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Come Club To Club è diventato grande

Conversazione con Sergio Ricciardone, fondatore del festival, che il primo novembre arriva alla diciottesima edizione.

Lingotto, 2017 (foto di Andrea Macchia)

L’edizione che festeggia il diciottesimo compleanno di Club To Club, la creatura fondata da Sergio Ricciardone, Roberto Spallacci e Giorgio Valletta in quella che sembra ormai un’altra era – il lontano 2002 – si chiama La luce al buio (ispirazione: l’edit di “L’ombra della luce” di Franco Battiato suonato da Nicolas Jaar durante la scorsa edizione) e illuminerà le notti di Torino dal 1 al 4 novembre.

Ospiti di quest’anno 50 artisti da 4 continenti (tra cui Aphex Twin, Beach House, Jamie xx, Blood Orange, David August, Vessel e molti altri: qui il programma completo) tra cui 7 nomi italiani: Primitive Art, Elena Colombi, Silvia Kastel, Bienoise, Mana, Gang of Ducks e Palm Wine.

Nell’attesa dell’inizio del festival, che anche quest’anno occuperà gli spazi rinnovati delle Officine Grandi Riparazioni, la Reggia di Venaria e i padiglioni post-industriali del Lingotto, abbiamo parlato con Sergio Ricciardone, che ci ha raccontato come nasce, cresce e raggiunge la maturità un festival di successo come C2C.

 

ⓢ Partiamo dall’inizio: C2C e Torino.

La genesi di Club to Club è fortemente legata alla club culture torinese della fine degli anni Novanta, agli eventi che facevamo in quegli anni, ai Docks Dora e non solo. Ci interessava la club culture non solo dal punto di vista sonoro, ma anche per via degli spazi: luoghi che non erano discoteche ma club in cui si entrava con la tessera, dove portavamo artisti che non avevano mai portato in Italia, magari con i primi esperimenti di show audio-video. Senza una club culture solida C2C non avrebbe avuto modo di nascere. E in quegli anni Torino era molto libera, c’era la possibilità di sperimentare: sono gli anni in cui nascono i Subsonica, per intenderci, gli anni dei Murazzi…

ⓢ Possibile che la scena notturna torinese fosse più interessante di quella di Milano?

Sicuramente era in fermento: erano anni in cui sembrava che la Fiat stesse per fallire e l’amministrazione pubblica era molto attenta a cercare di rilanciare la città… c’erano quindi spinte dal basso ma anche dall’alto, molta tolleranza. Detto questo, la madre del percorso che poi ha dato luce a C2C è un posto che non stava a Torino, e cioé il Link di Bologna, il vecchio Link, dove c’era musica dal vivo, teatro sperimentale, arte contemporanea, cinema, letteratura, tutto insieme. In quegli anni Torino era la città perfetta per continuare a ragionare su un modo diverso di vivere la notte.

L’altro tema è che quando inizi a fare questa cosa per passione non ti confronti tanto con i budget, quelli dopo un po’ di tempo. All’inizio ti confronti con il territorio e la possibilità di portare avanti un discorso: Torino è una città che, costando meno di molte altre, permette di far nascere in modo più semplice idee innovative, senza doversi confrontare immediatamente col mercato.

La Galleria Grande della Reggia di Venaria Reale

ⓢ Quando eravate molto giovani sapevate già di voler creare un festival come C2C o seguivate la vostra passione senza pensare al futuro?

L’associazione culturale è nata come un mezzo per poter organizzare un discorso più strutturato: avevamo semplicemente bisogno di trovare un modo per portare avanti i nostri progetti. Che poi, alla fine, è quello che facciamo ancora oggi: cerchiamo di aprire territori… per questo siamo contenti del finanziamento del Ministero: è prima di tutto un attestato di stima rispetto a un festival che non si occupa di musica “colta”.

ⓢ Quando possiamo dire che C2C è “diventato grande”?

Ci sono tre fasi: la prima legata all’estetica e alla logica del club, che dura fino al primo anno post Olimpiadi di Torino. Dal 2007  abbiamo iniziato a rivoluzionare il format, cercando di entrare in contesti più caratterizzati, dal Teatro Carignano agli spazi post-industriali. Nel 2010 ci siamo immaginati in modo abbastanza folle un festival in contemporanea a Torino e Istanbul, e abbiamo intercettato una serie di artisti che rappresentavano la nuova scena musicale elettronica e che poi sono esplosi: lì siamo riusciti a fare un salto di reputazione.

Un’altra fonte di ispirazione è stato il festival Dissonanze di Roma, che finché è durato ha fatto cose incredibili. Usava spazi bellissimi: il Palazzo dei Congressi (prima di tutti gli altri), il Chiostro del Bramante, l’Ara Pacis. Spazi non deputati alla musica d’avanguardia o elettronica. Seguendo l’esempio, e iniziando a considerare i budget in maniera più seria, abbiamo organizzato l’edizione della svolta, quella del 2014, l’anno in cui è arrivato il concerto di Franco Battiato.

Lingotto 2017

ⓢ E oggi come fate a scegliere gli artisti?

È difficile, c’è una generazione di artisti fenomenale, stiamo uscendo dalla Retromania (teorizzata da Simon Reynolds) che era un po’ il tema di questi anni. Ci sono musicisti che stanno mettendo in discussione la figura dell’artista, SOPHIE, ad esempio (che abbiamo visto a Milano il 18 ottobre, con Avalon Emerson) ha fatto una cosa difficile da catalogare, e produce musica per artisti mainstream. Ci piace il termine “avant-pop”: l’avanguardia che modella il pop, il pop internazionale di domani.

Ma sono anche gli artisti a sceglierci, in un certo senso: Aphex Twin, che ha deciso di fare 3 date in tutto il mondo tra cui la nostra, lo fa perché pensa qualcosa tipo «faccio questo festival perché è più facile che io sia messo nella condizione di fare lo show che voglio fare e parlare a una community sia artistica che di pubblico che è quella a cui voglio rivolgermi».

ⓢ E gli italiani?

All’inizio degli anni ’10 c’era un certo squilibrio tra artisti italiani e internazionali: siamo stati per tanto tempo un paese esterofilo. Poi è nato The italian New Wave, che è diventato un progetto indipendente. Il nome deriva da una frase di James Olden, che si innamorò degli artisti che suonavano con lui in quell’edizione – da lì abbiamo iniziato a catalogare, in maniera molto naturale,  musicisti che abbiamo piacere di promuovere anche al di fuori del cartellone del festival, in eventi che organizziamo in giro per l’Italia: è fondamentale avere una scena italiana solida, allo stesso tempo il successo degli artisti italiani su cui puntiamo dà credibilità a quel che facciamo: è uno scambio. La sfida del futuro è bilanciare la presenza artisti maschi con artiste femmine, si parla molto di gender equality ed è importante provare a risolvere questa disparità.

ⓢ Una delle serate che più ti ha ispirato prima che cominciasse tutto?

Quando ero ragazzo ho avuto la fortuna di abitare un po’ a Londra e vivere la club culture londinese quando lì succedevano cose rivoluzionarie, prima ancora che a Berlino. C’era una serata che si chiamava Heavenly Social, i resident dj erano i Chemical Brothers che ancora non si chiamavano così ma Dust Brothers: durante quella nottata ho scoperto un suono, un pubblico e una libertà che non avevo mai visto e sentito. Dopotutto, il discorso della club culture continua ad avere a che fare con la libertà – di espressione, di pensiero – e con la notte, che è la prima frontiera: è lì che si trovano tutti gli elementi rivoluzionari.