Cultura | Luoghi
Fenomenologia Cortinese
Il mito di Cortina tra cinepanettoni e memorie aristo-agnelliane. Parla Giovanna Nuvoletti
L’epifania (e la Guardia di Finanza) tutti i cinepanettoni si porta via. Eppure riguardando un vecchio film come Il Conte Max (1957, regia di Giorgio Bianchi) si capisce che la tradizione è più antica di quanto si vorrebbe e che anche l’ultimo Vacanze di Natale a Cortina, un po’ bistrattato, deve molto a quel modello, molto precedente alla serie vacanziera inaugurata nel 1983. Non c’è solo – oggi – il De Sica figlio che ripete e iperbolizza i birignao del De Sica padre, vero conte Max Orsini Varaldo, che presta la sua identità all’edicolante Alberto (Sordi) che invece che trascorrere come ogni anno il capodanno “a Capracotta” decide di “vedere un po’ di mondo”, dunque sperimentare i lussi del vagone letto per puntare sulle Dolomiti. C’è anche una citazione forse involontaria: nell’ultimo Vacanze, la coppia proletaria che oggi si direbbe aspirazionale, da sempre ingrediente fondamentale cinepanettonico, è anch’essa imperniata sul borgataro romano edicolante, oggi un efficace Ricky Memphis.
Come ieri, il finto conte-edicolante Max, anche oggi l’edicolante (ma con orgoglio proletario) Massimo si mischia col “bel mondo” di aristocratici e bon vivants. Anche i luoghi sono gli stessi. Nel Conte Max, Sordi non riesce a essere ammesso al Cristallo, dove invece, grazie a un biglietto miracolosamente scontato su Internet, Massimo riesce a trovare posto e fare amicizia nientemeno che con Emanuele Filiberto. Insomma, nulla è cambiato in cinquant’anni di aspirazioni italiane, “Cortina è sempre Cortina”. Com’è possibile?
Lo si chiede a Giovanna Nuvoletti, giornalista, fotografa e anche scrittrice, che sta finendo proprio un romanzo ambientato a Cortina, luogo a cui è particolarmente affezionata, e di cui il padre, il mitologico conte Giovanni Nuvoletti, ha rappresentato forse il più importante personaggio simbolico. «Una delle attività principali di papà era presentare libri all’hotel Savoia. Era brillantissimo. Le signore della prima fila si entusiasmavano, si commuovevano, lo seguivano a bocca aperta. I mariti nelle seconde file, come sempre, lo invidiavano un po’» dice Nuvoletti figlia. Nelle Finte Bionde (1989, vanzinianismo in purezza, film disconosciuto perché quasi sperimentale nel suo feroce iperrealismo documentaristico) il solito gruppo romano cerca posto in uno dei ristoranti carissimi all’aperto (probabilmente il Caminetto) e poi molto soddisfatto lo trova. Il cameriere dice: “siete fortunati, era il tavolo del conte Nuvoletti”. Loro estasiati. Replica del cameriere: «il conte ha disdetto all’ultimo, ha detto che ci sono in giro troppi romani».
Quello dell’amore dei romani per Cortina rimane un mistero, così come il mito stesso della “perla delle dolomiti”. Si è stati diverse volte, ed è sempre rimasto un dubbio: certo, il paesaggio è molto bello, il paese però non è niente di che, moderno, un po’ cementificato. Ci sono tanti altri posti, l’Alto Adige per esempio, molto meno costosi, eppure Cortina rimane Cortina, almeno dagli anni Venti. Giovanna Nuvoletti mi fulmina subito: «La bellezza di Cortina non è discutibile. E sai perché? Perché è fatta dello stesso materiale di Capri. Le Dolomie, me lo diceva appunto mio padre, sono le stesse rocce dei Faraglioni. E’ quello che dà al paesaggio quell’aria inimitabile, le dolomie sono depositi legati al mare, e ai piccoli crostacei che anticamente conteneva. Il signor de Dolomieu li studiò…». Giovanna Nuvoletti ci ha fatto pure un anno di scuola a Cortina, la terza elementare. Il padre abitava nella famosa Villa Bella, di proprietà della seconda moglie, Clara Agnelli, sorella dell’Avvocato. C’è una famosa foto di lui con un maglione molto anni Settanta e un cappello con una piuma in testa e tre cani al guinzaglio. Giovanni Nuvoletti, mi dice la figlia, frequentava Cortina fin dagli anni Trenta, ci sono belle foto di lui che scia a fianco di Umberto di Savoia e Edda Ciano («una donna molto bizzarra ma originale e di qualità»).
