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L’eterno presente di James Ballard

Intervista a Michele Neri, autore di Ballardland, saggio biografico in cui racconta come lo scrittore britannico sia riuscito a "vedere" il mondo in cui avremmo vissuto e raccontarlo in libri oggi più contemporanei che mai.

di Enrico Ratto

Provare a scrivere di James G. Ballard senza finire per elencare le profezie più o meno indovinate dallo scrittore, esercizio che subiscono tutti gli autori che in qualche modo si sono occupati di futuro. È stato questo il difficile equilibrio che ha guidato Michele Neri, giornalista e autore del libro Ballardland, appena pubblicato da Italo Svevo. Troppo semplice dire “Ballard l’aveva scritto…” quando ci sono di mezzo tecnologia e intelligenze artificiali, cambiamento climatico e vite confinate nei condomini, naufragi volontari in isole di cemento e sessualizzazione di ogni oggetto fino alle lamiere di un’automobile. Incontriamo Michele Neri in una piccola cittadina della Liguria che ricorda un po’ Shepperton, il sobborgo di Londra dove James Ballard ha vissuto gran parte della sua vita e dove ogni cosa era immutabile, luoghi così distanti dalla realtà che la sola cosa in cui riescono bene è stimolare l’immaginazione.

Hai scritto un saggio sull’opera di Ballard, autore che in libreria troviamo tra gli scaffali dedicati alla fantascienza, ma che ha ben poco a che fare con questo genere. Il suo merito è aver trovato le parole che descrivono il nostro presente con una esattezza sorprendente. Perché è così difficile descrivere il mondo in cui viviamo e perché lui sembra esserci riuscito?
Poco fa riflettevo su una cosa. In una edicola qui vicino, leggevo il titolo di un giornale locale: colpo grosso del Sestri Levante con il Rimini. Credo che questo tipo di racconto della realtà possa interessare ormai il 5 per cento della popolazione. È una cosa avvenuta il giorno prima, su cui non puoi più intervenire, a cui non puoi né aggiungere né togliere nulla. E allora, tutti gli altri dove vanno a cercare la loro realtà? Ballard diceva: dato che la realtà è qualcosa che viene costruito a tua insaputa, dato che è talmente vasta da sovrastarti, dato che è talmente opprimente da confonderti, l’unico modo per sopravvivere è sapere che dovrai ricorrere all’immaginazione. Lui ci è riuscito perché, per tutta la vita, è stato capace di ricorrere a questo strumento, lo ha fatto in modo del tutto libero, lo ha fatto come se non riuscisse a fare altro. Per Ballard la realtà esiste soltanto se siamo noi a inventarla.

L’immaginazione ti permette di fare previsioni e di prepararti agli eventi?
No, non si tratta di previsioni né di prepararti agli eventi come di solito s’intende, proteggendosi, mettendosi in fila dietro le persone di buon senso. Piuttosto, i personaggi di Ballard vanno incontro alla catastrofe, accelerano gli eventi. L’anti-eroe ballardiano non si oppone mai agli eventi. Di fronte alla catastrofe, sempre già avvenuta, Ballard diceva: adesso trasforma questi incubi nel tuo incubo. Conoscilo, approfondiscilo. È questo che ti permette di muoverti verso il futuro, più che affidarti alle previsioni.

Tu hai intervistato molte volte Ballard, a volte con lunghe conversazioni via fax, a volte di persona nella sua casa-rifugio di Shepperton. Nel libro scrivi che Ballard ti è sempre sembrato vivere cinque minuti in anticipo sulle cose.
I cinque minuti in anticipo rappresentano il suo approccio, così naturale da sembrare involontario. La realtà che descrive è un meccanismo in cui la sua accelerazione futura è già incorporata nella sua esistenza, un destino segnato prima che avvenga, si comporta come una particella elementare. Siamo qui ma siamo già proiettati in una certa direzione. Sono le emozioni, il contesto, i mercati, i consumi, le informazioni, il nostro fisico, tutto ci porta là, ai prossimi cinque minuti. E allora Ballard ha mostrato come questi cinque minuti di anticipo siano l’unico modo per staccarsi dalla realtà del presente e riuscire a vedere quello che sta davvero succedendo.

