Cultura | Coronavirus

Cosa ne sarà dei festival musicali?

Ne abbiamo parlato con gli organizzatori di Terraforma, MI AMI e Club to Club: la situazione attuale e il futuro della musica dal vivo.

di Teresa Bellemo

Terraforma edizione 2019, foto di Francesca Margaroli - courtesy Terraforma

Oltre all’urgenza culturale che si è prodotta intorno alle librerie, prima chiuse poi aperte e domani chissà, Tiziano Ferro  a Che tempo che fa prima e Laura Pausini dai suoi social poi, hanno provato ad accendere una luce sull’urgenza di capire quale sarà il prossimo futuro del mondo della musica dal vivo. Il risultato, soprattutto nel primo caso, è stato un’infinità di polemiche quasi tutte riconducibili a un “ma come si permette! Abbiamo ben altri problemi ora, chi se ne importa dei concerti e dei capricci delle star!”. Peccato che il comparto culturale sia ai fatti uno di quelli che più hanno dimostrato insofferenza per il lockdown iniziato il 9 marzo a causa dell’emergenza Coronavirus (stime di Assomusica: a fine maggio 4200 eventi saltati in totale, 63 milioni di perdite in poco più di due mesi per il solo settore del live, 130 milioni di euro di indotto in meno). Certo, non sono mancati i tentativi di reazione, sui social dirette di concerti più o meno casalinghi, reading, djset su Instagram abbondavano. Ma, al di là di una comprensibile voglia di contatto umano, seppur virtuale, è evidente che il settore più di altri si trovi agli antipodi dell’attuale divieto di uscire di casa.

I festival forse lo sono ancora di più, basti pensare a come si presentano. C’è il festival della musica bella e dei baci (il MI AMI, tre giorni di musica italiana dal vivo a Milano che nel 2019 ha registrato 19mila presenze), l’altro che è il punto di riferimento dell’elettronica live (il Club To Club, festival di culto di Torino ormai giunto alla ventesima edizione), l’altro ancora è un fine settimana vissuto in campeggio con palchi diffusi nella natura (il Terraforma, che dal 2014 rende Villa Arconati a Milano una piccola isola freak sostenibile). È dunque evidente che oggi, in quarantena, ma anche domani, una volta immersi nella fantomatica “fase 2” organizzare quei trionfi d’assembramento che sono i festival non sia un affare affatto facile. Ne ho parlato in una videochiamata collettiva proprio con gli organizzatori di questi tre festival, Carlo Pastore per MI AMI, Ruggero Pietromarchi per Terraforma e Sergio Ricciardone per Club To Club, per capire un po’ cosa si aspettano e cosa possiamo aspettarci noi spettatori da questo momento strano e pieno di incertezze.

«Per organizzare un festival ci vogliono ben più di 12 mesi. Spesso mi ritrovo a lavorare all’edizione successiva mentre concludo l’organizzazione di quella imminente», esordisce Ricciardone. «Il 22 febbraio scorso, la data della notizia del primo contagio in Italia, noi avevamo già definito il cartellone e la produzione della prossima edizione, particolarmente speciale dato che si tratta del ventennale del Club To Club. Nelle settimane c’è stato uno smantellamento progressivo fino a venerdì 10 aprile, quando siamo arrivati a ridefinire la prossima edizione come una sorta di esplorazione del concetto di “fantasma”, che non significa però virtuale». Durante la scorsa edizione, “La luce al buio”, il Club To Club ha venduto ventimila biglietti e registrato diecimila presenze negli eventi gratuiti per 50 show da parte di oltre 100 artisti. Ruggero Pietromarchi: «Noi di Terraforma avevamo messo in vendita i biglietti già a dicembre per cui ci troviamo in una situazione diversa. Abbiamo provato a prendere questo momento come un momento di riflessione, ma adesso manca poco e se prima anche noi valutavamo l’opzione di posticipare il festival a settembre come nel caso del MI AMI, adesso l’opzione più sensata sembra quella di annullarlo».

Concerti sospesi, presentazioni ed eventi annullati, teatri e cinema chiusi, ma tantissime notifiche di dirette Instagram ed eventi virtuali. «Non sono un grande fan degli eventi in streaming», dice Carlo Pastore, «credo che siano soprattutto un modo per dare un senso al vuoto, per riempire le giornate senza obiettivi e per dire la propria. Di sicuro in tutto questo c’è qualcosa che potrebbe rimanere, negli Stati Uniti ci sono stati dei pay per view di successo come quello di Erykah Badu, qui in Italia ho trovato interessante a livello comunicativo la piattaforma multidisciplinare Avantgardening che si è svolta in questi giorni, ma personalmente non vedo l’ora che questo momento finisca per tornare a fare quello che facevo prima del lockdown, esattamente come lo facevo prima». Aggiunge Pietromarchi: «Il festival che organizziamo è abbastanza agli antipodi dello streaming. La probabile scelta di non organizzare l’edizione 2020 di Terraforma deriva proprio dalla difficoltà di non poter dare quello che la gente cerca in questo festival. Non ho alcun dubbio che si ritorni alla socialità di prima perché credo faccia parte del Dna dell’essere umano».

