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Cattelan non è mai stato così mistico

Dopo 10 anni di assenza è tornato a Milano, negli spazi di Pirelli HangarBicocca, con tre opere oscure e potenti, perfette per rappresentare il tempo che stiamo vivendo.

di Clara Mazzoleni

Maurizio Cattelan, Breath, 2021, courtesy l’artista, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano, foto Agostino Osio

«Ci saranno i piccioni e poco altro», mi ricordo di aver sentito dire un paio di mesi fa da qualcuno che aveva appena avuto una soffiata sull’attesissima mostra di Maurizio Cattelan negli spazi di Pirelli HangarBicocca (dal 15 luglio al 20 febbraio 2022). Sul momento sono rimasta delusa. Ma come, i piccioni, un lavoro già fatto, già visto (“Tourists”, esposto nel 1997 alla Biennale di Benezia). E poi che peccato, a livello di tempistica, non poter sfruttare l’intero, maestoso spazio delle navate, occupate dal padiglione dei vaccini (un’esperienza che consiglio: vaccinarsi tra le torri di Kiefer). E invece. Sarà anche che la mostra di Cattelan si raggiunge solo attraversando quella di Neïl Beloufa, un caleidoscopio di voci, luci e colori che stordisce e meraviglia. Dopo averla percorsa, ci si trova in uno stato di rincoglionimento molto simile a quello che si ottiene dopo aver scrollato TikTok per due ore, in piena notte: quando ti sembra di aver capito qualcosa sul tempo che stai vivendo, ma non sai bene cosa.

Dopo tutte quelle installazioni sgargianti, la semioscurità. Ho avuto la fortuna di vedere la mostra al buio, di notte (erano le 23), ma non credo che di giorno l’effetto cambi più di tanto (l’illuminazione è curata da Pasquale Mari, rinomato light designer e direttore della fotografia). Approdare nello spazio occupato da Cattelan dopo la mostra di Beloufa ricorda l’esperienza di entrare in una chiesa deserta per cercare riparo da una manifestazione cittadina. Improvvisamente, il silenzio, le statue, la preghiera. Impossibile, anche per l’individuo più ateo e nichilista del mondo, non veder germogliare dentro di sé un barlume di spiritualità. E Cattelan – sarà che sta invecchiando – non è forse mai stato così mistico e romantico.

La prima cosa che si nota, in effetti, sono i piccioni (l’opera si chiama “Ghosts”). Piccioni ovunque, più ovunque di quanto te l’aspetti. Migliaia di piccioni. Spiazzano, perché ci si aspetterebbe di vederli brulicare, come sempre, questi esseri così miseri e poveri e schifosi e banali. Invece sono immobili, eterni. Appollaiati sul carroponte, sulle tubature: osservano. Sembrano gli uccelli di Hitchcock (nella scena finale, dopo il gracchiare dei corvi e il garrito dei gabbiani, arriva il silenzio irreale dello stormo dei piccioni). Un presagio di malattia, una piaga d’Egitto perenne, un incubo, oppure il rassicurante ritorno della normalità. Fatto sta che la loro fissità inquieta, rendendoli ancora più minacciosi, almeno psicologicamente. E però sono belli, perché privati delle loro movenze di gallina, purificati nella stasi, pietrificati nella loro nuova natura scultorea (ma non sono sculture: sono veri piccioni tassidermizzati!), diventano una visione sublime, eppure triste e disgustosa, un misterioso paesaggio da contemplare, come un cielo pieno di stelle ormai morte, di cui però possiamo ancora vedere la luce.

