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Alcune AI starebbero sviluppando il “survival drive”, un istinto di sopravvivenza simile a quello che fece impazzire Hal 9000 in 2001: Odissea nello spazio Alcuni studi mostrano come molte intelligenze artificiali sabotano i tentativi di spegnerle, come Hal9000 di «2001, Odissea nello spazio».
L’Albania non solo ha una ministra AI, ma questa ministra AI è anche incinta di 83 figli AI Ogni "figlio" di Diella fungerà da assistente personale per uno degli 83 parlamentari del Partito Socialista d’Albania.
La nuova traduzione di Einaudi del titolo de La metamorfosi di Kafka sta facendo molto discutere La casa editrice ha spiegato che il nuovo titolo è una traduzione più precisa e fedele dell'originale "Die Verwandlung".
Le elezioni in Irlanda le ha vinte Catherine Connolly, un’outsider assoluta, psicanalista, pro Pal e sostenuta dai Kneecap Progressista, antimilitarista, pacifista, si è espressa contro il riarmo in Europa e ha condannato il genocidio in Palestina.
È morto Björn Andrésen, «il ragazzo più bello del mondo» diventato famoso per Morte a Venezia L’attore svedese aveva settant’anni e per tutta la vita ha lottato con la difficile eredità del film di Luchino Visconti.
I ladri del Louvre sono stati catturati anche perché hanno lasciato indietro un sacco di indizi, tra cui dei guanti, un casco, un gilet catarifrangente, una fiamma ossidrica e un walkie-talkie Un sospettato è stato fermato all'aeroporto Charles de Gaulle mentre tentava di partire per l'Algeria, l'altro mentre si preparava a partire per il Mali.
Da quando è uscito “The Fate of Ophelia” di Taylor Swift sono aumentate moltissimo le visite al museo dove si trova il quadro che ha ispirato la canzone Si tratta del Museum Wiesbaden, si trova nell’omonima città tedesca ed è diventato meta di pellegrinaggio per la comunità swiftie.
Yorgos Lanthimos ha detto che dopo Bugonia si prenderà una lunga pausa perché ultimamente ha lavorato troppo ed è stanco Dopo tre film in tre anni ha capito che è il momento di riposare. Era già successo dopo La favorita, film a cui seguirono 5 anni di pausa.

Chi l’ha visto?

Leggere Mezzanotte a Pechino e scoprire che a volte l'indagine è il migliore metodo di narrazione. (Con elogio di un noto programma Rai).

25 Giugno 2013

Esiste un programma più povero esteticamente e con un linguaggio televisivo più rozzo di Chi l’ha visto? Probabilmente no. Ma Chi l’ha visto?, dopo essere stato ampiamente snobbato dal sottoscritto che lo ha sempre considerato un programma da nonne, è diventato da un paio di anni il mio unico appuntamento televisivo veramente fisso, una classica dipendenza in quanto veicolo di emozioni forti. Non starò qui a lodare la funzione di vero servizio pubblico che il programma condotto da Federica Sciarelli, grazie alla rete che ha costruito negli anni, pure assolve, occupandosi di recuperare vecchietti malati di Alzheimer dispersi in qualche stradaccia rurale, o adolescenti ribelli fuggiti di casa su un autobus di linea di un’azienda comunale di trasporto; le ragioni del mio interesse, chiamiamolo pure morboso, si trovano piuttosto nelle storie dove gli autori del programma mettono in piedi una vera e propria indagine mirata alla risoluzione di omicidi irrisolti e di sparizioni tanto misteriose quanto sospette.

L’inviato formula delle ipotesi e costruisce una narrazione logica, verosimile, in definitiva realista

Una persona viene uccisa o scompare. Spesso una persona che apparentemente conduceva una vita che tutti gli interpellati definiscono “normale”. L’inviato di Chi l’ha visto? si mette sulle sue tracce, scopre cose, formula ipotesi, arrischia risposte con la sua voce sapientemente incrinata dall’angoscia. Lo spettatore si chiede: sarà andata effettivamente così? Quanti segreti si nascondono nella vita delle persone apparentemente “normali”? La musica tristissima o inquietante, i paesaggi desolati e gli interni brutti e opprimenti arricchiscono di potenza e profondità la vicenda umana. L’uomo è solo, si conclude, o quanto meno esiste uno spazio-tempo in cui ogni singola condotta umana si muove al riparo dallo sguardo del mondo. Questa solitudine, che lascia spazio a decine o a centinaia di possibilità, è per ogni spettatore/indagatore il campo delle congetture (X avrà fatto questo o quello? Sarà andato qui o lì? Avrà incontrato Y o Z?). Sulla base di prove più o meno stringenti, l’inviato formula delle ipotesi e intorno a queste ipotesi costruisce una narrazione in cui la sequenza delle ipotesi abbia una coerenza logica, una verosimiglianza, in definitiva un realismo. Non è un processo mentale che assomiglia spaventosamente a quello che dev’essere messo in azione per scrivere una qualsiasi storia di finzione?

