Attualità

I comici in quanto psicopatici

Un nuovo studio conferma quello che molti sospettano da sempre: c'è un legame tra la professione del comico e alcuni problemi mentali. Ma perché far ridere è un mestiere così pericoloso?

di Pietro Minto

«I don’t fill in. I can’t fill in, man. That’s my problem.»
Bill Hicks

Proprio all’inizio di Io e Annie, Woody Allen si confessa: «Non vorrei mai fare parte d’un club che accetti tra i suoi iscritti un tipo come me».
Nei suoi spettacoli Louis C.K. confessa spesso di non essere «una bella persona» e si lamenta sul palco di molte sue ossessioni, tra tutte il cibo e il sesso.
Nel 1918 Mildred Harris sposò Charlie Chaplin. Mildred era una giovanissima attrice. Lei era incantevole e capace, lui un’icona mondiale del cinema. Durarono poco. Due anni dopo Harris commentò il suo divorzio con parole amare: «È stato detto che i comici sono divertenti solo in pubblico. Sono d’accordo. O meglio, lo so per certo. Charlie Chaplin, che ha fatto ridere milioni di persone, a me ha causato solo lacrime». In un colloquio con il poeta Bejamin De Casseres, il genio comico de Il Grande Dittatore svelò una minuscola parte della sua oscurità: «Ci sono giorni in cui il contatto con qualunque umano mi fa sentire fisicamente male. Spesso sono oppresso da quello che i romantici chiamavano world-weariness»: il dolore cosmico, la stanchezza per il mondo. Chaplin è stato l’attore comico più importante del Novecento. Non a caso, era depresso e insopportabile.

La maggior parte delle routine dei migliori comici del mondo ruota attorno a problemi sociali e personali, dipendenza da alcol e altre droghe, frustrazioni e depressione. Sono tutte cose troviamo irresitibili. Bill Hicks e David Letterman, Louis C.K. e Doug Stanhope, Jim Belushi e Lenny Bruce, George Carlin e Larry David: un mix di alcol, depressione, droghe, recuperi, rapporti morbosi con l’altro sesso, nuove depressioni e un generale odio universale verso gli altri. George Costanza, i Blues Brothers, Homer Simpson e Abed di Community hanno qualcosa in comune: non sono cittadini modello, tutt’altro, e la loro vita sociale suona come una punizione inflitta a loro stessi o al resto del mondo. E sono tutti molto divertenti.

«Gli elementi creativi alla base della produzione di humour sono fortemente simili ai tratti caratterizzanti dello stile cognitivo di soggetti psicotici»

È opinione diffusa che ogni comico celi una personalità disturbata, al limite della follia e sia proprio questa peculiarità a renderli divertenti ai nostri occhi: secondo la vulgata, le loro battute, i loro punti di vista farebbero ridere perché contengono tracce di instabilità e devianza. Una saggezza popolare al limite del cliché che ora ha ricevuto conferma dalla scienza in uno studio appena pubblicato dal British Journal of Psychiatry, che avrebbe dimostrato il legame tra comici e alcuni disturbi mentali. Secondo il giornale, sarebbe proprio proprio l’«inusuale struttura mentale» di queste persone a renderli divertenti per il pubblico. Gli autori del saggio hanno sottoposto 523 comici britannici, statunitensi e australiani a una versione del test psichiatrico “Oxford-Liverpool Inventory of Feelings and Experiences” (O-LIFE), pensato per la schizofrenia e casi di bipolarità. I risultati, racconta il Guardian, sono stati poi messi a confronto con quelli di 364 attori e 831 soggetti con «occupazioni non creative». Sono notevoli: i comici hanno avuto risultati «significativamente più alti in tutti i quattro tipi di tratti da personalità psicotica». Tra questi, schizofrenia, bipolarità, anedonia (la generale incapacità di provare pieno piacere in qualunque situazione), e anticonformismo impulsivo (la tendenza per comportamenti anti-sociali, solitamente collegata all’incapacità di controllare se stessi in relazione all’ambiente e agli altri). Non è così facile, però: lo studio ha anche dimostrato che i comici hanno spesso tratti mentali «salutari» come il pensiero laterale.