Club To Club, foto di Stefano Mattea – courtesy Club To Club
Chadia durante l’edizione 2019 del MI AMI, foto di Kimmika – courtesy MI AMI Festival

I lavoratori del comparto musicale non sono stati quasi per nulla contemplati nei vari provvedimenti che il Governo ha finora emanato a sostegno dell’economia. Spesso infatti si tratta di personale assunto a chiamata, giovane e scarsamente rappresentato. Un settore fragile che aspetta risposte ma che forse per troppo tempo ha rinunciato alla corporazione e a un dialogo con le istituzioni. Una sorta di “anello mancante” tra comparto e vari livelli decisionali, come lo definisce Pietromarchi. Sergio Ricciardone: «A me piacerebbe che uno come Carlo Pastore si potesse sedere ai tavoli dove si prova a risolvere le cose. Ma il problema è che in Italia certe persone a quei tavoli non ci arrivano. Per questo a me più che la “fase 1”, in cui mi ritrovo abbastanza bene perché di natura sono eremitico, mi fa paura la “fase 2”, temo la burocrazia italiana e tutti i suoi derivati. Le battaglie vere sono davanti a noi perché non sappiamo come torneremo a svolgere il nostro lavoro. Da parte nostra serve essere riconoscibili da parte delle istituzioni, a partire dell’identità economica. Per esempio, noi siamo un’associazione no profit e nel 2019 abbiamo chiuso con un bilancio di 3 milioni di euro, di cui la parte di contribuzione pubblica è intorno al 12 per cento». Carlo Pastore: «Io non ho mai cavalcato la polemica della cultura dimenticata ed esclusa da tutto. Ma se non hai rappresentanza non hai modo di alzare la mano e dire che così non va bene. Come quelli che si lamentano dell’Europa ma ai tavoli non ci vanno mai. Spesso i festival sono organizzati da strutture ibride di poche persone, quindi le energie che abbiamo preferiamo convogliarle in ciò che ci accende il fuoco piuttosto che parlare con le istituzioni. Questa emergenza ha però un lato positivo: ha intanto spinto a parlarsi fra operatori molto più di quanto succedesse prima, creando una rete naturale. Siamo lontani dall’essere una massa critica adeguata per fare rumore, ma possiamo però agire in maniera più chirurgica. Questi tre festival hanno un pubblico intelligente che sposta idee, opinione pubblica, che nella vita fa lavori interessanti. È la parte bella e interessante di questo Paese, mi piace vederla così. Per cui forse da questo punto vista c’è maggior possibilità di colpire».

Ma quindi che ne sarà dei festival, fatto salvo che per il 2020 quasi sicuramente dovremo tenere conto di farne a meno o di considerarli fortemente ridimensionati? Come ne uscirà il comparto della musica dal vivo dall’emergenza Covid-19? Sergio Ricciardone: «Sono profondamente innamorato del concetto di assembramento e spero che questa fase passi velocemente. In realtà il distanziamento sociale era già in atto negli scorsi anni, ancor di più delle società anglosassoni. Per lasciarcelo davvero alle spalle il desiderio di libertà delle persone sarà fondamentale e non escludo anche il ritorno a forme non legali di assembramento come erano i rave, mondo da cui provengo. Come organizzatori di festival e di cultura abbiamo l’onere di inventare modelli culturali nuovi e se ci penso, le cose più interessanti degli ultimi anni sono state quelle che hanno provato ad avvicinarsi all’analogico piuttosto che al digitale, per cui credo che lo streaming non sostituirà nulla». Carlo Pastore: «A livello economico sarà un’ecatombe, ma è anche vero che per i primi sei, sette anni di festival io e chi lo ha organizzato con me non ha visto un soldo. È sempre stato un atto eroico, una corsa nel vuoto. Tutto dipenderà dalla voglia che avremo di farlo di nuovo. Sarà quindi un fatto di motivazione, di sostenibilità economica non esclusivamente nostra, ma mondiale. Serve solo avere chiaro l’obiettivo, ma per reazione a questa fantasia distopica realizzata abbiamo ricominciato a pensare a possibili utopie, il che mi dà speranza». Ruggero Pietromarchi: «Sarà sicuramente una questione di volontà, innanzitutto nostra, di chi ci ha sempre messo tutto se stesso nell’organizzazione dei festival, ma anche delle istituzioni che dovranno renderci semplice fare il nostro mestiere. D’altra parte l’unica alternativa è la paura. L’arte e la musica hanno sempre dettato la strada della libertà, anche dalla paura. Hanno sempre segnato avanguardia e nuove strade, quindi abbiamo la responsabilità ancora più importante di continuare a farlo».