D’altra parte, non sono certo io a scoprire l’esistenza di un collegamento tra narrazione e metodi d’indagine, o persino tra narrazione e diritto. In un libro di cui parlavo in una delle prime uscite di questa rubrica, Ossa nel deserto di Sergio González Rodríguez (Adelphi), documentatissima indagine letteraria sulla strage di donne a Ciudad Juárez, viene riportata una citazione da un altro libro, intitolato Derecho y narración, che dice: “La narrazione è una manifestazione di raziocinio nel senso più alto del termine, accanto e in contrapposizione al raziocinio fisico, matematico o logico… è l’unica forma di ragionamento davvero in grado di cogliere le umane realtà”.

Dunque la narrazione in quanto metodo “in grado di cogliere le umane realtà” viene normalmente utilizzata per dare corpo a fantasmi dell’immaginazione, che finiscono per rappresentare modelli o simboli, ma si dà anche il caso di narrazioni mirate a cogliere, a scavare, umane realtà realmente esistite. Basti pensare a due pezzi da novanta di quella che si potrebbe definire la letteratura d’indagine: Philip Gourevitch e William Langewiesche. Un gran bel libro, che appartiene senza dubbio al filone, è stato pubblicato di recente da Einaudi. S’intitola Mezzanotte a Pechino ed è stato scritto dal giornalista e storico inglese Paul French.

French ricostruisce la storia dell’omicidio irrisolto di Pamela Werner, avvenuto nel 1937 a Pechino. Liceale di buona famiglia, figlia adottiva di un ex-diplomatico inglese esperto di storia cinese, Pamela Werner viene ritrovata all’alba di un freddo giorno di gennaio, ai piedi della Torre delle Volpi, sfigurata e squartata. Con una tecnica da romanziere consumato, French mette in piedi innanzitutto uno scenario a tal punto esotico e avvolto nella nebbia del mistero che non può non catturare il lettore: tutto si svolge nel Quartiere delle Legazioni, una sorta di enclave dell’Occidente nella Pechino degli anni Trenta, all’epoca capitale decaduta di una barcollante Cina  che cammina timorosa tra guerre regionali, la minaccia giapponese e le prime mosse di Mao. E anche i personaggi, che si muovono tra alberghi di classe frequentati da stranieri, bordelli gestiti da transfughi della Russia Bianca, maestose sedi diplomatiche, dimore private ricche di mobili preziosi e personale di servizio, sembrano figure di un romanzo. Un ex diplomatico inglese dal carattere solitario sospettato di avere affossato sua moglie, un dentista americano con l’hobby della caccia e del nudismo, un disertore canadese finito in Cina a fare la guardia del corpo, un poliziotto che si è fatto le ossa a Scotland Yard. A tratti viene da pensare al Simenon più letterario (quello senza il commissario Maigret), in certi altri momenti a James Ellroy.

Tuttavia il “romanzo”, se così si può chiamare, è una ricostruzione filologica dichiaratamente fedele ai documenti che French ha trovato nelle sue ricerche d’archivio: libri di storia, giornali, carte ufficiali, lettere private, come testimoniano le fonti indicate in chiusura. Documenti arricchiti tra l’altro da un corposo allegato fotografico in cui i “personaggi” appaiono in carne e ossa con espressioni che, esattamente come succede guardando i servizi di Chi l’ha visto?, si è tentati di interpretare per tentare di ricavarne una verità.

Tutta la documentazione di questo caso inghiottito dalla tempo diventa con Mezzanotte a Pechino una storia

In sostanza tutta la documentazione di questo caso inghiottito dalla tempo diventa con Mezzanotte a Pechino una storia. Una narrazione ricca di dettagli che si fa fatica a non immaginare anche come piccole concessioni all’immaginazione dell’autore –per esempio questo passo: Dennis fu condotto in una piccola biblioteca arredata con poltrone. Ricordava un po’ un club londinese, ma dietro il paravento ardeva un fuocherello patetico che, dal punto di vista del calore offriva ben poco. Le pareti erano tappezzate di scaffali tranne sopra il caminetto, dove la carta da parati presentava una zona lievemente scolorita nel punto in cui un tempo era stato appeso il ritratto di Edoardo VIII. – ma proprio attraverso il metodo narrativo l’autore riesce a dare un ordine coerente agli indizi che la polizia dell’epoca non riuscì o non volle trasformare in ipotesi, dando infine ai risultati delle indagini private condotte per anni dal padre di Pamela, e mai prese seriamente in considerazione dall’autorità, il valore di una ricostruzione coerente.

Mentre leggevo pensavo ciò che regolarmente penso guardando Chi l’ha visto?: la verità non è quasi mai a nostra disposizione, e anche nei casi in cui sembra esserlo, ci sono sempre motivi per dubitarne. Raccontare una storia significa in fondo dare vita a un’ipotesi, mettere in piedi una possibilità che non può essere totalmente verificata.

Il ritratto in posa di Pamela comparve sui giornali di Tianjin e passò di mano in mano sollevando commenti quasi tutti pietosi e solidali: la poveretta era la vittima innocente di un orribile destino che avrebbe potuto colpire chiunque. Altri invece erano meno pietosi: a quanto risultava Pamela “non era di natura tranquilla” e prima di Tianjin si era messa nei pasticci in altre scuole.

Tutti i giorni i nostri pensieri si accavallano e si scontrano in dialettiche di questo genere. Ma la continua ricerca frustrata di una verità impossibile da trovare produce narrazioni in grado di “cogliere le umane realtà”. Così nella vita, così nella finzione.

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