Cultura | Mostre

Vedere Calvino (oltre che leggerlo)

In occasione del centenario della nascita, alle Scuderie del Quirinale ha inaugurato la mostra Favoloso Calvino, racconto del rapporto dello scrittore con l'immagine e l'arte della descrizione.

di Simone di Biasio

Nel 1966 il Premio Strega va a Una spirale di nebbia di Michele Prisco, un autore e un’opera forse troppo facilmente scivolati nell’oblio. È il 13 luglio e, nel corso della cerimonia di premiazione nel giardino di villa Giulia, il poeta Luciano Luisi intervista Italo Calvino, in concorso con le sue Cosmicomiche: un lavoro che, secondo l’intervistatore si presenta complesso, lontano dall’idea di libro da portare in vacanza per “l’uomo medio”. Lo scrittore italocubano non sembra perfettamente a suo agio davanti alla telecamera: oggi diremmo che “non buca lo schermo”. Sembra sorpreso, a tratti stralunato. Ho sempre avuto una gran voglia di vedere Calvino sullo schermo, eppure, se si esclude Il cavaliere inesistente del 1970 per la regia di Pino Zac, tanto bello quanto sperimentale, film non ce ne sono. Il narratore non si è nemmeno mai cimentato – e mai dev’essergli stato chiesto – nell’ideazione di un albo illustrato: non parlo di un libro illustrato (quasi tutti i suoi romanzi e racconti lo sono stati), ma di quel particolare genere di libro per ragazzi che è, nel mondo anglosassone, il picturebook, nonostante frequentasse felicemente la letteratura giovanile e fiabesca.

In quella intervista durante il Premio Strega Luisi chiede infine allo scrittore come si devono leggere gli astrusi nomi di personaggi come il protagonista Qfwfq, e Calvino risponde anticipando un’idea che ha sviluppato in molti suoi scritti: «[Quei nomi] be’, si devono vedere». Alle Scuderie del Quirinale nei giorni scorsi si è aperto l’omaggio di Roma al centenario dello scrittore di Palomar, la mostra Favoloso Calvino. Il mondo come opera d’arte, in cui le opere e la scrittura dialogano con le arti visuali, per la cura di Mario Barenghi. Recentemente Mondadori ha pubblicato una raccolta di scritti calviniani sull’argomento, Guardare, a cura di Marco Belpoliti, in cui lo scrittore si interessa di cinema, ma anche di carte geografiche, di arte, in sostanza si occupa della rappresentazione del mondo. Chinandomi a leggere una delle didascalie sotto una delle copertine de La giornata di uno scrutatore, scopro che è stato tradotto in inglese con The Watcher. Curioso: magari frettolosamente è stato scambiato il significato di scrutatore, il ruolo durante delle votazioni, con quello di uno che scruta, e dunque guarda, osserva. La traduzione, se riferita a Calvino, non è affatto sbagliata (c’è un articolo, in Guardare, che s’intitola “Scrutatore di film”): Calvino è uno scrutatore, un osservatore, un guardatore. In una lettera all’editore francese François Wahl del 1960 si augura: «L’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo».

Aggirandomi nelle sale delle scuderie, la maggiore attenzione l’ho scoperta rivolta non tanto alle immagini, ai dipinti, alla imponente corazza esposta, ma piuttosto alle numerose citazioni in mostra, all’ostensione della scrittura, alla parola manifesta. Ero come ipnotizzato dalla visione di quei segni alfabetici, rapito dalla nitidezza delle immagini che Calvino era capace di suscitare persino rispetto a quello che invece le opere d’arte avrebbero potuto suggerirmi in termini di verbalizzazione, o di percezione. Italo Calvino ha lavorato per tutta la vita in un periodo cruciale della storia italiana, europea, globale. Un periodo di rivoluzioni che hanno investito pure la letteratura – l’arte, più in generale – e di questo Calvino si era accorto. Si era accorto che l’attenzione per le nuove generazioni si tramutava in rinnovati metodi pedagogici, e in un’educazione che doveva dividersi non più soltanto tra scuola e famiglia, ma anche tra i nuovi media a disposizione di una fetta sempre più ampia di pubblico e fondati sul vedere, su una sorta di regime scopico. Di fronte allo strapotere delle immagini veniva delineandosi quello che W. J. T. Mitchell avrebbe definito pictorial turn, e che Calvino aveva già intercettato nelle Lezioni americane, in particolare nelle pagine dedicate alla Visibilità. Disney, ad esempio, aveva compiuto parte di quella rivoluzione – culturale in primis – nel campo dei cartoon, portando sullo schermo schemi, personaggi e ambientazioni che nei fumetti cominciavano già a muoversi dalla fine dell’Ottocento.