La sua storia è pure un po’ da Conte Max o da Vacanze di Natale. Bel provinciale, due lauree, aitante e affascinante, riesce a entrare nel bel mondo «da giovane, prima di incontrare mia madre ma anche dopo, aveva avuto una fortunata carriera di seduttore di gran signore belle e annoiate. E nello stesso tempo affascinava i mariti con la conversazione e la cultura». «Nel mio primo romanzo, Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più, per i capitoli ambientati negli anni Trenta ho utilizzato aneddoti veri che mio padre mi andava raccontando, pochi mesi prima della sua morte. Lì si capisce bene come ambienti elitari fossero spesso in ricerca di personaggi affascinanti e brillanti… anche mia madre Adriana Pellegrini, di nascita borghese, ma dotata di bellezza strepitosa, di naturale eleganza e di umorismo frizzante fu adottata dagli stessi ambienti».
Quando Nuvoletti sposa in seconde nozze Clara Agnelli, già maritata Fürstenberg, nell’Italia degli anni Cinquanta è uno scandalo. Nuvoletti non nasce conte, «viene adottato, il titolo di conte lo ricevette negli anni 70 da uno zio, Perdomini, conte in quanto discendente da antico figlio illegittimo della famiglia Gonzaga. Naturalmente, poiché i titoli nobiliari avevano da tempo perso valore legale, la cosa fu soprattutto decorativa. Famosa è la battuta di marina Cicogna, che lo definiva l’autonobile, con allusione Fiat». La leggenda vuole che l’Avvocato abbia sempre provato fastidio nei confronti di quel cognato, elegante e eccentrico forse più di lui. «Non credo si trattasse di rivalità dandistica, quanto il fastidio di ritrovarsi in famiglia uno che in fondo non era nessuno ma aveva qualità impagabili – e poi esisteva fra loro anche il riconoscimento reciproco di notevole intelligenza… un rapporto agrodolce, direi». Nuvoletti, che scrive due romanzi, Un matrimonio mantovano e Un divorzio mantovano, che rifonda e presiede l’Accademia italiana della cucina, si diverte anche a interpretare piccole parti al cinema (tra cui l’indimenticato chirurgo Azzerini nel Prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue), anche qui dunque cinema e anche qui Alberto Sordi. La Cortina che racconta Giovanna Nuvoletti è molto diversa da quella vanziniana.
Giovanna Nuvoletti, che dirige anche la internettiana Rivista Intelligente, l’ultimo cinepanettone non l’ha visto. «Dai trailer mi sembrava che la neve fosse finta, e che fosse stato girato in un altro posto». «Ho ricordi di un posto di bellezza abbagliante», mi dice invece. «I miei primi soggiorni risalgono agli anni Cinquanta-Sessanta, allora era frequentato da intellettuali, artisti e aristocratici ‘sublimi’. Esisteva una vera religione dello sci, e chi meglio sciava era un dio in quegli ambienti. Era tutto molto semplice ed elegante. Risultava naturale frequentare i migliori maestri di sci, che raccontavano le storie della loro valle, e portavano la loro giovanile energia in ambienti assai raffinati».
