Intervista alla scrittrice in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo, risultato di tre anni e mezzo di conversazioni con il boss Peppe Misso, con cui Ciabatti ha parlato di carcere, guerre di camorra, plastiche facciali e avvistamenti di Ufo.
Avevamo lasciato Chiara Barzini nella Los Angeles del terremoto. Il suo libro d’esordio, uscito nel 2017 per Mondadori, era la storia di formazione di un’adolescente romana – Eugenia – trapiantata bruscamente nella California degli anni Novanta: rivolte popolari, ovviamente droga e sesso, ma soprattutto una famiglia che viene scossa come i palazzi, fino a farla crollare. Terremoto era esaltante e angosciante, una cartolina diversa su Los Angeles e anche un punto di vista raro, dall’Italia. Perché Chiara lo conosceva bene, avendoci vissuto per davvero negli anni cruciali dell’adolescenza, e più avanti dell’università. Poi è tornata a vivere a Roma, ha iniziato a lavorare in modo massiccio come sceneggiatrice per il cinema. Quando mi ha detto che stava lavorando a un nuovo libro, mi immaginavo qualcosa di romano e italiano, forse qualcosa di eoliano, conoscendo il suo amore per Alicudi, e invece no: ancora Los Angeles, e ancora una Los Angeles sconosciuta. Non solo dall’Italia, ma probabilmente dalla maggior parte dei californiani stessi. È un romanzo, L’ultima acqua, che racconta di illusioni perdute e trucchi magici che finiscono. L’acqua a Los Angeles, soprattutto. La California come Terra Promessa, anche. Chiara racconta del suo viaggio lungo l’acquedotto cittadino costruito da quel visionario di William Mulholland, ignegnere coraggioso ma con poche arti e poche parti che negli anni ’20 si inventò un folle sistema per saccheggiare l’acqua dalla Owens Valley e portarla nella città, e trasformarla in una fabbrica di illusioni. Che stanno finendo: Chiara Barzini si muove su una strada tracciata da Joan Didion, naturalmente, ma in cui l’influsso più forte è probabilmente Geoff Dyer, e però il libro si tinge di politica fin dalla prefazione. Aggiunta poco prima della stampa della prima edizione, nel gennaio 2025, quando la California ha affrontato i terribili incendi che hanno lasciato senza casa 150.000 persone. «L’acqua costruisce e distrugge gli imperi», scrive Barzini, «ma è l’illusione collettiva dell’abbondanza perpetua che sta causando l’apocalisse».
ⓢ Intanto, la forma: io mi aspettavo di trovare un Einaudi “verde”, cioè un Supercorallo, un romanzo, e invece sotto la sovracoperta scopro che è un Einaudi “azzurro”, cioè della collana Frontiere, nella saggistica. Ma questo libro per te che cos’è?
In realtà il libro è partito come un saggio. Di natura è non-fiction. E teoricamente doveva essere un libro molto semplice, sulla città. E poi, strada facendo, si sono aggiunti degli strati e quindi è diventato un po’ ibrido, andando avanti. In libreria lo trovi con la Lonely Planet, ma lo trovi anche tra i memoir.
ⓢ Però c’è un motore di azione molto forte: alla fine è un road trip.
Sì, sì, c’è movimento. Però c’è anche, appunto, la storia, le altre voci, il piano di realtà su questo tema.
ⓢ Dopo la tua adolescenza e prima età adulta a Los Angeles, da quanti anni sei tornata a vivere a Roma, dieci?
Ne avevo trenta, quindi… quindici.
ⓢ E come sei finita a scrivere ancora un libro sulla California?
Intanto perché è stato un po’ uno strappo, cioè è stato come un percorso interrotto: io sono rientrata in Italia e continuavo a fare avanti e indietro, ma poi dopo mi sono fidanzata, ho cominciato a lavorare per il cinema e alla fine ho deciso di rimanere qua. E quindi non c’è mai stato un momento in cui ho detto: ok, la California è un capitolo chiuso. E poi perché negli anni in cui ho vissuto in California, siccome ero ancora molto piccola, c’erano tante cose che non avevo capito.
ⓢ Poi c’è stato in effetti l’espediente del manoscritto ritrovato: all’inizio del libro c’è questo tuo amico che ti regala un libro sull’acquedotto, la storia di William Mulholland e della sua impresa titanica. Da lì, nasce una specie di ossessione.