Quando, da bambino, Ballard si è trovato nel campo di prigionia di Shanghai – raccontato nel libro L’impero del sole e poi nel film di Spielberg – sembrava essere più interessato alle azioni dei soldati giapponesi che alla vita da prigioniero della borghesia inglese.
Nel caos di Shanghai vede l’alta borghesia british che, persino in quella situazione, ricostruisce i propri riti e attende fiduciosa il ritorno dello status quo. E lui, ragazzino pre adolescente in lotta con i genitori, si ribella, inizia a osservare con interesse i giapponesi. Per questo dirà che ciò che più lo spaventava non era tanto la guerra, ma l’illusione in cui l’uomo finisce per vivere, convinto che, passata la catastrofe nulla cambierà, tutto tornerà come prima.

Noi oggi diciamo “andrà tutto bene”.
Sì, sono le bugie che ci raccontiamo sulla vita. Lo scopo della sua opera è stato svelarle. Sono tutti atteggiamenti privi di futuro. La conservazione della sicurezza, dei propri averi, dello status quo dei genitori e dei connazionali, in un ragazzino in un campo di prigionia provoca una reazione che lo fa uscire per andare a cercare il futuro. E il primo futuro a disposizione, Ballard lo ha trovato nel cockpit degli aerei giapponesi. L’aeroplano è sempre stato il simbolo di Ballard, alzarsi in volo, metafora di questo futuro possibile.

Perché sbagliamo a considerare Ballard un autore di fantascienza?
La fantascienza per Ballard è stata come un meteorite che sfiora ma non colpisce. L’ha vista, se ne è innamorato, ma poi ha capito quanto poco avesse a che fare con il futuro. Ballard ha più volte dichiarato che l’era spaziale era finita con l’allunaggio del ’69 e con lo Skylab del ’74. Mentre tutti gli altri scrittori celebrano il successo e prevedono sviluppi ultra-tecnologici, Ballard si rammarica dello scarso effetto psicologico ed emotivo che questi eventi hanno avuto sull’umanità. L’umanità era andata sulla Luna, ma dopo un attimo tutto era tornato a mescolarsi come prima. L’unico spazio rimasto da conquistare era dentro la nostra mente.

Oggi tutto questo mescolarsi è ai livelli massimi.
C’è una sovrapposizione costante di contenuti, apri Instagram e passi dalle bombe su Gaza alla ragazza che ti spiega come fare le cotolette senza usare il burro. La mostra delle atrocità di Ballard anticipa questa gigantesca galleria di sensazioni e avvenimenti frammentari che si sovrappongono. Si è reso conto che non c’era più uno spazio univoco, protetto, per ogni evento. Tutto veniva mescolato e, in qualche modo, disinnescato. All’epoca di Ballard erano pubblicità, marketing, televisione – i detentori del potere delle immagini – a gestire questa realtà sovrapposta, oggi siamo tutti noi.

C’è una frase in Millennium People: le professioni basate sulla conoscenza sono l’ennesima industria estrattiva.
Siamo una miniera di contenuti, e qualcuno estrae questi contenuti. Negli anni di Millennium People, Ballard se la prendeva con gli status symbol del consumo intelligente, e probabilmente in questo rientravano anche le cosiddette professioni liberali, i mestieri creativi. D’altra parte, è una frase in sintonia con ciò che Ballard pensava dell’establishment culturale.

Che cosa pensava?
Il peggio. Per lui tutti gli scrittori del romanzo sociale non volevano cambiare la società, volevano portare ancora più persone dentro la nostalgia, volevano rendere i loro lettori infelici borghesi come gli altri. Ballard è stato uno di quegli scrittori che non solo descrivono il cambiamento ma vogliono, con la propria immaginazione, produrlo.