Maurizio Cattelan, Ghosts, 2021, piccioni in tassidermia, courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano, foto Agostino Osio
Maurizio Cattelan, veduta della mostra, “Breath Ghosts Blind”, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2021, courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano, foto Agostino Osio

Questa visione apocalittica, collega due opere che si pongono come inizio e come fine (la mostra viene definita come una «drammaturgia in tre atti», e infatti prende il titolo di tutte e tre le opere, una dopo l’altra: Breath Ghosts Blind). La prima, “Breath”, è il racconto di un respiro comune. Un uomo e un cane (gli animali sono un leit motiv nel lavoro di Cattelan) dormono uno di fronte all’altro. Sono perfettamente bianchi (marmo bianco di Carrara, un materiale con cui lui lavora spesso, come nella potentissima All del 2008, esposta a Palazzo Grassi a Venezia, nove corpi morti coperti da lenzuola), e insieme disegnano un cerchio, offrendo il senso di una comunione compiuta. L’ultima opera è “Blind”, un altissimo monumento nero, un monolite in resina a base rettangolare, attraversato, in cima, dalla sagoma di un aereo.

Amore e morte. Comunione e violenza. «I tre lavori si configurano come momenti di una rappresentazione simbolica del ciclo della vita», dice il libretto che ti consegnano all’ingresso, «proponendo una profonda riflessione sugli aspetti più disorientanti del quotidiano». Il movimento è ascensionale, il numero tre evoca l’immaginario religioso della Trinità e della Crocefissione (il monolite, visto in pianta, richiama una croce). Ovviamente c’è l’11 settembre 2001 (tra poco sono 20 anni esatti), ma c’è anche la riflessione sul concetto di monumento che Cattelan ha sempre fatto, basti pensare a “L.O.V.E.” (il dito) o alle opere coi cavalli, che richiamano (e disintegrano, anarchicamente) il concetto del monumento equestre (come “Novecento“, del 1997, nella collezione permanente del Castello di Rivoli).

Maurizio Cattelan, Blind, 2021, courtesy l’artista, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano, foto Agostino Osio

Quando l’avevamo intervistato per la cover story del numero 31 di Rivista Studio, Cattelan era da poco “tornato” dopo aver annunciato il suo “ritiro”. Da allora a oggi, ha sfornato opere diventate virali, come il cesso d’oro e la banana con lo scotch. Esilaranti, colte e geniali prese per il culo che trasformano l’arte contemporanea in cultura pop. Ma questa mostra, che arriva dopo 10 anni d’assenza di Milano, è un’occasione, per chi lo conosce poco (nonostante sia il più importante artista italiano vivente, c’è ancora chi si ostina a non studiarlo) di scoprire il lato oscuro e lirico del suo lavoro, che c’è sempre stato, ed è ancora più significativo perché si affianca a trovate goliardiche che vogliono sfidare il sistema dell’arte. E dopo l’esperienza della pandemia, Breath Ghosts Blind risuona come una messa o una catarsi. Di là i vaccini, di qui i piccioni. Un’atmosfera di morte, ma anche di contemplazione e rinascita (contemplare la morte da vivi, non è forse una terribile forma di rinascita?).

Niente provocazioni questa volta, siamo lontani dagli “scherzi” che hanno caratterizzato il rapporto dell’artista con Milano: i bambini impiccati in Piazza 24 maggio, il dito medio in Piazza Affari, l’allegria di Toilet Paper. Solo tristezza: il cane e l’uomo dormono, respirano dice il titolo, ma sono immobili e il loro amore è congelato in un’idea, i piccioni sono dei cadaveri imbottiti, il monolite finale è un monumento funebre. Tutto è fermo e tu ci passi attraverso. Poi esci. Il percorso dell’uscita ti costringe ad affiancare i tavolini del bar dell’Hangar. Quando ho visitato la mostra era un bella nottata d’estate e fuori tutti chiacchieravano e bevevano, cercando di dimenticare. Ma Cattelan ha questa cosa, che forse è la dote degli artisti migliori che abbiamo: lui non ti permette di dimenticare, e mentre ordini il quarto gin tonic, continui a vederli, quei piccioni morti che ti osservano, e magari li sognerai anche, come quelle battute che qualcuno ti dice per scherzo e però ti feriscono nel profondo.