Attualità

Carlton Dance

Il cugino definitivo. Il falso antagonista. Una danza solitaria che diventa gif a 20 anni di distanza

di Violetta Bellocchio

Figlio unico di padre assente, un giovane uomo con strane idee sulla fratellanza viene catapultato in un’avventura più grande di lui. Si scontrerà con l’ordine costituito, ma ora della fine avrà convertito il mondo intero al suo stile di vita. Woo-hooooo.

Vi ho appena riassunto sei stagioni di Willy, il principe di Bel Air.

La premessa vede un liceale di Philadelphia – Will, per noi Willy, ed ecco la prima grana – trasferirsi in California dagli zii ricchi, i signori Banks, ricordando l’importanza della spontaneità a loro che abitano in quel villone e hanno il maggiordomo. Sono gli anni ’90, per cui la sua arma segreta è il fresh urban gangsta flava, e a forza di woo-hoooo e cinque alti lui si farà voler bene. Cominciando dai cugini. E tra loro c’è il cugino definitivo. Carlton. Carlton Banks è la prova che puoi essere uno sfigato anche se sei ricco; che i soldi forse danno la tranquillità, ma non ti aprono tutte le porte. E’ concepito come blanda controparte del furbo Will, con cui non può competere, e di cui diventa, poi, un amico fedelissimo. Il suo è il classico arco del falso antagonista che si rivela un innocuo giuggiolone. Lo troviamo molto spesso, specie quando all’inizio di una storia la nostra cara protagonista è fidanzata con un pirla. (Ci potremmo cogliere un messaggio subliminale: se preso in tempo, il pirla può diventare un buon amico, un vicino di casa premuroso.) Come personaggio comico, invece, Carlton funziona perché è molto ingenuo, ma si crede un provetto uomo di mondo. Ce le ha tutte: è iscritto al club dei Giovani Repubblicani, idolatra Donald Trump, si veste come un manichino, e soprattutto, non sa ballare.

Anzi, sì. C’è un ballo che lui sa fare bene. La Carlton Dance.

Questa danza solitaria, prima tenuta in gran segreto, poi via via portata in pubblico, è la chiave del personaggio. Guardatela bene: c’è l’espressione di gioia maniacale nei suoi occhi, c’è il piacere di essere vivo celebrato nel modo più uncool possibile da uno che non se ne rende conto, c’è la canzone di Tom Jones, It’s Not Unusual, scandita dalle braccia a mulinello e dalla candela usata come microfono. Nemmeno un ballerino di fila a Las Vegas avrebbe osato tanto. Nemmeno se fosse stato bianco.

Negli anni ’90 la cosa funzionava perché la vecchia hit di un cantante confidenziale scozzese diventava il manifesto musicale di un ragazzo nero. In più, nello stesso periodo, Tom Jones veniva riscoperto come “icona kitsch”, e appariva nella serie come angelo custode di Carlton. (Saremmo finiti col suo disco di cover – Reload – dove c’è lui che rifà i Talking Heads. Non fingete di aver dimenticato.) E poi era divertente. L’attore che interpretava Carlton, Alfonso Ribeiro, aveva ballato da professionista a Broadway, e si cercavano sempre nuove scuse per farlo sgranchire un po’. (E’ successo il contrario a Heather Morris in Glee, se non sbaglio; ingaggiata come ballerina, poi promossa ad attrice piena.) Ad esempio: venne creata una sorta di “clausola Michael Jackson“, per cui Carlton perde magicamente ogni freno inibitore ogni volta che parte un pezzo del Re del Pop. Oppure: per pagare un debito di gioco, Carlton e Will partecipano a un talent show imbastendo una tragica coreografia a due sulle note di Apache (la scena piacque così tanto che oggi quei passi sono il balletto ufficiale di Apache). Ed ecco Carlton anima della festa a Soul Train. Per essere un imbranato, le occasioni di riscatto non gli venivano fatte mancare.

Carlton Banks, vent’anni dopo, sta benissimo. Sopravvive in forma di GIF animata, una tra le più popolari. In materia “danza gioiosa” non ha quasi rivali. Questa primavera Ribeiro ha guidato numerosi flash mob che cominciavano con la Carlton Dance, e sfumavano in Apache.  Nessuno la usa per dire “che sfigato”, nessuno ride di lui; ridiamo e balliamo con lui. I tempi sono cambiati.

“Il principe di Bel Air” era un prodotto per famiglie, pulito e rassicurante, con una lezione da imparare a fine episodio. Più che il relativo successo americano, fu l’estrema semplicità che gli permise di arrivare sulla TV italiana. C’è poco da capire. Ragazzo povero / famiglia ricca / risate fuori campo. Strano che non ne sia stata fatta subito una versione ambientata a Roma, se mai. E non c’era bisogno di conoscere i dettagli – Will Smith accettò la parte perché era nei guai col Fisco; la storia si basava sulle esperienze di vita del producer Benny Medina, adottato in maniera informale da Berry Gordy quando andava al liceo – per seguire le tracce medie delle puntate.

