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Bacon, Freud, Londra e il Novecento

Una mostra a Roma mette insieme per la prima volta gli autori che hanno rivoluzionato la pittura britannica del ventesimo secolo.

di Germano D'Acquisto

Lucian Freud, "Girl with a White Dog", 1950-51, © Tate, London 2019

Francis è nato a Dublino nel 1909 ma ha vissuto quasi sempre a Londra. Lucian è un berlinese del ’22 che si trasferisce nella capitale britannica dopo l’ascesa di Hitler. Francis è probabilmente discendente del filosofo Francis Bacon. Lucian è sicuramente nipote di Sigmund Freud. Francis è omosessuale, timido, solitario, tormentato e pessimista. «Ho sempre sognato di dipingere il sorriso – spiega – ma non ci sono mai riuscito». Lucian invece ama le donne, è rissoso, spietato. Entrambi mettono al centro della loro poetica la figura umana. Francis rendendola dinamica, scarnificandola fino a mostrarne le interiora. Lucian dipingendo nudi, sensuali e tragici perché, dice, «Voglio che la pittura sia carne». Bacon e Freud sono due stelle dell’arte, due artisti sublimi, rivoluzionari e controversi a cui il Chiostro del Bramante di Roma dedica una mostra-tributo (fino al 23 febbraio), dove i loro lavori, tutti provenienti dalla Tate, si mescolano a quelli di altri pittori della Scuola di Londra come Michael Andrews, Frank Auerbach, Leon Kossoff e Paula Rego. Bacon è inoltre protagonista fino al 20 gennaio dell’esposizione Bacon en toutes lettres al Pompidou di Parigi dove sono raccolti i lavori realizzati dal 1971 al 1992.

Bacon racconta meglio di chiunque altro l’angoscia del Novecento. A fulminarlo sulla via di Damasco è una mostra di Picasso ammirata a bocca aperta alla galleria Rosenberg di Parigi alla fine degli anni Venti. Vive a South Kensington, dove affitta un garage e lo trasforma in laboratorio. Fa il decoratore di interni e inizia a dipingere. Si ispira a Soutine, Giacometti e agli spazi vuoti di De Chirico. La sua prima esibizione è un cocktail di stracci, mobili e qualche tela. Poi nel 1943 cambia aria. Si trasferisce nella casa appartenuta al pittore preraffaellita John Everett Millais e la trasforma in un bordello. Vive uno dei periodi più dissoluti di tutta la sua esistenza ma dipinge forse il suo più grande capolavoro “Three Studies for Figures at the Base of Crucifixion. Freud si iscrive alla East Anglian School of Drawings and Paintings di Dedham nell’Essex guidata dal pittore Cedric Morris. Ha un talento immenso, ama Corot, Rembrandt, Cezanne, i fiamminghi e gli espressionisti tedeschi ma è profondamente irrequieto. Sembra il Martin Eden del film di Pietro Marcello che è valso la Coppa Volpi a Luca Marinelli. Interrompe gli studi e si imbarca su una nave da guerra della marina britannica per raggiungere l’Atlantico settentrionale. I suoi ritratti mostrano subito i segni che l’esistenza lascia sui corpi umani. Lucien si sofferma quasi con sadismo sui particolari più brutali. «Un quadro – spiega – deve stupire, disturbare, sedurre, convincere».

Francis Bacon, “Study for Portrait on Folding Bed”, 1963, © Tate, London 2019

La visione creativa di Bacon non si può scindere dalla sua vita privata. Tutto parte dai genitori, si dice. E per Francis, tutto parte dal padre, un capitano di fanteria severo e tirannico con la passione per i cavalli da corsa. Come può un militare tutto d’un pezzo accettare che il proprio figlio ami girare per casa (e non solo) con abiti femminili? Non può. E infatti, lo caccia. Un trauma che spiega perché la sua pittura non è mai ammiccante. Francis si muove in punta di piedi senza mai cercare di piacere a qualcuno. La sua è una rivoluzione senza colpi di cannone. Nulla nelle sue tele sta al posto «Niente si deposita dove la logica richiedeva», scriverà qualcuno. Freud è il nipote del padre della psicanalisi, ma anche se non lo avessimo saputo lo avremmo potuto intuire. Perché le sue opere sono vere e proprie sedute che mettono in scena i pensieri più cupi dei personaggi ritratti. Il pittore racconta amici, colleghi e amanti attraverso corpi flaccidi e sguardi spossati. Da perfetto psicanalista ne tira fuori il loro lato più soffocante, doloroso e impronunciabile.