La cosa che mi ha veramente acceso di questo manuale è la visione di questa specie di spazio vuoto, per cui uno poteva dire: io qua faccio apparire una cosa. E quindi da lì ho cominciato a ragionare non tanto sulla città di Los Angeles, ma proprio sul gesto del far comparire, sul gesto magico, su una specie di incantesimo che poi è quello che ha fatto Mulholland. Dire: adesso facciamo arrivare l’acqua. Quindi più che la fascinazione per la città, era la fascinazione per la creazione dal nulla di qualcosa, per l’atto di far comparire di qualcosa di magico. In generale ero e sono interessata a come le cose compaiono, come i nostri sogni possono far comparire delle realtà.
ⓢ Cercando le vestigia di quel sogno di abbondanza, parli tanto di rovine, e del concetto di rovina. Incontriamo certe rovine romane, antichissime, quando la storia si sposta su Roma, ma soprattutto le recentissime rovine del sogno di prosperità di Los Angeles: sono due estremi opposti, Roma e Los Angeles?
Sì, sono due estremi opposti, però in questo viaggio per la prima volta io ho sentito il sapore della fine di un impero. Ed era un sapore a me familiare perché sono cresciuta dentro un impero finito. Nel libro a un certo punto vado a Las Vegas, un luogo che mi era sempre apparso come indistruttibile e futuristico, e in questo viaggio mi è sembrato, come dire, sull’orlo dell’essere una cosa del passato. Le pareti degli hotel vuote, queste gondole rovinate, questo sapore un po’ vintage, un po’ retro. Mi sono detta: cavolo, questo Paese sta andando in rovina, questo grande impero avrà a breve delle sue rovine.
ⓢ Noi europei siamo abituati a rovine che hanno migliaia di anni. E invece quelle che tu trovi in questo viaggio sembrano molto più kitsch, cioè sembrano strutture che restano da un enorme Burning Man, assurdo, esagerato e fragile, che però è un Paese: l’America. E non sembrano rovine in grado di resistere nemmeno un altro secolo.
Infatti non sono sicura che resisteranno un altro secolo, però sono comunque le rovine di quel tipo di impero là, che è un impero diverso da quello romano, fondato su delle idee diverse, in cui il consumo è anche immaginato. Un impero capitalista basato sull’uso e il consumo, in cui nessuno ha mai pensato che queste cose dovessero durare per sempre. Mulholland stesso aveva dichiarato, quando ha portato l’acqua a Los Angeles: 100 anni di abbondanza. Poi tutti hanno fatto finta di dimenticare questa cosa, ma 100 anni sono 100 anni.
ⓢ Rispetto al libro prima sembri molto più arrabbiata con Los Angeles.
Sì, più che arrabbiata, un po’ disillusa. E ho anche la sensazione di aver sprecato un luogo magico. Anche gli incendi con cui si apre il libro mi hanno veramente rattristato, perché penso che tutto questo si sarebbe potuto prevenire in maniera molto più facile. I segnali di allarme c’erano tutti e anche vedere dei luoghi dell’anima che sono andati in fiamme, case di amici che sono andati in fiamme, dei posti che io andavo a visitare quasi in maniera religiosa ogni volta che tornavo in città, volatilizzati. La rabbia è un po’ quella, tante cose si sarebbero potute evitare.
ⓢ C’è una parte in cui sei sul Salton Sea e c’è un momento toccante in cui ti metti a piangere. Mi hai ricordato di un momento di due anni fa, quando sono andato a Los Angeles, e non ci volevo andare, era un momento in cui ero molto giù, avevo consegnato il mio romanzo ma non era ancora uscito e in quell’attesa, quel vuoto, mi sembrava tutto senza senso. Poi mi sono deciso a salire sull’aereo, e quando dopo i ghiacci dell’Artide abbiamo sorvolato l’enorme deserto della California, guardando fuori, anche io mi sono messo a piangere: era tutto così diverso da tutta la vita di stress che mi aveva circondato fino a quel momento, tutto quel vuoto, era immenso e stupendo.
Sì, ha un potenziale catartico incredibile, è una terra che comunque è nata su una catarsi, nel senso che nasce su una falda che si sta spezzando, che è sempre in movimento, quindi hai questa sensazione di qualcosa di pericoloso e di affascinante e così bello da vedere tutto insieme, che secondo me appunto ha una sua magia intrinseca.
