Attualità

Perché ascoltare Call Your Girlfriend

Il primo di una serie di articoli in cui approfondiremo i 5 ritratti che accompagnano la storia di copertina: le nuove voci dell'identità femminile.

di Silvia Schirinzi

Questo è il primo di una serie di articoli in cui approfondiremo i 5 ritratti di autrici che accompagnano la storia di copertina del numero 34 di Studio “Sally Rooney e le ragazze di oggi”, in cui abbiamo provato a capire come sta cambiando il modo di raccontare le relazioni e l’identità femminile. Di questo tema parleremo con alcune autrici italiane anche a Studio alla Holden, un pomeriggio di incontri e conversazioni che si terrà sabato 7 aprile a Torino, nella sede della Scuola Holden.

 

Perfettamente ascrivibile al filone della confessione femminile che oggi caratterizza la più interessante produzione letteraria e artistica, Call Your Girlfriend è il podcast che ha trasformato le lunghe conversazioni telefoniche fra due amiche lontane in un collettore di esperienze e racconti quasi generazionali. Lanciato nel 2014 su consiglio di Gina Delvac, producer, da Ann Friedman, giornalista freelance già firma del New York, del Los Angeles Times e di The Gentlewoman, e Aminatou Sow, autrice esperta in comunicazione digitale, CYG è tutto quello che oggi definiremmo un medium intelligente dedicato alle donne. In un’ora abbondante di registrazione settimanale, le due host si confrontano su temi di attualità ma anche su macro-argomenti come l’amicizia, il lavoro, il vivere senza assicurazione sanitaria o il dover traslocare periodicamente da una città all’altra. Proprio il tema della distanza, e soprattutto il suo superamento digitale, è il vero centro narrativo della serie, visto che Friedman vive a Los Angeles mentre Sow è di base a Brooklyn. CYG è la loro telefonata periodica di aggiornamento, il vezzo di due amiche che cercano di tenere vivo un legame anche a migliaia di km di distanza e con un fuso orario di mezzo.

Ed è evidentemente un espediente più letterario che realistico, considerando che per formazione e professione, le due fanno parte di quella generazione di donne che, invece di telefonarsi, sono abituate a usare Instagram, Twitter e una miriade infinita di app, da quelle di messaggistica istantanea a quelle che monitorano il ciclo mestruale o ti ricordano di allenarti, passando per il ristorante bio/programma nutrizionale che ti spedisce i pasti a casa e/o nel tuo ufficio in co-working. Prima di bollarlo come un progetto pensato da e per un ristretto gruppo di privilegiate, però, è interessante guardare (o meglio, ascoltare) al modo in cui la confessione femminile di cui sopra si dispiega in formato di podcast. La telefonata tra due amiche distanti, introdotta dal jingle cantato da Robyn che dà il nome al programma, è l’occasione di sviscerare tutta una serie di argomenti che siamo stati abituati a leggere nelle pagine dei femminili o, più genericamente, delle riviste dedicate alle donne.

Il modo in cui Friedman e Sow parlano di cose come la loro beauty routine o l’evoluzione della discussione pubblica attorno al #MeToo, però, è interessante perché è più franco e attuale di quello utilizzato dai media tradizionali. Sfrutta al meglio l’intimità – che sia realmente praticata o solo suggerita – dei social network con l’intenzione di creare quella famigerata rete che permette a perfetti sconosciuti di incontrarsi in base ai loro interessi comuni. Friedman l’ha definita “shine theory” e sarebbe poi una versione Millennial della mutua solidarietà fra donne: «tra di noi – di default – c’è cooperazione e non competizione» si legge nell’about del loro sito. Non c’è sofisticazione patinata – il mezzo non lo consente – ma c’è invece un preciso intento di offrire un punto di vista complesso, che per articolarsi ha bisogno del suo spazio ben definito, una nozione che va al di là di quella del “safe space” che rimproveriamo come mera utopia/ossessione degli americani. Possiede quell’immediatezza e informalità che, d’altro canto, fà del podcast il luogo perfetto per il racconto approfondito.

Così non sorprende il riscontro ottenuto dalla campagna “Bleedin’ for Amina” per raccogliere donazioni di sangue in tutto il paese: le ascoltatrici si sono presentate numerosissime per offrire il loro sostegno a Sow, alla quale lo scorso dicembre è stato diagnosticato un tumore endometriale ed è in queste cose che CYG dimostra di aver raccolto la migliore eredità delle comunità al femminile. Il racconto onesto che, di puntata in puntata, l’autrice fa della sua condizione è materiale utilissimo per studiare come si modula oggi la narrazione pubblica delle moltissime sfaccettature dell’essere donna e, soprattutto, sembra conservare intatto il suo potere aggregativo. È una discussione sempre aperta, programmaticamente intersezionale: tra gli episodi che mi hanno colpito di più, c’è quello in cui le autrici dibattono lo stesso nome del loro podcast, giudicato fraintendibile, e quello in cui Sow racconta di come sta affrontando la menopausa indotta, a ventinove anni. Ancora una volta, non si tratta di eccesso di politically correct, quanto piuttosto di un principio d’azione, anche perché «la rivoluzione sarà piena di snack e indosserà i pantaloni della tuta oppure un caftano», come ripetono spesso entrambe. CYG vuole dare spazio a voci che sono in linea con la sua visione del mondo, funzionare da cassa di risonanza e, allo stesso tempo, essere autosufficiente. Ecco perché Friedman e Sow collaborano solo con marchi che sentono affini alle loro cause e personalizzano tutte le loro pubblicità: chi non si fiderebbe del consiglio di un’amica?

Illustrazione di Lulu*