gli influencer così come li abbiamo definiti negli ultimi anni, con la loro vita perfettamente storiabile su Instagram, altro non erano che un residuo di un modo di fruire internet invecchiato piuttosto male in un tempo relativamente breve, un archetipo a cui la pandemia ha dato il definitivo colpo di grazia. Gli influencer sono esauriti, nel senso che non esercitano più l’attrattiva di qualche anno fa, un po’ perché tutto quello che rappresentano è stato messo in discussione da eventi che hanno rimodellato il nostro rapporto con il digitale, un po’ perché si sono esauriti per davvero, cercando di stare dietro all’algoritmo e alle sue richieste. Ma ragionamenti antropologici a parte, è interessante guardare a cosa sta succedendo nell’economia che agli influencer si affidava, a cominciare dal settore della moda, che per primo li ha accolti e resi popolari.

A guardare le campagne degli ultimi mesi, sono stati sempre di più i marchi che hanno deciso di affidare la loro comunicazione ad ambasciatori ben diversi dai soliti volti noti, orchestrando iniziative e collaborazioni che molto spesso si allontanano di molto dai prodotti che intendono pubblicizzare. È il caso, ad esempio, del progetto lanciato lo scorso maggio da Valentino con la designer di gioielli Betony Vernon, autrice del best seller The Boudoir Bible, brillante guida al sesso che racconta ed esplora con uno stile fresco e senza pregiudizi usi e costumi sessuali, dal BDSM ai giochi di ruolo fino all’uso dei sex toy. Non esattamente il link più scontato per la promozione di scarpe e borse. L’occasione, infatti, era il lancio della collezione Rockstud Alcove Valentino Garavani: come ha scritto recentemente Kati Chitrakorn su Vogue Business, «Le personalità protagoniste della campagna di Valentino si possono definire “genuinfluencer”, un termine coniato dall’agenzia di trend forecasting WGSN come uno dei trend chiave di quest’anno. Si riferisce ai creator che hanno un largo seguito ma non si identificano con la definizione comune di influencer. I “genuinfluencer” sono più interessati a condividere consigli, discutere delle proprie passioni e diffondere informazioni imparziali, invece di promuovere un nuovo prodotto o una nuova collezione. Vengono notati per il loro contenuto di alta qualità piuttosto che per il numero di follower, ha spiegato Cassandra Napoli, senior strategist di WGSN Insight».

La pandemia ha reso ancora più insopportabile la stucchevolezza di Instagram (Glossy l’ha definita addirittura “influencer fatigue”), quel volere essere aspirazionali su cui si era costruita la prima digitalizzazione della moda, che è stata sostituita negli ultimi anni dall’emergere di nuovi modelli di riferimento, soprattutto per la Generazione Z (come le e-girls e gli e-boys, contraltare perfetto della finta autenticità Millennial) e dallo sdoganamento dell’informazione via social. Si sono spostati infatti su Instagram, e poi su TikTok, i dibattiti culturali più partecipati e divisivi, da quello sull’appropriazione culturale e le copie nel mondo della moda, primo grande scossone all’industria, passando per il #MeToo prima e il movimento Black Lives Matter poi – che ha cambiato il modo di fare attivismo e creato un nuovo paradigma per i marchi che volessero esporsi sulle istanze sociali – fino ad arrivare all’esperienza della pandemia. Così si può in parte comprendere il folle panorama di oggi, in cui Diet Prada si occupa della questione israelo-palestinese con una carrellata di meme e i più svariati influencer, molti dei quali in cerca di un riposizionamento, vogliono spiegarci l’Afghanistan mentre sono al mare. In questo calderone di segni e significati, però, il marketing non si ferma, ma ovviamente si adatta.

Basta farsi un giro su TikTok, dove l’hashtag #BamaRush, iniziato da alcune ragazze dell’Università dell’Alabama, è diventato virale e ha contribuito al successo nelle vendite per marchi (come LoveShackFancy, che fa perlopiù abitini, Kendra Scott, brand di gioielli) che su quello specifico target – ragazze bianche appena ventenni con il pallino delle sorority – avevano puntato. Probabilmente quei video capiteranno anche nella vostra For You Page (qualora aveste un account TikTok) perché l’algoritmo della piattaforma è fortissimo proprio in quella cosa lì: esporre a un pubblico sempre più ampio un qualsivoglia trend di nicchia che già abbia riscosso un discreto successo tra gli appassionati. «Il successo [di hashtag come #BamaRush  o #RuskTok, ndr] offre uno sguardo sul futuro “sciocco” che attende i marchi che investono nella costruzione della propria community su TikTok, un futuro che è incentrato sui creator e sulle sottoculture ed è sempre guidato dagli hashtag. L’onnipresenza in segmenti di nicchia può infatti trasformarsi rapidamente in un’esposizione mainstream e, infine, in vendite», ha spiegato Joan Kennedy su Business of Fashion.

Sul mercato cinese, invece, succede qualcosa che all’apparenza sembra diametralmente opposto ai meccanismi in atto dalla nostra parte di mondo. Non sembra infatti diminuire la popolarità dei testimonial famosi, in particolare idol e attori, nonostante i ripetuti scandali che costantemente li investono: si pensi al caso di Kris Wu, ex membro della band Exo, recentemente arrestato con l’accusa di violenza sessuale ai danni di almeno 8 donne, oppure a quello dell’attore Zhang Zhehan, la cui visita al santuario di Yasukuni di Tokyo ha fatto perdere ingaggi milionari (per chi è interessato al perché, Giulia Pompili lo spiega bene nel suo libro). Eppure, spiega Julienna Law su Jing Daily, i consumatori cinesi sono ancora interessati alle collaborazioni tra i marchi e le personalità dello showbiz, a patto che siano «culturalmente sensibili». Secondo una ricerca Mintel, ad esempio, l’87 percento delle donne cinesi crede che i marchi stranieri debbano incorporare elementi cinesi nei loro prodotti quando si rivolgono al loro mercato. I Key Opinion Leaders (KOL) rimangono quindi essenziali per raggiungere il segmento di consumatori più importante della Cina: il Chinese Cultural Consumer (CCC) e – stando all’ultimo rapporto di Jing Daily – le abitudini dei CCC sono in gran parte motivate dalla loro comprensione della cultura pop globale e dal desiderio di migliorare il loro capitale culturale personale.

A complicare queste delicate operazioni, soprattutto per i marchi occidentali, c’è poi il governo, che ha già annunciato un intervento per regolamentare i cosiddetti “fanclub” (qui un interessante approfondimento di Sixth Tone su come funzionano), accusati di manipolazione e di spargere contenuti ritenuti nocivi. Come dimostrano i casi di Wu e Zhehan, e delle molte altre celebrity “cancellate” prima di loro, i giovani consumatori cinesi sono anche loro attentissimi ai diritti delle donne, al contesto culturale e all’etica che traspare da una campagna o dall’endorsement di un personaggio pubblico, così come sembrano sempre più allergici all’eccessivo sfoggio di ricchezza (anche quello, tra l’altro, scoraggiato dal governo). Essere desiderabili, insomma, non è mai stato così difficile, ovunque ci si trovi nel mondo.