Studio X IED

Come si insegna e si impara a diventare registi e video maker

Ce lo hanno raccontato gli studenti e i docenti dello IED di Milano, che hanno condiviso con noi le loro esperienze in aula e sul set.

di Studio

Lavorare a un film, a una serie tv, a un video è come fare découpage: prima spezzettare una storia nelle sue parti fondamentali, poi lavorare su ognuna di esse singolarmente, infine rimettere tutto assieme. Imparare a fare un film, una serie tv, un video significa imparare a lavorare sulle parti, ed è per questo che oggi la qualità più importante per un/una regista o video maker è il poliglottismo: «la capacità di parlare le lingue di tutti i reparti che devono collaborare», come ci spiega Federica Oriente, neodiplomata del corso triennale inin Video Design allo IED di Milano e co-regista – assieme a Ilaria Braccialini – del cortometraggio Il canto di Alina. Ci racconta la storia del film e le chiediamo se ha mai visto Collateral di Michael Mann, il film in cui un sicario interpretato da Tom Cruise sequestra e tormenta un disgraziato tassista interpretato da Jamie Foxx. Ci risponde che glielo hanno indicato come reference i suoi docenti, però dopo che lei e Braccialini avevano già proposto l’idea. Per qualche motivo, Braccialini le aveva chiesto che cosa sarebbe successo, secondo lei, se una prostituta avesse rapito un tassista. E lei, Federica, in quel momento non aveva saputo rispondere ma aveva già capito che quello era il soggetto di un film.

Qualsiasi prodotto culturale – film, serie, video che sia – comincia così: «Quando qualcuno capisce di avere qualcosa da dire, un’idea da realizzare», dice Carlo Piva, docente di tesi e anche lui ex alunno del corso di Video Design. Tutto comincia sempre così, tutto il resto viene sempre dopo. Persino il talento può emergere più tardi, quando gli autori si trovano ad affrontare la sfida di realizzare la loro idea. E, ovviamente, viene dopo anche la competenza tecnica che permette a quell’idea di diventare realtà. Tutto si può insegnare e tutto si può imparare, certo. Ma, come ci spiega Piva, la parte fondamentale di qualsiasi percorso formativo resta il momento in cui quest’ultimo finisce e inizia l’esperienza sul campo. «Preparare gli studenti al vero e proprio lavoro sul set è possibile solo in un modo: mandarli sul set, su tutti i set possibili, tutte le volte che è possibile». Ed è sul campo che si acquisisce la piena consapevolezza di quel lavoro di découpage di cui si parlava prima. Ce lo conferma anche Denis Shalaginov, che ha lavorato assieme a Oriente al Canto di Alina come operatore di macchina (e non solo: ha partecipato anche alle pre-produzione del film, alla scrittura della sceneggiatura, alle ricerche preliminari che hanno impiegato sei mesi e che, ci dice, hanno fatto capire a lui e al resto della troupe quanto complesso e delicato fosse il tema che avevano deciso di toccare con la storia di Alina). A conferma delle parole di Piva, quello che Shalaginov ha tratto da questa esperienza sul set non ha solo, né tanto, a che vedere con il lavoro sulla macchina da presa. La cosa più importante che ha imparato è «essere vigili», soprattutto per quanto riguarda il tempo a disposizione. La tentazione di tornare sul lavoro già fatto, di aggiungere o tagliare, di cambiare o aggiustare, è uno dei dilemmi, forse il dilemma, che si affronta sul set. La lezione che lui ha imparato su quello del Canto di Alina è che «a un certo punto bisogna dire basta».

Il tempo è il tema centrale anche di Ultimi attimi, il corto di Andrea Barbui e Irene Grafato, pure loro studenti del corso di Video Design. «È la storia della vita e della morte di Totò, un contadino siciliano, dedito alla sua terra e alla coltura dei suoi mandorli. Un uomo solitario, fuori da ogni tempo, che giunto all’ultimo respiro, rivivrà gli attimi più importanti della sua vita», spiega Grafato. Che ritorna ancora una volta al discorso fatto da Piva: l’importanza di avere qualcosa da dire. Qualcosa di personale da dire, soprattutto. «Volevamo raccontare una storia che solamente noi potevamo raccontare», mi dice lei. Hanno cercato di farsi influenzare il meno possibile, di conservare nel loro film solo le atmosfere siciliane viste in Baaria e Nuovo cinema paradiso di Tornatore. Il tempo è stato anche un ingrediente fondamentale della loro collaborazione, racconta Barbui. Lui e Grafato, prima di dirigere assieme Ultimi attimi, avevano già lavorato ad altri progetti durante gli anni universitari. La conoscenza dell’altro/a, sul set, fa la differenza. «Ovviamente i tempi di lavorazione si allungano», dice Barbui, perché la condivisione di ogni idea e decisione e soluzione richiede, appunto, tempo. Ma questo, nel loro caso, ha portato a un’aggiunta di ricchezza, di sfumature, di punti di vista in Ultimi attimi.

Non che il lavoro “solitario” sia necessariamente più facile, si capisce. Ce lo spiega Roberto Grasso, regista di Lovorphosis, «un corto d’animazione in stop motion nato da una filastrocca pensata due o tre anni prima. La storia racconta di un chimico che inventa un insetticida capace di uccidere le farfalle nello stomaco. Ma è anche la rappresentazione di un mondo in cui, invece di compiere delle azioni, si preferisce rinunciare». Grasso riconosce che in un film d’animazione, a patto che sia un progetto “contenuto”, il regista – anche se affiancato da una collega come nel suo caso: sul film, infatti, c’è anche la firma di Sara Irace – è relativamente più tranquillo perché deve avere a che fare con meno maestranze. Scherzando ma neanche tanto, però, ci spiega che, soprattutto lavorando con la tecnica della stop motion, un regista deve affrontare una difficoltà inaspettata: un ingannevole «senso di onnipotenza» che può derivare dal potere di decidere liberamente quel che avviene nello spazio e nel tempo di un film. Forse è per questo che, ci racconta sorridendo, è convinto che la sua tecnica d’animazione preferita resterà sempre la stop motion: perché gli permette un controllo impensabile su altri set. Anche se ammette che figure diverse assumono diversa a seconda del film che si vuole realizzare. «In un film incentrato sull’atmosfera, per esempio, l’art director diventa fondamentale». Anche se c’è una figura che mantiene la stessa importanza per tutti i film: «quella che ci mette i soldi, il produttore!».

A prescindere dalla storia, dal genere, dai protagonisti, dalle tecniche e dai tempi di realizzazione, la collaborazione resta lo strumento indispensabile per compiere il lavoro di découpage, di scomposizione e ricomposizione del prodotto. Ce lo conferma anche Painè Cuadrelli, produttore musicale, sound designer, dj e coordinatore del corso triennale IED in Sound Design, appunto. Lui conosce i compiti dei vari tecnici del suono che si dividono il lavoro sul set, ma sa anche che vale per loro la stessa regola che vale per tutti gli “abitanti” del set: a monte c’è sempre «il dialogo». Deve per forza essere così, d’altronde. È l’unico modo per ottenere il risultato che tutti quelli che lavorano al cinema, in tv, con i video vogliono ottenere: «Un impatto emotivo» che dal set arrivi dove deve arrivare: al pubblico.