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La grande truffa del pop

Privata della mistica hollywoodiana e di quella femminista del MeToo, la storia che Britney Spears racconta nel suo memoir è quella di un inganno ai danni di una persona con gravi problemi di salute mentale.

di Laura Fontana

Questo non è l’ennesimo articolo che parla dell’enorme influenza di Britney Spears sulla cultura pop occidentale, mettendoci dentro aneddoti personali e gossip: di come una mia compagna di classe si fece lo stesso tatuaggio tribale sul suo fondoschiena, dei ragazzi ipnotizzati dalla tutina trasparente tempestata di brillantini in “Toxic”, dei VMAs del 2000, della storia d’amore con Justin Timberlake, delle “rivelazioni shock” di Tmz, delle foto di nudo sul suo improbabile profilo Instagram. Spogliata di tutti gli orpelli, privata della mistica hollywoodiana e di quella femminista del MeToo, ricondotta alla cruda realtà, la storia di Britney Spears è la storia di una truffa ai danni di una persona con gravi problemi di salute mentale. Visto l’alto profilo della truffata in questione, possiamo definirla anche cospirazione economica ai danni della principessa del pop, che all’apice della sua carriera è stata capace di generare un giro d’affari miliardario. A questa cospirazione hanno partecipato: manager e dirigenti dell’industria dello spettacolo americana, assistenti personali, tribunali, medici, avvocati, una sfilata di fidanzati ed ex-mariti e infine la stessa famiglia Spears. Le storie di truffe possono essere cervellotiche e complicate da spiegare; in questo caso poi le informazioni sono state sempre confuse e frammentate, e il processo è ancora in corso. Per spiegarla bisogna fare affidamento sulle poche inchieste giornalistiche, e paradossalmente ricorrere anche a una teoria del complotto online, la cui intuizione a posteriori si è rivelata giusta. Di questa cospirazione economica, noi pubblico a casa non ne abbiamo avuto reale contezza se non dopo più di un decennio dalla sua messa in atto, il che conferma l’adagio che il posto migliore per nascondere le cose è metterle in piena vista; ma ancora oggi ci chiediamo: la truffa è finita? Britney Spears come sta? Chi è che ci guadagna oggi sul Britney Brand Inc.? La risposta a tutte queste domande è: boh.

Da poco è uscito il memoir di Britney Spears, The Woman in Me, pubblicato in Italia da Longanesi, che tutti aspettavamo per fare chiarezza sulla storia, ma purtroppo non aggiunge molto altro rispetto a quanto già si sapeva. Anzi, il libro sembra una raccolta di vecchie dichiarazioni e interviste (alcuni fan sono convinti che il ghostwriter Sam Lansky si sia basato su dei diari rubati che Britney avrebbe scritto negli anni ’00) e si fa ancora più frettoloso sugli ultimi sei anni, riprendendo le dichiarazioni che Britney Spears aveva rilasciato al tribunale e sul suo profilo Instagram. Il titolo del libro è preso dalla canzone “I’m not a girl, not yet a woman”, dal verso che recita: “I’m just tryin’ to find the woman in me”. E infatti, anche per tutto il memoir, mentre racconta la sua storia Britney Spears sembra chiedersi: ma chi è la donna in me? Domanda non scontata visto che chiunque ha cercato di definirla, archetipizzarla, sbagliando sempre. Quando esplode nel 1999 e arriva immediatamente in cima alle classifiche, tutti la identificano nella ragazza più popolare del college, epitome della cheerleader: bella, sexy, di successo, ammirata da tutti. Nella realtà, e prima di “Baby one more time”, Britney non è mai stata popolare a scuola e non è mai stata una cheerleader. Le piaceva giocare a basket, fumare di nascosto le sigarette nel bagno della scuola, così come le piaceva giocare con le bambole, di quelle inquietanti che andavano di moda negli anni ’90, e che si vedono dietro di lei in uno scatto di David LaChapelle; scatto che fa parte del famoso servizio fotografico per Rolling Stones, in cui viene ritratta come la nuova Lolita d’America. Racconta di come ci fosse inconsapevolezza e ingenuità da parte sua su tutto quello che le stava succedendo: per tutto il libro rimarca con rabbia di essere stata troppo candida “in un mondo di squali”, di essersi fidata troppo, preoccupata soprattutto di compiacere gli altri. La sensualità inconsapevole probabilmente è stata la sua rovina: il pubblico continua a pensarla come una bad girl che finge di fare la brava ragazza, mentre la rivale Christina Aguilera ce la mette tutta a fare la bad girl ma rimane sostanzialmente una brava ragazza.

