Cultura | Dal numero

Glamorama alla pechinese

Mentre la crescita economica rallenta, in Cina cambia l’atteggiamento nei confronti della ricchezza: braccati da Xi Jinping, odiati dai giovani, i miliardari cinesi rimpiangono già l’epoca in cui arricchirsi era glorioso.

di Simone Pieranni

A inizio degli anni 2000 in Cina è nata l’espressione un po’ macabra renrou sousuo yinqing, traducibile con “motore di ricerca di carne umana”. Sono gli anni dei primi blog e dei primi social, in particolare Weibo, e in Cina prende piede questo fenomeno, il cui nome è riferito alle azioni collettive degli utenti cinesi alla ricerca di informazioni online e offline su persone responsabili di condotte morali considerate disdicevoli. Uno dei casi più clamorosi fu la pubblica gogna riservata a un ragazzo di Pechino, accusato di avere avuto una relazione extraconiugale che avrebbe portato al suicidio della moglie. Ma moltissimi sono stati i casi di funzionari del Pcc colti in situazioni poco consone al loro ruolo, come il dirigente che durante una conferenza stampa indossava un orologio particolarmente costoso, o quello che si mise a ridere sul luogo di un incidente autostradale nel quale era stato coinvolto un pullman e che provocò la morte di 36 persone. In questi casi i funzionari venivano destituiti, processati e ai netizen era consentito l’insulto, la critica, il mugugno: per il Partito il “motore di ricerca di carne umana” era un modo per permettere alla popolazione di sfogarsi contro le tante diseguaglianze che proprio in quegli anni cominciavano a mostrare i lati più oscuri del “miracolo cinese”.

Il “motore di ricerca di carne umana” è stato un simbolo della Cina che cresceva a doppia cifra: da un lato c’era la condanna di comportamenti disdicevoli i cui protagonisti erano persone normali, con il sotto testo secondo il quale la crescita economica aveva finito per creare una giungla sociale dove sembrava valere sempre e soltanto la legge del più forte, del più arrogante, del più malvagio; dall’altro c’erano le indagini informali e il pubblico ludibrio per i funzionari corrotti, che costituivano il principale bersaglio dei netizen cinesi. Non a caso quando nel 2012 Xi Jinping, l’attuale numero uno, è arrivato al potere, ha dato il via a una vistosa campagna anticorruzione sostenendo che la vita stessa del Partito era in pericolo a causa della poca fiducia della popolazione nei confronti dei funzionari che dovevano rappresentare la nazione cinese.

Ma nel periodo che va dall’esplosione di internet di inizio anni 2000, fino alle recenti azioni di Xi Jinping contro i “ricchi”, i miliardari cinesi dell’epoca, quelli che riempivano le cronache dei media occidentali per il loro shopping di “asset” nostrani, sembravano essere risparmiati dalle critiche online. È che volavano basso, non si esponevano troppo: sistemavano i loro macchinoni nei parcheggi privati, spostavano silenziosamente soldi fuori dal Paese, ma per loro fortuna non era ancora l’epoca dei selfie, dei reel e della tentazione di mostrare a tutti la propria ricchezza. Anzi, i più audaci tendevano a presentarsi in canottiera bianca e bermuda ad aste, a eventi dove si vendevano yacht, a fiere del vino e a sfilate di gioielli, provocando spesso gustosi equivoci quando a organizzare questo genere di happening erano le ambasciate occidentali, abituate a concepire “il ricco” come una persona ben vestita, con un certo stile. I ricchi cinesi no, non volevano farsi troppo notare o semplicemente rimanevano agganciati ad abitudini portate avanti quando ancora non erano miliardari. Perché negli anni 2000 in Cina poteva diventare miliardario quasi chiunque.

D’altronde, durante i dieci anni al potere di Hu Jintao (dal 2002 al 2012) i ricchi cinesi potevano ancora vivere nel solco della frase di Deng Xiaoping, «arricchirsi è glorioso», consapevoli che – proprio come aveva specificato il “piccolo timoniere” – qualcuno si sarebbe arricchito prima degli altri. Era tutto normale, previsto: bastava non esagerare. Anche perché, se i cinesi sapevano benissimo che i quadri del Partito accumulavano ricchezze grazie ai loro guanxi, il network relazionale e pietra angolare della società cinese, sapevano anche molto bene che in quella Cina l’ascensore sociale funzionava o almeno sembrava funzionare. I casi di miliardari arrivati dal nulla, o imprenditori che concepivano le loro killer app in minuscole stanze d’albergo (come Jack Ma di Alibaba) o chiusi nelle loro stanzette da nerd (come Ma Huateng di Tencent) erano il simbolo della Cina che cresceva, che si arricchiva e che cominciava a comprare e sistemarsi anche nel sistema industriale della cultura e dello spettacolo occidentale. Erano ricchi, talvolta in modo esagerato, ma la loro aura era in qualche modo “patriottica”: stavano facendo il bene della Cina, erano gli ambasciatori del cambiamento storico in atto. E soprattutto: chiunque viveva nella percezione, o nel sogno, di diventare come loro, ricchi sfondati.