ⓢ C’è anche molta malinconia, no? Sia legata all’acqua che sta scomparendo, sia legata a una sottotrama: il sogno di fare un film dal tuo primo libro che, piano piano si capisce, dopo l’entusiasmo iniziale ha sempre meno probabilità di farsi.
Secondo me è difficile non essere, per la nostra generazione almeno, non essere nostalgici anche per quella specie di capitalismo sfrenato che ci ha cresciuti. Siamo stati gli ultimi a vederlo: gli ultimi a vederlo e a innamorarci di queste, come dire, icone del capitalismo. Che ci hanno anche dato tanto, ci hanno regalato delle cose. I simboli, i film, la musica, i vestiti. Ci hanno dato un’idea di un “laggiù”, di un altrove magico dove succedevano delle cose incredibili. E quindi è come quando nel Mago di Oz ti rendi conto che il Mago di Oz non esiste. Non dico che ci avevamo creduto, ma comunque ci siamo lasciati incantare.
ⓢ C’è anche poi un’altra malinconia, che è quella legata al rapporto con le tua giovinezza: nel road trip ti accompagnano due vecchie amiche, e con loro fai i conti con la trasformazione da ragazza a donna.
Sì, io prima del Covid tornavo a Los Angeles almeno due volte all’anno. Dopo il Covid tutto si è un po’ rallentato. E quindi io non ho visto le mie amiche forse per tre anni. Fare il punto della situazione di volta in volta con delle persone che conosci magari da trent’anni, insomma, una volta ogni anno, ogni volta è abbastanza sconvolgente. Da cosa siamo stati, come dire, cambiati, traumatizzati, incantati? Chi ha male, e dove? Tu come stai invecchiando? Tu che creme usi? Tu come sei come genitore? Quali sono i problemi che hai con i tuoi figli? Fare veramente il punto di tutto. È una cosa bella perché con le persone che vedi tutti i giorni non ci pensi. Invece loro, queste due amiche, sono delle testimoni delle cose che per me sono state più dure da digerire. Le grandi delusioni, anche le grandi disillusioni su che cos’è la maternità, che cos’è il parto, che cos’è, insomma, la genitorialità.
ⓢ Una storia nella storia incredibile è quella di Larry Shinoda. La racconto qui per chi ancora non l’ha letta, senza togliere niente poi all’esperienza di leggerla: tu a un certo punto arrivi in un campo di concentramento per giapponesi nel deserto, giapponesi non solo prigionieri di guerra ma anche cittadini americani di origine giapponese. Una cosa tremenda, messa su durante la Seconda guerra mondiale. E scopri che qui fu internato, a dodici anni, il giovane Larry Shinoda, cioè l’inventore della Chevrolet Corvette. Che, ecco un altro segno magico, è l’auto simbolo della California, e quella immortalata nella famosa foto con Joan Didion. Una che è, a sua volta, un po’ la madrina di questo libro. Sembra fatto tutto apposta, come una coincidenza magica.
Incredibile, veramente è stata una cosa magica. Durante il viaggio sono successe tutta una serie di cose che poi hanno permesso a questo libro di diventare un libro. È strano, perché per me il libro è un lutto sulla fine della magia, perché io lo stavo vivendo come la fine di tante cose magiche. E questo campo di concentramento, Manzanar, di cui io non sapevo assolutamente nulla… per fortuna avevo Kate in macchina che ha detto, Dio ma questo è Manzanar, ci dobbiamo fermare!
ⓢ Secondo me la cosa divertente alla fine, non so se ci hai pensato, è che una delle ultime scene sei tu che ti rompi una gamba cadendo in bicicletta. Praticamente, il mezzo meno “Los Angeles” che si possa immaginare. Come se fosse un allontanamento definitivo dalla megalomania stradale della California.
Sì, tra l’altro per colpa di una ruota incastrata tra due sampietrini. Una cosa tipo: se non l’avevi capito ancora, adesso te lo facciamo capire noi.

Con la Palma d’Oro a It was Just an Accident diventa il secondo regista, dopo Michelangelo Antonioni, a vincere tutti i grandi festival europei. Un traguardo incredibile, soprattutto per un uomo che da 30 anni sopravvive a censura, repressioni, incarcerazioni.

A 66 anni, uno dei più apprezzati sceneggiatori italiani gira il suo primo film, di cui è anche protagonista. Lo abbiamo intervistato e ci ha raccontato perché l'ha fatto: per parlare di cose inutili e perché glielo ha consigliato Paolo Sorrentino.