A Britney Spears è sempre piaciuto cantare e ballare. Ha iniziato a farlo fin da piccola, lo faceva col massimo dell’intensità e soprattutto come forma di escapismo, stile “Anna dai capelli rossi”. Lo chiama “nascondiglio mentale” e “rifugio oltre l’arcobaleno”, dove rintanarsi mentalmente quando il padre tornava a casa ubriaco e la madre passava anche tutta la notte a urlargli contro. Britney si identifica con la nonna paterna Jane, morta suicida sulla tomba del figlio, con la vita costellata di abusi, problemi mentali e ricoveri in strutture psichiatriche. C’è un passaggio del libro dove parla della sua prima esperienza da attrice, nel film Crossroads scritto da Shonda Rhimes: dice di essersi calata così tanto nel suo personaggio, da iniziare a comportarsi anche nella realtà come il personaggio, ma in maniera molto più strana e comunque “non da lei”. Calarsi nel personaggio è una cosa che le succederà spesso e sempre più di frequente, faticando poi a uscirne fuori e a ritornare alla sua vera identità. È per questo motivo che ogni suo video musicale sembra una profezia autoavverante? Perché quando cantava la storia di “Lucky” ci si è identificata così tanto da non uscirne più? Tutto il libro è il travaglio di un’identità spezzata alla ricerca di sé stessa e della sua “vera casa”: le piaceva il successo, ma non si trovava bene nel mondo delle celebrità; avrebbe voluto tornare nel suo piccolo paese in Louisiana, per poi scoprire che anche lì era rimasta sola, e che non la riconosceva più nessuno. Ha cercato di aggrapparsi alla sua famiglia, maturando però pensieri paranoici: mi vogliono bene davvero o mi vogliono bene perché ho successo e gli ho regalato la casa al mare?

Siamo pieni di tragiche storie di celebrità, accolte sempre con molta poca umanità e più come parte di uno storytelling. Ma è anche vero che queste storie sono appunto, sempre presentate proprio sotto forma di storytelling dall’industria dello spettacolo stessa, anzi celebrate: non sei una vera star se non crepi male, ma è a quel punto che puoi venire santificata. È quasi un privilegio per pochi, e per i migliori, e le loro morti orribili e solitarie (annegamenti in vasca da bagno, mix letali di farmaci, overdose, incidenti) vengono inevitabilmente romanticizzate e ritrasformate in film, serie, libri, canzoni. Tutti dicono che quella di Britney Spears ricorda la storia di Marilyn Monroe, di Judy Garland, di Whitney Houston, solo che Britney ancora non è morta, benché molti se lo aspettino come fine inevitabile di una star. Ma questo macabro rituale fa quindi parte a pieno titolo della cultura popolare occidentale? L’industria dello spettacolo sa che fa parte del gioco, ed è il motivo per cui personaggi dalla storia tragica come Marilyn Monroe vengono omaggiati e glorificati continuamente? L’elevazione degli artisti a idoli, la loro ascesa, la loro caduta, il ciclo che ricomincia di nuovo arruolando e anzi addestrando scientemente nuovi giovani idoli, possibilmente malleabili, già predisposti a sacrificarsi per la causa. Curioso che questo meccanismo sia descritto per la prima volta in maniera piuttosto diretta da una teoria del complotto online, precisamente quella chiamata “Progetto Monarch”. Le teorie del complotto, soprattutto quelle nate online, da un lato ci intrattengono in una sorta di gioco investigativo partecipato, dall’altro offrono delle ermeneutiche per la comprensione del mondo che l’arte, la religione, le istituzioni, le ideologie politiche, sembrano non riuscire a offrire più; la grossa contradizione è che sono prese pochissimo sul serio dagli intellettuali, probabilmente in virtù della loro forte componente populista.