Xi Jinping ha cominciato il suo mandato sistemando le cose all’interno del Partito, eliminando la moda delle feste, delle cene esagerate, dei regali pacchiani ma costosi (tanto che ancora oggi, anche solo proporre di regalare qualcosa a un funzionario pubblico, sia un politico o un primario di ospedale, genera un’agitazione spaventosa nel destinatario, costretto a chiedere di non ricevere assolutamente nulla, per l’amor del cielo). Poi ha cominciato a prendere di mira i miliardari, modificando completamente la cornice nella quale erano abituati a operare. E tutto è cambiato. Il passaggio di epoca – o di “era” come piace dire a Xi – è stato ben descritto da Desmond Shum nel libro Red Roulette: An Insider’s Story of Wealth, Power, Corruption, and Vengeance in Today’s China uscito nel 2021. Shum faceva parte dell’élite cinese: grazie alle sue relazioni con la politica è diventato miliardario conquistando commesse particolarmente redditizie. Ma la vera svolta arriva quando si sposa con l’imprenditrice Whitney Duan. I due diventano una “power couple”: sono giovani, richiesti in ogni occasione mondana e soprattutto hanno i guanxi giusti, perché Whitney è amica della moglie dell’allora premier Wen Jiabao, conosciuta nei gossip pechinesi dell’epoca, capaci di arrivare perfino alle orecchie del popolo, come “la regina dei diamanti”. Insomma Shum e Duan tra i miliardari cinesi ci stanno benissimo, le loro finanze progrediscono, hanno quel tocco glamour che li rende incredibilmente sexy agli occhi dei cinesi. Incontrano altri miliardari, cinesi e non, e politici: cene, vacanze, serate di gala. Ma quando comincia a sentirsi l’odore dei roghi del nuovo Torquemada cinese, Xi Jinping, tutto comincia a evaporare. Shum e Duan perdono commesse, contatti, relazioni e divorziano. Shum è un furbone, è uno che tende ad autoassolversi, a non raccontare proprio tutti i particolari di certe relazioni, ma nel libro scrive che a un certo punto la percezione, nel suo mondo, è quella di terrore puro: capiscono tutti che con Xi Jinping l’aria è destinata a cambiare e ad uno ad uno lui e Duan assistono alla caduta dei loro sodali, di solito imprenditori privati la cui spavalderia comincia a consumarsi o in fughe precipitose o in temibili inchieste finanziarie o in suicidi. Nel 2017 Duan sparisce, Shum scappa: poco prima avevano cominciato le pratiche per il divorzio. Shum risentirà la ex moglie qualche anno dopo. Lo chiama dal carcere e così Shum scopre due cose: che Duan era sparita perché era stata arrestata e che anche in carcere teme le conseguenze che possono scaturire dalla pubblicazione del libro del marito e gli chiede di non pubblicarlo. Shum va avanti per la sua strada ma non succede niente: loro sono due rimasugli, due ferri vecchi di una Cina che non c’è più, fanno parte di una camarilla che Xi Jinping ha già sistemato. Nel frattempo, infatti, la Cina era cambiata: dai grandi dirigenti di aziende, la ricchezza cominciava a spostarsi in altri mondi, in quello delle piattaforme e in quello di chi sulle piattaforme ha cominciato a fare i soldi. Influencers e livestreamer sono diventati all’improvviso personaggi pubblici ammirati e ricchissimi, proprio quando Xi Jinping stava cambiando cannocchiale. Ora il numero uno vuole altro: vuole moralizzare il Paese, vuole riportare la frugalità dell’era maoista tra i valori principali della sua Cina nuova. E si dedica ad altri ricchi.

