Attualità | Ambiente
Il clima ha bisogno di cittadini, non di spettatori
Cosa succede all'attivismo se l'estetica del disastro climatico diventa un contenuto social come tanti altri?

Arriva sempre così. C’è un primo, singolo video a increspare la superficie della giornata. Appare nel flusso senza contesto, ma ormai conosciamo la procedura. Quel video è l’annuncio che ci fa tornare tutti in postazione: c’è stato un nuovo evento meteo estremo, da qualche parte nel mondo. In quel video di solito ci sono: una strada, dell’acqua, del fango e una geolocalizzazione. Sappiamo già cosa succede, perché è già successo, ci serve solo sapere dove è successo stavolta. Spesso ci sono delle auto trascinate via da un torrente di fango fuori controllo. Mille video all’anno di automobili in uno tsunami di fango e detriti sono diventati l’esperienza del presente nella sua forma più distillata, il miglior modo che avremmo di rispondere alla domanda «com’è il mondo oggi?». Senza l’auto non presteremmo la stessa attenzione, è lei a darci l’idea della scala, della forza, a farci sentire abbastanza persi da dire: potevamo essere noi, potevo esserci io. Sono le macchine a rendere umane le immagini degli eventi estremi.
I flash flood della zona di Valencia sono il peggior disastro climatico europeo dalle alluvioni che nell’estate del 2021 uccisero più di duecento persone tra la Germania e il Belgio. Secondo una Reuters della mattina del 30 ottobre, nella comunità valenciana ci sono almeno 51 vittime, a giudicare da quanto sono terrificanti le immagini potrebbero essere di più. L’agenzia cita come prima fonte una serie di video condivisi sui social media di persone intrappolate dall’acqua e dal fango, alcune si sono dovute arrampicare sugli alberi per salvarsi la vita, come se fossero in fuga da un predatore. Il climatologo del CNR Giulio Betti su Twitter scrive: «430 millimetri di pioggia, di cui 340 millimetri in poche ore». Sono proporzioni spaventose, da cui nessun territorio può uscire indenne.
Una nuova tragedia che ci sta insegnando l’ennesima toponomastica del dolore, Chiva, Turis, Utiel. È l’ennesima catastrofe impensabile che stiamo sperimentando come un contenuto visivo, abbastanza vicina da farci trasalire, abbastanza distante da poterla verbalizzare in tempo reale: post, foto, commento, condivisione. Ho i social invasi, e sono tutti atti di genuino dolore e terrore, ma è anche come guardare tutti insieme una tempesta al sicuro da dietro una finestra, dal lato giusto del vetro. Quei video sono la certificazione della nostra impotenza e, fin quando continueremo a diagnosticarci questa impotenza, la lotta ai cambiamenti climatici sarà soltanto questa brutta profezia ricorrente che si autoavvera, in cui urliamo tutti perché c’è turbolenza, ma poi sarà il pilota a salvarci. Giusto? No: nel cambiamento climatico il pilota siamo noi, e il pilota non urla. Il pilota fa scelte, prende decisioni.
Veniamo da una lunga sequenza di disastri, il fatto che le tempeste abbiano spesso un nome – Boris, Helene, Milton – sta amplificando questa serializzazione dell’esperienza climatica, la sua trasformazione da crisi a contenuto. Sul New York Times Magazine, Brooke Jarvis scrive di quanto la sua esperienza del devastante uragano Helene sia stata visiva: era terrorizzata per sua sorella che vive in North Carolina e ha iniziato a consumare video su video, e Instagram lo ha capito e gliene ha dati sempre di più, domanda e offerta di terrore, come se fosse Halloween tutto l’anno, e i video della North Carolina diventavano sempre più strani, e alla fine si è resa conto che si era tutto mescolato, una settimana prima era venuta giù la Repubblica Ceca e la Repubblica Ceca si era mescolata ai suoi feed sul North Carolina, e poi erano apparsi dei video da alluvioni accadute in contemporanea in Nigeria e poi quella della scorsa primavera nel Rio Grande do Sul, in Brasile. L’algoritmo procede per infinite correlazioni: se ti è piaciuto vedere un’auto trascinata dal fango ad Ashville, forse ne apprezzerai anche una trascinata dal fango a Porto Alegre. Siamo tutti persi in questo loop. Ma forse possiamo chiederci se è una forma di attivazione o è una forma di resa.