Secondo questa teoria del complotto, esisterebbe la solita élite di miliardari (gli Illuminati) impegnata a mantenere il proprio status di élite, intervenendo su vari aspetti della società, e dedicandosi a vari business, tra cui ovviamente l’industria dello spettacolo, molto utile per manipolare la “mente dei giovani”. Il “progetto Monarch”, che prende il nome dalla farfalla che nasce bruco e poi diventa appunto uno splendido insetto alato e colorato, servirebbe ad ammaestrare giovani talenti (musicisti, attori, artisti di vario genere), per renderli estremamente performativi e per fargli fare non quello che vogliono loro con la loro arte, ma quello che serve all’industria. Per renderli “docili schiavi”, gli Illuminati o chi per loro, userebbero metodi di manipolazione mentale presi in prestito da vecchi esperimenti della CIA (progetto MK-Ultra, che a sua volta copiava esperimenti condotti dai nazisti nei campi di concentramento). Questi metodi sono particolarmente applicabili al mondo dello spettacolo e particolarmente efficienti sulle donne: per renderle “schiave sessualizzate”, userebbero un mix di traumi indotti (abusi sessuali, violenza fisica, rapimento dei loro bambini, abbandono da parte della famiglia), che spezzerebbero l’identità della persona creando personalità multiple. Questo faciliterebbe la loro “riprogrammazione” in appositi centri di “rehab”, e l’addestramento di una personalità specifica (di solito quella iper-sessualizzata), che poi andrà a fare un lavoro specifico (l’escort per ricchi, la popstar), controllate da degli “handler”. Il problema è che le “Beta Sex Kitten” (così sono chiamate le schiave sessuali sottoposte al trattamento Monarch) potrebbero ribellarsi, manifestando le vecchie personalità, o altre personalità più violente o ribelli, o diventare incontrollabili a sé stesse e agli altri.

Questa teoria del complotto è certamente spaventosa e truculenta, ma in un certo senso narrativamente efficace. Non per niente, ha influenzato molti prodotti culturali di successo, come ad esempio Stranger Things. Tutta la vicenda di Eleven, si ispira al “Progetto Monarch”: Eleven è proprio la figlia rapita a una ex-Beta Sex Kitten (c’è una scena col ritaglio di un giornale che recita “MK-Ultra”, se non ve ne siete accorti è sempre per quella storia delle cose nascoste in bella vista), e portata in un laboratorio dove procedono alla sua programmazione, con abusi, mix di medicine e depersonalizzazione (rapandole i capelli a zero e dandole un numero al posto del nome). Il “Progetto Monarch” ha poi un’aesthetic molto precisa fatta da: farfalle blu, specchi (rotti), pavimenti e stoffe a scacchi bianchi e neri, vestiti da gattina animalier, alberi, rose, arcobaleni, il simbolo dell’infinito, il famoso “one eyes signs”, ovviamente gabbie, lucchetti e chiavi, nodi e legacci, una generale infantilizzazione di cose per adulti (camerette, donne adulte vestite da sexy Lolite, peluche), l’ossessione per due film in particolare cioè Alice nel Paese delle Meraviglie e il Mago di Oz. Ebbene, in questi dieci anni, i fan di Britney Spears guardando il suo profilo Instagram (pieno appunto di rose, farfalle eccetera), ed entrando in contatto con questa teoria del complotto, si sono chiesti: la nostra Britney è tenuta in stato di schiavitù dall’industria dello spettacolo? Ci sta lanciando dei messaggi e vuole che la liberiamo? Ed è così che è nato il movimento #FreeBritney, che nel memoir lei ringrazia “per tutto quello che ha fatto”, per aver quantomeno portato agli occhi dell’opinione pubblica le stranezze intorno a una super popstar.