Oggi Willy fa ancora capolino nei palinsesti, durante le stagioni morte o sul digitale terrestre, mentre altre serie anni ’90 sono sparite nel nulla. Solo parte della sua fortuna si deve alla celebrità di Smith, che all’inizio delle riprese faceva questo (e vogliamo parlare di questo), mentre poi sarebbe passato ad altro. E’ il tipico prodotto che non ha così tanto da dire sul periodo o sul paese d’origine, ma si ricorda con affetto grazie alla quantità e alla pervasività dei cicli di repliche. In quel senso diventa una cosa nostra. (Se credete non sia vero, sappiate che un mese fa ho visto uno sposo trentenne arrivare in chiesa a bordo di una copia del Generale Lee. Poi accusano me di esterofilia. Gentaglia.)

Però.

Quasi unici nel mondo civilizzato, gli italiani non conoscono a memoria la sigla del Principe di Bel Air, perché quella sigla, da noi, era doppiata. Se pressati, gli italiani canticchiano «…e la mamma preoccupata disse vattene a Bel-Air». E tutti ridono indicandoci col dito. Ancora una volta, noi siamo Carlton Banks.

La generazione precedente aveva capito cos’era il doppiaggio davanti a Napo Orso Capo che parlava con l’accento napoletano, ma non aveva ancora gli strumenti per dire basta. Di fronte alla sigla di Willy – e alla bruciante disillusione immediata – stuoli di ragazzini giurarono di imparare le lingue, di inventare Internet, il peer to peer, Napster, Soulseek, Kickass Torrents, TUTTO pur di scaricare film in versione originale senza uno stronzo che ci parlasse sopra. Un minuto di doppiaggio ci ha trasformato in un branco di pirati senza scrupoli. E dire che dieci anni prima quasi ogni theme song veniva lasciata intatta, anche quelle che, come nel caso di Willy, in un minuto spiegavano la premessa della serie (I Jefferson fanno i soldi e traslocano = «we’re movin’ on up to the East Side, in a deee-luxe apartment in the sky») o il suo messaggio di base (Il mio amico Arnold viene affidato a una famiglia bianca = «it takes diff’rent strokes to move the world»). La Carlton Dance almeno passava senza bisogno di sottotitoli.

Diversi altri riferimenti ci potevano volare sopra la testa, comunque. C’è un intero episodio – e nella prima stagione – dedicato al racial profiling, dove Will e Carlton vengono arrestati con l’accusa di aver rubato un’auto sportiva. Passano la notte in galera, ne escono solo perché lo zio Phil, che è avvocato, minaccia di denunciare il dipartimento di polizia. La puntata termina con i ragazzi a casa, e Carlton ancora sicuro nella sua incrollabile fiducia verso “il sistema”: «lo vedi? E’ stato solo un errore, è tutto a posto…». E Willy gli risponde: «spero che questo sistema ti piaccia, perché lo vedrai molto spesso». Chiudiamo su Carlton che sembra realizzare, in ritardo, una prima verità: lui è nero.

Intorno a questo punto gireranno molti episodi. Carlton verrà preso in giro da Will/Willy per la sua riluttanza a comportarsi da “uomo vero”. Gli verrà dato del bianco, perché del mondo reale, lui, non sa niente. E’ nato in un contesto privilegiato, come la sorella Hilary, ma rispetto a lei si trova in una posizione ancora più precaria, perché è un maschio. Nessuno trova così strano che una ragazza ricca rispetti il fenotipo della scema californiana piena di vestiti, al di là del colore della pelle. Ogni volta che Carlton apre bocca, invece, ne esce una litania di white people problems. E Willy è lì pronto a farglielo notare. «Ehi, tu sei tutto fuorché un fratello».

Avete appena assistito alla nascita del primo nero bianco nella cultura di massa.

Nello stesso periodo cominciava a diffondersi lo stereotipo del wigger, il bianco che si atteggia a nero, sia come macchietta comica (Pretty fly for a white guy) sia come mini-tragedia ambulante o simbolo del distacco tra genitori e figli. Una cosa falsa, ad ogni modo. Carlton era una creazione più sfumata. Non ci veniva proposto perché era “autentico” e sgamato, o perché era forte e di successo, molto bravo in qualcosa; soprattutto, non stava lì per offrire sagge lezioni a personaggi e spettatori. Carlton era l’antitesi del magical negro, parte in cui Will Smith sarebbe caduto almeno una volta. Lui si impone – ieri come oggi – perché è uno svanito. Uno che insegue la “bella vita”, ma poi non sa realizzare i suoi sogni, né tanto meno gestirli se si avverano. Drake prima che Drake avesse un nome.