La mostra omaggio Favoloso Calvino compie come una svolta linguistica: nell’esporre opere da guardare accanto a opere da leggere, la parola recupera lo spazio – spazio anche visivo – ultimamente eroso dai media visuali (da qualche anno i fumetti sono il genere trainante dell’editoria italiana). Quello che riesce a di-mostrare la mostra è un ribaltamento sempre possibile delle forze in gioco tra rappresentazione del mondo attraverso il linguaggio verbale e attraverso quello iconico: non a caso un’altra raccolta di saggi calviniana s’intitola Mondo scritto e mondo non scritto. Ancora nell’articolo “Scrutatore di film” Calvino è intervistato in qualità di giurato della Mostra del Cinema di Venezia nel 1981. La critica cinematografica Lietta Tornabuoni gli rivolge una domanda diretta: «La sua opera narrativa è stata poco sfruttata dal cinema, per il cinema lei ha lavorato poco. Perché?», e Calvino così ribatte: «Gli scrittori della mia generazione sono andati subito in blocco verso il cinema: li ho visti fare a gomitate, e allora mi sono tirato fuori. Dalla mia novella L’avventura di un soldato Manfredi ha girato uno sketch perfetto, però a me piacerebbe venir plagiato dal cinema: rende meno, ma è più lusinghiero».

Calvino può essere soltanto derubato, non accresciuto: la sua scrittura lavora da sé in addizione. Le fiabe calviniane sono racconti fiabeschi, de-scrivono anche i meccanismi del fiabesco. La sua pagina non concede vuoti che possano essere colmati da testi altri. Qualsiasi trasposizione si conformerebbe come plagio. Dev’essere per questo che invece Calvino prediligeva artisti delle forme, delle linee, degli schemi, come si può notare dalla mostra in Paul Kee, Giulio Paolini, Luigi Ghirri, Renzo Vespignani, Marina Apollonio, e naturalmente l’altrettanto “favoloso” Emanuele Luzzati. Sono tutti artisti in dialogo proficuo con Calvino perché non rileggono la sua opera, ma la scardinano, la scompongono in forme minime e inedite.

«[…] Negli ultimi anni – confessa lo scrittore ne Le lezioni americane – ho alternato i miei esercizi sulla struttura del racconto con esercizi di descrizione, arte oggi molto trascurata. Come uno scolaro che abbia avuto per compito “Descrivi una giraffa” o “Descrivi il cielo stellato”, io mi sono applicato a riempire un quaderno di questi esercizi e ne ho fatto la materia di un libro. […] Cerco di fare in modo che la descrizione diventi racconto, pur restando descrizione». L’autore di Palomar è stato il primo e forse anche l’ultimo de-scrittore del Novecento. La sua scrittura è a tal punto densa da sparire per consegnare simultaneamente un’immagine: si vede e si legge nello stesso tempo. Calvino non evoca, descrive. Probabilmente è stato possibile anche perché il mondo delle cose, delle cose de-scrivibili, andava sempre più scomparendo in forza di una loro miniaturizzazione e digitalizzazione. Questo fatto ha messo inevitabilmente in crisi la stessa letteratura: di quale cosa, di quali cose parliamo adesso? «Di tutte le cose che col passare degli anni si irrigidiscono, e bisogna tenere in esercizio, Epstein aveva curato la precisione. Non la pignoleria, che è un restringimento del campo visivo, né la perfezione che ne è l’allargamento illimitato, ma la precisione, come si allena un muscolo». Epstein, scrittore, è uno dei protagonisti di Atlante occidentale, una delle opere più alte di Daniele Del Giudice, non solo tra gli ultimi narratori scoperti da Calvino, ma considerato alla stregua di suo erede letterario.

Atlante occidentale, pubblicato nello stesso anno della morte del romanziere italocubano, è un libro in cui Del Giudice sembra far convergere le leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità calviniane per sublimarle nella forma romanzo. In un altro passo il riferimento alla dissoluzione delle cose è spiegato con quella stessa precisione, quella calviniana precisione: «Le cose stanno cambiando, sono cambiate. Non nel senso generico che si dà a questa frase. Le cose stanno scomparendo. Quelle che arrivano, o arriveranno, ho paura che non potrò più sentirle. Ho paura che potrò solo usarle. […] Però deve esserci un legame segreto tra la scomparsa delle cose e la visibilità, perché oggi io le mie storie le vedo, io comincio sempre più a vedere le mie storie. È difficile che lei possa capire, o che io riesca a spiegarmi; prima le vedevo raccontando, le vedevo nel momento in cui le scrivevo, adesso le vedo guardando, vedo una storia compiutamente dall’inizio alla fine semplicemente guardando».

Di fronte alla diminuzione delle cose, non potendo più de-scrivere cose che spariscono, Daniele Del Giudice sceglie di de-scrivere cose che non si possono toccare: lo sguardo e il volo, su tutte. È come se Del Giudice arrivasse a descrivere la descrizione, proprio come Calvino aveva guardato e de-scritto il suo guardare. E tutto sembra racchiuso in questo testo, estratto da uno scritto per Giulio Paolini: «I quadri di solito s’appendono all’altezza degli occhi di chi li deve guardare. Non bisogna dimenticare che il vero luogo della pittura è quella fascia orizzontale che delimita il campo visuale d’una persona in piedi: mettere in evidenza questa fascia potrebbe diventare l’opera pittorica assoluta. Ma quest’uomo in piedi a ben vedere non è altri che il signore col soprabito indosso che incontriamo nelle gallerie d’arte, con lo sguardo rivolto». C’è la fotografia, c’è il dipinto, ci sono l’installazione, la scultura, la fotografia, il disegno. C’è il cinema: per un film forse occorre cercare tra questi racconti che Calvino ha disperso altrove, come sotto la cattedrale di una città invisibile.