Durante il suo periodo “di schiavitù” a Las Vegas, Britney Spears si definisce nel libro “una bambina-robot”, una brava bambina ubbidiente benché adulta, capace di fatturare milioni che non sono andati a lei. Ammette di essersi rapata i capelli a zero “per ribellione”, per de-sessualizzarsi agli occhi del mondo. Uscendo dalla suggestione della teoria del complotto, appare però chiaro che la Britney Spears reale soffra di una o più gravi malattie mentali: quella per cui è stata messa sotto conservatorship, assurdamente, è la demenza senile. La diagnosi è stata fatta da uno psichiatra geriatrico, che si vede nel documentario di Netflix, che però non conferma di aver firmato alcunché benché poi sugli atti arrivati al tribunale californiano ci sia quella diagnosi e il suo nome. Nel memoir, Britney ammette di soffrire di forte ansia sociale, e che la depressione post-partum le avrebbe causato un esaurimento nervoso, aggravato dalla continua minaccia dell’ex marito di non farle vedere più i figli. Non sarebbe dipendente dall’alcol (benché ammetta di essersi ubriacata “per divertimento” in alcuni momenti della sua vita), né a droga di nessun tipo. Ammette la dipendenza dall’Adderal, un farmaco legale negli Stati Uniti nella famiglia delle anfetamine, che serve a tenere sotto controllo l’ADHD. Qualsiasi neurologo troverebbe “impossibile” una diagnosi di demenza senile a 26 anni (come quella fatta a Britney), invece sarebbero più plausibili diagnosi come la sindrome bipolare, il PTSD complex, il disturbo dissociativo dell’identità (premettendo che l’unico modo per averne conferma è sottoporsi a molti test e risonanze magnetiche, e altre indagini diagnostiche). Al momento, non sappiamo veramente in cosa consistano i problemi mentali di Britney Spears e di quale entità essi siano.

Per quanto riguarda la truffa economica, poco si riesce a cavare fuori dal memoir, ma d’altronde le indagini non toccherebbero alla parte lesa. Finora le inchieste giornalistiche che hanno portato un po’ di chiarezza sull’aspetto “corporate” sono incredibilmente poche: quella sul New Yorker di Ronan Farrow e Jia Tolentino, quella sul New York Times che fa luce sulla manager Lou Taylor e la sua Tri Star – Sports & Entertainment. Gli altri articoli si dilungano su aspetti più suggestivi e cinematografici, ma poco concreti, tipo quello del New York Magazine, “The House of Spears”, che riconduce tutto a un trauma intergenerazionale, come se ci fosse stata familiarità col destino tragico. C’è poi il documentario del NYT, “Framing Britney Spears”, e quello di Netflix “Britney contro Spears”. Poca roba se si considerano le tonnellate di articoli clickbait, gli speciali che non fanno altro che “ripercorrere la carriera dell’artista” con paginate piene di iconiche foto conosciute a memoria da tutti, e le mille teorie del complotto che hanno proliferato in assenza di un racconto ufficiale chiaro e coerente. Per almeno dodici anni, il pubblico ha potuto fare affidamento solo sul suo profilo Instagram, uno strano e incomprensibile account per essere quello di una superstar. Dunque, è dalle inchieste del New Yorker e Nyt, che sappiamo che la manager coinvolta nella conservatorship è Lou Taylor (chiamata Loucifer dai fan del movimento #freeBritney) e l’azienda la Tri Star – Sports & Entertainment. Lou Taylor è una “manager di alto profilo” che gestisce un portfolio clienti grande e di prestigio: tutta la famiglia Kardashian compresi Tristan Thompson e Travis Scott, Meghan Trainor, Cardi B, Mary J Blige e Justin Bieber. Qualcuno ha pensato di fare un efficiente e verificato diagramma di connessioni affaristiche di Lou Taylor che si può consultare qui. Comunque, la sua prima cliente più importante è stata proprio Britney Spears.