Il cambiamento climatico sta diventando un’esperienza estetica collettiva, stiamo trattando il clima come quel content creator che ha capito come stimolare le nostre ricondivisioni. Condividiamo i video anche perché i giorni del dolore di qualcuno, come a Valencia, sono i giorni in cui abbiamo ragione, in cui possiamo scrivere: ve l’avevamo detto, guardate qui, non sono gli attivisti a bloccare il traffico. E in quel «guardate» ormai c’è tutto il senso dell’imbuto in cui è finita l’esperienza climatica, che nasce astratta, rarefatta: dati, modelli, proiezioni, scenari. E allora l’antidoto è questa filiera dell’immagine ipersintetica, verticale, reale come solo la realtà. Il clima sta perfezionando quell’immagine a ogni disastro, il groviglio di auto a Valencia sembra uscito dritto dal nostro inconscio ecologico.
È come una versione dieci piccoli indiani in cui il brivido della condivisione è anche un modo per celebrare il fatto che nemmeno oggi è toccato a te morire per un evento estremo. Brooke Jarvis nella sua ricerca di video a un certo punto trova questo tweet: «Il cambiamento climatico si manifesterà come una serie di disastri visti attraverso un telefono, con il girato che si avvicina sempre di più a te fino al giorno in cui sei tu che lo stai filmando». I disastri continui stanno trasformando intere regioni in società post-traumatiche di massa, lo è l’Emilia Romagna delle quattro alluvioni in un anno, lo saranno quelle della comunità autonoma valenciana. Ma nel frattempo gli altri, noi dalla parte – per ora – fortunata del vetro, stanno diventando la società pre-traumatica di massa, quelli col telefono in mano in attesa della fine. L’Europa sembra divisa ormai tra quelli che sono già passati da un evento estremo e quelli che ci passeranno.
Meta (Facebook, Instagram, eccetera) ha deciso che penalizzerà chi parla di politica ed elezioni, basta anche un invito al voto per essere surrettiziamente oscurati. Zuckerberg ha deciso di aver avuto troppi casini con la politica, è la sua azienda e si fa così, fine della democrazia, se volete un social diverso fatevelo. Cosa faremo quando Meta avrà casini col clima? Succederà: l’intelligenza artificiale ha bisogno di quantitativi abnormi di energia, avrà un impatto scoraggiante sulla riduzione delle emissioni che nel frattempo non calano, perché da un lato aggiungiamo rinnovabili al sistema, ma dall’altro il sistema diventa sempre più grande e vorace, e lo diventa anche per permetterci di fare tutte le condivisioni climatiche che vogliamo. E quando Meta deciderà che i video delle alluvioni meritano uno shadowban perché imbarazzano l’azienda, cosa rimarrà di tutta questa agitazione? Niente: come in un’alluvione, che vi auguro di non sperimentare mai, prima dell’acqua e del fango arriva il buio, perché la prima cosa che salta è la luce. Un giorno, la luce del clima come content creator sarà spenta, e sentiremo solo il rumore.
Oppure rimarrà quello che potremmo fare da oggi, se imparassimo a resistere alla dopamina della pornografia climatica: dirci che abbiamo visto abbastanza, che non serve vedere ancora. Lo sappiamo che ci sarà un altro evento estremo, e ancora, e ancora, e ci saranno fango, terrore, morti e auto portate via. Sappiamo già abbastanza, abbiamo già visto abbastanza, e ora verrebbe la parte faticosa, organizzarsi. Se tutti quelli che hanno condiviso un video sulle auto trascinate dal fango a Valencia fossero andati a uno sciopero sul clima negli ultimi due anni, le piazze sarebbero stato piene come nel 2019. E se lo sciopero vi sembra uno strumento vecchio, ci sono tante varianti, assemblee di fabbriche ecologiste, collettivi di attivisti, percorsi politici locali, nazionali, internazionali, perfino (aiuto) partiti, nell’ultimo anno ci sono stati addirittura due diversi stati generali per il clima. Presenze: poche. Perché è più difficile che condividere. Ma il clima ha bisogno di cittadini, e non di spettatori.
Foto di José Jordan/AFP via Getty Images