Bacon indossa i calzoni di fustagno anche d’estate. È quasi sempre malato, alcolizzato e gioca d’azzardo. A Montecarlo un giorno dissolve tutto al casinò. Non ha soldi per comprarsi le tele così decide di dipingervi sul retro. Scopre che la tela grezza trattiene meglio il colore e ne accresce la consistenza. Da allora lavorerà sempre e solo così. Anche Freud è un giocatore incallito, ama le corse di cavalli. Ma a renderlo famoso sono i ritmi lentissimi del suo lavoro, che esasperano i modelli (Regina Elisabetta compresa) obbligati a rimanere in posa per lunghe interminabili sessioni. Per dipingere lo splendido “Grande Interno”, per esempio, ci mette più di due anni. Gli esiti finali però giustificano l’attesa. Per Francis l’amore è dolore. Vive relazioni tormentate, prima con uomini più grandi, poi con giovani,  scapestrati. Quello che ama più di tutti è George Dyer. I due si conoscono in modo tutt’altro che ordinario: George è un ladruncolo che una notte del 1963 riesce a intrufolarsi nella casa del pittore, che lo sorprende a frugare fra i suoi cassetti e se ne innamora. Vivono nove anni turbolenti che culminano con il suicidio di Dyer in una camera dell’Hôtel des Saints Pères di Parigi, proprio due giorni prima dell’opening della grande retrospettiva del pittore al Petit Palais nel 1971.

Per Lucian l’amore è bugia. Con le donne è traditore, sessualmente sfrenato e aggressivo. Semina figli come coriandoli, ma della maggior parte di loro non si prende cura. È egoista, sfacciato, conduce una vita mondana fatta di eccessi. Frequenta collezionisti e artisti ma anche criminali, prostitute e tossici. L’unica che ama davvero è Caroline Blackwood, una donna ricchissima, tradita infinite volte ma dalla quale viene anch’egli tradito (con Picasso). Una relazione tormentata, al limite del paranoico, da cui nascono però alcuni dei ritratti più straordinari dell’artista. Dal 1963 Bacon lavora al 7 di Reece Mews, che resta il suo atelier fino alla fine. Un posto mitico, che più di ogni altro spiega le sue visioni. Ci sono macchie e grumi di pittura sulle pareti, manifesti, riviste, ritagli di giornale e foto appese ai muri, stracci, pennelli, cavalletti e tele sparsi ovunque. «In questo caos mi sento a casa, perché il caos mi suggerisce immagini», racconta. Dopo il loft di Holland Park, Freud sceglie invece un grande studio-appartamento a Kensington. Sulla poltrona castana c’è ancora il suo Madame Bovary, edizione inglese gialla e grigia. In camera da letto un ritratto femminile di Jacques-Emile Blanche, un paesaggio di Corot, una natura morta di Manet. Il letto dove hanno posato per lui Kate Moss e Leigh Bowery è ancora lì.

Francis è un gigante solitario dell’arte del 900. Muore in primavera a Madrid. Ci è andato per amore: deve incontrare il suo giovane fidanzato spagnolo. Ma un infarto lo stronca a 83 anni confermando ciò che lui stesso amava dire  in vita: «Siamo potenziali carcasse». Freud se ne va in estate. Ha 88 anni e per sessanta non dice una parola in pubblico. Mai un’intervista, mai in tv. Mai uno scritto. Anzi, trova lo scrivere di una difficoltà così spaventosa «che non riesco a capire come si possa essere scrittori». Ma sulle pareti della sua casa londinese lascia scarabocchiate tre parole: «Urgente, sottile e conciso». Il migliore possibile degli epitaffi.