L’agenzia di management Tri Star offre un “hybrid business model”, ossia gestisce sia la parte prettamente finanziaria dei suoi clienti (contratti, investimenti, merchandising), sia la parte personale (acquisto e gestione di case, educazione dei figli, fornitura di assistenti personali). Certo, non è una novità che le star abbiano degli “handler” che organizzano le loro vite, ma a Britney è stato proprio tolto il diritto di decidere della propria vita mediante una tutela decisa da un tribunale, e come tutore è stato scelto il padre, Jamie Spears. Dall’articolo del Nyt abbiamo appreso che Lou Taylor e Jamie Spears, non solo avevano una sorta di storia d’amore in corso, ma che Lou Taylor era anche la guida spirituale di Jamie Spears (lei lo ha battezzato nel Giordano). Lou Taylor è in effetti estremamente religiosa; è stata sposata con un importante pastore della chiesa evangelista americana, quel tipo di protestantesimo che vede nel successo negli affari e nei soldi la manifestazione del divino. Un giornalista indipendente che ha una newsletter su Substack ha definito tutta la gestione manageriale di Lou Taylor una sorta di “culto religioso pop”, molto simile a Scientology, con modalità parecchio opinabili sulla gestione degli artisti, soprattutto di quelli più turbolenti e incontrollabili, che lei comunque prende volentieri sotto la sua ala sia per business che per “missione divina”. Nel 2008, Lou Taylor è quella che parla in tv davanti all’ospedale in cui stanno facendo il TSO a Britney come “portavoce della famiglia Spears”; ci tiene a far sapere che sono tutte brave persone, che «pregano incessantemente» per la figlia e che lei li aiuterà perché «non ne può più della gente che guarda morbosamente la sofferenza altrui senza dare una mano». Nel memoir, a Britney viene il sospetto che sia il padre il “leader di un culto” a cui la famiglia (la madre e la sorella) obbedisce ciecamente. Ma ad allargare lo sguardo, sembra più che sia stata l’impresa manageriale e pastorale di Lou Taylor a investire Jamie Spears del diritto divino di calarsi nei panni di Britney stessa, curarla da ogni male e farla così continuare a fatturare sotto l’elgida del brand Britney.

“This is a story of a girl named Unlucky”, costellata di traumi infantili, traumi adolescenziali, traumi in età adulta, separazioni burrascose, aborti, abusi di medicinali, malattia mentale, sfruttamento economico, truffa aggravata, modelli ibridi di business ed esperimenti di manipolazione mentale perpetrati in centri di riabilitazione a Malibu. E poi ancora tentativi di fuga, messaggi in bottiglia via Instagram (forse sì, forse no), rivelazioni shock su Tmz e il Daily Mail. Due sono le cose che fanno più male leggendo il memoir di Britney Spears: il ricatto di toglierle per sempre i figli se non si comporta bene, i devastanti rehab a cui la sottopongono. E ancora più devastante è come sia già in corso un processo di santificazione e glorificazione mentre i fan ancora si chiedono: ma Britney come sta, è veramente libera? Certo noi vogliamo credere che sia finalmente libera di fare quello che vuole, di esprimersi artisticamente di nuovo, magari donarci nuova musica e altri iconici video musicali. Lei dal canto suo, sempre dal suo misterioso profilo Instagram, forse gestito da lei, forse ancora gestito dai vecchi manager, posta la foto di una torta rosa a forma di cuore con scritto «ci si vede all’Inferno».