Qualche settimana fa l’attrice cinese Zhang Yuqi si è dovuta scusare pubblicamente. Lei è abbastanza famosa ed è molto richiesta per le livestream cinesi durante le quali si vende qualsiasi cosa. In una delle dirette che l’ha vista impegnata, Zhang, a un certo punto, a proposito di un paio di calze di lana, ha detto che il prezzo di 699 Rmb non era poi così alto. È stata massacrata sui social: dire che l’equivalente di circa 100 euro per un paio di calze è un prezzo tutto sommato basso, è stato percepito come un insulto alla difficoltà che tanti cinesi stanno vivendo. E contravviene all’invito di Xi Jinping: non ostentare ricchezza. La Cina che cerca un suo ruolo in un desiderato nuovo ordine mondiale ha parecchi problemi interni, da tempo. La leadership lo sa e da ormai qualche anno Xi Jinping ha lanciato alcune nuove parole d’ordine, la più importante delle quali è “prosperità comune”. In un’epoca di rallentamento della crescita, di disoccupazione giovanile record (oltre il 20 percento), Xi ha cominciato a dire che è necessario redistribuire, rimettere a posto «il disordine del capitale» e tornare a fare una vita semplice, che significa anche non ostentare in modo eccessivo la ricchezza da parte di chi, invece, in questa fase i soldi li fa ancora a palate. In cambio della crescita, Xi Jinping si è riscoperto populista, parlando a quella Cina dilaniata economicamente dalle conseguenze della lunga chiusura per il Covid: la Cina degli anziani, dei nostalgici, degli ultra nazionalisti.

Nel mazzo degli esempi da colpire per educarne molto più di cento, ci sono finiti prima gli imprenditori privati, rappresentati e avvisati dalle vicissitudini di Jack Ma, multato, sparito dalla circolazione e tornato con la coda tra le gambe e con un messaggio implicito che ribaltava lo slogan denghiano: con Xi, arricchirsi è rischioso. Poi è toccato a quelli che online fanno i fenomeni; e dato che in Cina servono sempre degli esempi potenti, a obbedire al nuovo corso è stato per primo Douyin, che è il nome di TikTok in Cina. Un anno fa la piattaforma ha annunciato di aver rimosso «più di 2.800 video e punito quasi 4 mila account». Tra i post rimossi c’erano quelli che «mostrano deliberatamente grandi quantità di denaro e promuovono il culto del denaro». In uno dei video eliminati, ad esempio, un utente mostrava «una grande quantità di denaro e oggetti di lusso come iPhone, chiavi di auto e orologi costosi. Un altro video mostrava un utente che lanciava in aria dei soldi».

E così i giovani cinesi, che contrariamente ai padri non vedono futuri radiosi davanti a loro ma stenti, stress, povertà e mancanza di lavoro, hanno rispolverato un grande classico, diventato in pochissimo tempo un meme e un simbolo di questa Cina che stronca i ricchi ma sembra non avere soluzioni per chi di soldi non ne ha. La televisione di Stato ha infatti definito “schizzinosi” i giovani laureati cinesi che non accetterebbero lavori al di sotto delle loro aspettative. Xi Jinping ha ricordato che bisogna «masticare amaro» e che in ogni caso lui un welfare «per le persone pigre» non lo vuole. E allora nella cosiddetta stagione «d’oro e d’argento» di quest’anno, cioè marzo e aprile, mesi nei quali di solito in Cina si assume, i nuovi laureati hanno proposto il meme di Kong Yiji, protagonista di un racconto breve del 1923 di Lu Xun, il padre della letteratura moderna cinese. Nel racconto Kong è un uomo molto colto, un cliente abituale di una taverna durante l’epoca Qing (l’ultima dinastia regnante in Cina): gli piace bere e parlare, di solito con un linguaggio molto forbito. Ma Kong è anche l’unico che si veste con l’abito lungo da studioso e che beve il vino di riso in piedi, come fanno i poveri. Kong è colto, studia ma non supera gli esami imperiali e così la sua vita diventa un’esistenza di stenti, di povertà e di rischi (viene più volte picchiato a sangue). Celebrato come un capolavoro dal Partito comunista cinese, la novella di Lu Xun si sta ritorcendo contro Xi Jinping: se Lu Xun voleva criticare la burocrazia e la decadenza intellettuale della dinastia Qing, oggi quel racconto diventa uno strumento di critica di una società che se da un lato annuncia di voler fustigare i ricchi e invocare principi di redistribuzione, dall’altro sembra essere anche contro i suoi giovani, quelli che dovrebbe costruire il futuro del Paese. Questo fenomeno, in fondo, completa il ritratto dell’attuale Cina: un Paese nel quale alla paura nei confronti dell’autorità da parte dei più ricchi, si contrappone una delusione e una frustrazione da parte dei più giovani.

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