L’immagine è sempre la stessa, quella del clown che a fine spettacolo esce dal circo, si siede da qualche parte e scoppia a piangere. Le lacrime gli deformano il trucco e solcano il viso, che ora è mostruoso. È un’immagine che ci disgusta (la paura dei pagliacci ha pure un nome, coulrofobia‎) e allo stesso tempo ci ammalia: puro sublime. Secondo Gordon Claridge, lo scienziato dell’Università di Oxford che ha condotto l’esperimento, «gli elementi creativi alla base della produzione di humour sono fortemente simili ai tratti caratterizzanti dello stile cognitivo di soggetti psicotici».

Forse anche per questo motivo, il mondo dei comici è devastato da suicidi e tentati suicidi. Secondo dati raccolti da Business Insider, i comici professionisti hanno il doppio delle probabilità di tentare il suicidio rispetto la media attuale; un dato che inserisce la professione nella top ten dei mestieri più “a rischio”, dopo i classici “artisti”, dottori, matematici e dentisti. L’ultimo “grande” suicidio nel mondo della comedy statunitense, per esempio, è del 2007: il comico Richard Jeni si svegliò una mattina, chiacchierò con la sua fidanzata e poi si tolse la vita in camera sua, mentre lei preparava la colazione. Anche Rob Delaney, comico e colosso di Twitter da un milione di follower, ha raccontatoVice la sua giornata-tipo, all’insegna della risata come lavoro e delle manie suicide come ossessione personale. Inizia il dì con Lexapro e Cymbalta, medicine che gli sono state prescritte per curare la sua depressione suicida. «Subito dopo o subito prima di averle prese, posto la mia prima battuta del giorno su Twitter». E per un po’ si sente meglio.

Il comico moderno (lo stand up comedian nel mondo anglosassone) è una figura che deriva da quella del buffone. Nel XVI secolo tali performance cominciarono a differenziarsi da quella del clown medievale, il cui ruolo era stato quasi istituzionale, tra il mistico e il politico. Il nuovo comico si spogliò da ogni legame precedente, cominciando a coltivare la propria immagine pur interpretando personaggi sempre diversi. Il primo caso di attore comico moderno riconosciuto è quello di Robert Armin, che si fece le ossa nella compagnia di teatro di William Shakespeare raggiungendo un notevole riconoscimento personale. La maschera da buffone cominciò a staccarsi, il lavoro del comico divenne più personale e portò l’attore, la persona, al centro del suo repertorio. È qui che sono cominciati i problemi?

Il pagliaccio moderno – la sua maschera, la sua bocca grottesca – la dobbiamo a un attore italo-inglese, Joseph Grimaldi, che nei primi dell’Ottocento diventò una star nella scena londinese con la figura del “Joey”, alla base dell’idea di pagliaccio moderno. Come spiega la rivista Lapham’s Quaterly, il trucco pesante scelto da Grimaldi serviva per rendersi visibile anche dalle ultime file dei teatri più grandi. Quella smorfia colorata divenne prestò un’icona in tutta l’Inghilterra, per poi diffondersi in tutto il mondo; in poco tempo, però, si trasformò in una gabbia per l’attore. Grimaldi cominciò a vivere una doppia vita: da una parte era imprigionato nel corpo di un enorme bambino sbadato che tutti faceva ridere; dall’altra, quando scendeva dal palco, era una persona sola e depressa.

La stampa cominciò a seguire la vicenda con morbosità. Grimaldi rimase solo. Un giorno, si racconta, decise di farsi aiutare da un medico che gli consigliò di «andare al teatro una volta ogni tanto: vada a vedere Grimaldi!».

«Purtroppo ciò non mi potrà aiutare», rispose il clown a pezzi, «io sono Grimaldi».

 

Immagine: una scena di Curb Your Enthusiasm (Hbo) con Larry David e Jeff Garlin; i vestiti di scena di “Charlot”, personaggio storico di Charlie Chaplin (Hulton Archive / Getty Images)