La realtà è qualcosa di indipendente da noi?
Per Ballard il mondo non era oppressivo alla Orwell. Philip K. Dick o altri autori di fantascienza, per esempio, descrivono l’uomo come un elemento passivo, consapevole della catastrofe e reso impotente da questa, o in fuga. Ballard non vuole che i protagonisti dei suoi romanzi siano complici della catastrofe né che la evitino, vuole che naufraghino dentro la catastrofe e si rendano conto che c’è qualcosa di più grande da cui poter imparare qualche cosa. Questi Robinson al contrario, questi naufraghi volontari delle sue storie, grattano la superficie di una realtà stravolta – il protagonista dell’Isola di cemento è l’esempio più riuscito – e vanno a vedere che cosa c’è oltre l’immaginazione comune. Ti stanno dicendo: vai dentro la catastrofe, accetta di cadere dall’autostrada, e vai alla scoperta della tua nuova identità. È chiaro che queste non sono scelte concrete, reali, ma spingono a riflettere su posizioni diverse da una massa che gioca a ping pong con la catastrofe, un gioco in cui alla fine la catastrofe ti batte sempre.

Un altro equivoco: Ballard scrittore delle distopie.
Non lo è. La distopia è sempre la risposta alla domanda: e se? Se i nazisti avessero vinto la guerra, allora… Ballard, invece, risponde alla domanda: e ora? E ora che i termometri ci mostrano questi valori folli? E ora che abbiamo a che fare con l’intelligenza artificiale? E ora, come siamo trasformati da tutto questo?

Perché Ballard non era un ecologista?
Perché amava troppo l’impatto della tecnologia sul futuro. È un caso molto interessante della relazione uomo-opera, tema di cui oggi spesso si discute. Ballard era un reazionario, le sue opere erano rivoluzionarie.

Scrivi che durante le lunghe interviste con Ballard ti ha sempre sorpreso un dettaglio: si trovava molto d’accordo con i suoi personaggi.
È un caso raro rispetto alla maggioranza degli scrittori che cercano sempre di dire: questo è il pensiero del protagonista, io sono un’altra persona. Ballard era talmente identificato con i personaggi dei suoi romanzi da rivendicare le loro posizioni, da portare avanti quel pensiero anche all’esterno dei romanzi. Quando rilasciava un’intervista partiva dal percorso compiuto, ma non ancora concluso dall’immaginazione dei suoi personaggi, e si impegnava per ampliarlo.

Tutto questo nonostante non abbia mai avuto nulla a che fare con le varie forme di autofiction.
Anzi, era evidente la sua infelicità per essere stato finalmente riconosciuto come grande autore solo dopo la pubblicazione de L’impero del sole, opera in cui prevaleva la parte biografica rispetto alla parte di immaginazione.

Immaginazione, immagini. Un’altra parola chiave a cui si ancorano i suoi testi.
Ballard ha sempre scritto per immagini. Lo interessavano le immagini ad altissimo impatto, eleganti, in alcuni casi poetiche e sognanti, di una squisita crudezza e così simili alle immagini attraverso cui ci viene narrato il mondo oggi e di cui paradossalmente finiamo più spesso per dubitare.

Al di là dell’elenco delle profezie che si sono avverate, la ragione che lo rende così contemporaneo?
C’è un dettaglio che me lo fa considerare un contemporaneo. Ballard era bersagliato dalle interviste, e nonostante questo non aveva mai fatto cancellare il suo numero dall’elenco telefonico. Era una persona estremamente permeabile, transigente. Era disponibile a essere disturbato. Quando la curiosità intellettuale chiamava, rispondeva. Questa è una cosa che fa di lui una persona molto contemporanea. Mi viene in mente Aaron Swartz, il programmatore che una decina di anni fa si suicidò dopo una serie di inchieste, prima di morire scrisse una bellissima lettera in cui diceva che quello che contava, alla fine, è che tutte le sue cose, tutti i dati, tutte le informazioni che aveva raccolto, potessero appartenere a tutti. Questo è il pensare contemporaneo di James Ballard, metterci la faccia, essere dentro i personaggi, essere disponibile a qualsiasi intervento pubblico. Non era preoccupato della propria proprietà intellettuale. Non ci fa piacere, ma è ovvio che oggi tutta la proprietà intellettuale sta scomparendo. Ecco, Ballard si sarebbe chiesto, senza farne un dramma: e ora, ora che è perduta per sempre, che cosa c’è oltre?