Ma la cafonalizzazione di Cortina allora quando è cominciata? C’è un momento preciso? «Le serate me le ricordo soprattutto negli anni ‘70, le mie. Si andava poco nelle case, eravamo giovani. Si frequentavano molto i rifugi e le baite, dove si mangiavano canederli, maiale affumicato, e si bevevano svariate abbondanti grappe. Ho un vago ricordo di esser stata portata da mio padre a ricevimenti in case, in appartamenti travestiti da baite, un po’ kitsch, con industriali vari». Gli anni Settanta, momento del trapasso? «Allora è cominciata una certa invasione di generone romano, le cui rappresentati femminili si coprivano d’ori anche in pieno giorno, e non sapevano neanche sciare». Sempre questo amore da parte dei romani. «Vengono a Cortina da tempi antichi. Parlando dei miei amici romani, non erano cafoni, ovviamente non venivano su il week end, ma possedevano case dove si trasferivano con figli e bagagli per intere estati e tutte le vacanze invernali. Poi c’erano anche i romani cafoni, ma finché sono stata minorenne mi era proibito frequentare gente maleducata». Veneti e romani. «Anche calabresi». Di sicuro il target cortinese non contempla «lombardi, liguri e piemontesi», cioè le terre dell’understatement, «non solo, oltre alla sobrietà hanno loro montagne più vicine».
La definitiva mutazione pre-Suv c’è stata negli anni Ottanta, 1quando hanno cominciato ad affacciarsi signore in Ferrari Testarossa con moon boots di pelo e gioielli di pomeriggio». Poi naturalmente la mania del dirndl, il costume tipico ampezzano. La mia impressione è sempre stata che tutte queste signore che si affacciano su Corso Italia in direzione Cooperativa (il supermercatone sulla via principale che è un po’ il luogo cult di ritrovo, dove si possono trovare ragazzini in Moncler e col Blackberry, e le cui buste della spesa in tela gialla con una margheritona stilizzata sono spesso sfoggiate come status symbol di ritorno a Roma), con gonnoni a fiori e bustini a stelle alpine non si abbiglierebbero mai in questo modo nelle località di provenienza, nemmeno pagate molte decine di migliaia di euro. «Il dirndl per noi vecchie frequentatrici di Cortina era religiosamente riservato alle oriunde. Avevamo rispetto per gli usi locali. Alcune di noi ne avevano uno in seta, a volte antico, che però sfoggiavano solo nelle case, alle feste – magari per un carnevale chic. Ma mai assolutamente di giorno, per il passeggio». Poi gli anni Ottanta. «Ricordo che mio padre aveva rinunciato, non so perché a sciare. Passeggiava con Clara sulla strada della ferrovia (quando ci fu), e tornava sempre dal paese ridendo. Ormai l’eleganza non era più regina delle vie di Cortina, punteggiate di vistosi e goffi nuovi ricchi impellicciati dalla cima della testa alla punta dei piedi. I cafoni cortinesi dell’ultimo anno che sono passata a Cortina, doveva essere il 2007, erano assolutamente divini. Signore della bassa in dindrl e Gucci. Signori dalla faccia unta e losca in Ferrari».
Pellicce, Ferrari, dirndl, gioielli. É forse l’unico posto in cui si possono trovare ancora maschi adulti che in pieno pomeriggio passeggiano con cappotti di visone, mantelli di leopardo. Ma non sarà che alla fine Cortina piace sempre ai (nuovi) ricchi proprio perché alla fine è un mite paesotto democratico, col suo Corso, i suoi riti tutto sommato semplici, non dissimili da quelli di provenienza, e nessuna discriminazione per il new money. Forse a St. Moritz o a Gstaad si avrebbero ben altre difficoltà, non solo linguistiche. Massimo Boldi, un’autorità, ha sostenuto che qui ci sono soprattutto finti ricchi: «tanti di quelli lì che si fanno vedere impellicciati e col macchinone spesso sono dei poveracci. Per pagarsi la vacanza da ricchi fanno un prestito da 15 mila euro e poi lo pagano con le rate». Ma Nuvoletti smentisce sdegnosamente: «coi prezzi che ci sono attualmente a Cortina i finti ricchi certo non possono arrivarci. E’ difficile anche per me che appartengo al ceto medio».