Cultura | Personaggi

«C’è Pinketts»

Un ricordo dello scrittore tra i bar nella Milano degli anni Novanta.

di Marco Rossari

Andrea G. Pinketts nel 2009 (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

Non ricordo la prima volta che sentii parlare di Andrea G. Pinketts e nemmeno la prima volta che lessi un suo libro. Era lì, come era lì al bancone ogni volta che entravi al Trottoir. Se ti affacciavi sulla scena letteraria di Milano verso la metà degli anni Novanta era facile che uno dei suoi tascabili Feltrinelli ti finisse in mano e che lo leggessi in un pomeriggio e che infine venissi a sapere di questo personaggio spuntato dritto da un pezzo di Buscaglione che vagava tra corso Washington e Brera, sempre dietro a un bicchiere o una femmina. «C’è Pinketts».

Era di volta in volta commento neutro, curiosità, esclamazione esasperata, monito divertito, constatazione della notte milanese. Quando stavo per esordire, con un libro pieno di alcol e oscenità, Fernanda Pivano, che aveva avuto modo di darci un’occhiata, decise che Pinketts – guarda caso – facesse al caso mio per una presentazione in libreria. Tirò su il telefono e fece il numero. «È al bar». Me lo passò. Sullo sfondo, il tintinnio dei bicchieri e il brusio degli avventori. «Allora, la cosa migliore è che ci si veda al Trot».

Il Trot, pronunciato con il suono di una mascella che viene fratturata, era il Trottoir, locale ad angolo all’inizio di corso Garibaldi, dove puntualmente mi presentai in motorino qualche sera dopo. Pinketts era al bancone con due ragazze. Mi avvicinai timidamente e, quando mi scusai per l’intrusione, lui scrollò le spalle e sbottò: «Non ti preoccupare, recupero dopo».Salimmo al piano di sopra e la serata fu così memorabile che non ricordo nulla.

Per qualche tempo mi frequentò, come frequentò mille altri scrittori e beoni e parassiti, a volte in una sola persona come era il mio caso. Guascone, tiratardi, invadente, era diventato suo malgrado un’istituzione sgangherata, un serbatoio di storie su una Milano sempre più rarefatta e svanita: la scuola dei duri, l’hard-boiled per evadere dalla palude degli anni Settanta, la scrittura come palestra alla Hemingway. Arrivavi da lui e ti piantava addosso quegli occhioni curiosi, la bocca sghemba, la massa corporea che incombeva, la voce roca, il suo borbottio che punteggiava il tuo discorso. Era capace di spiegarti l’etimologia di una parola o di confessarti candidamente, come un Marlowe dall’estetista, d’avere scoperto le palle profumate di Lush, che lasciava cadere nella vasca con somma gioia in tarda mattinata prima di mettersi a scrivere. Era generoso, a volte un po’ molesto, ma sempre in modo così risibile da risultare innocuo. Sapeva arrivare a un reading in stato impresentabile e all’improvviso raddrizzare la serata. Una volta lo vidi partecipare a un incontro che aveva al centro un libro sul disturbo bipolare cominciando dal fatto che al suo cane fosse appena stata amputata una zampa: alla fine del discorso eravamo tutti commossi. Dal disturbo bipolare, dal cane e perfino dalla zampa.

Nel bar – tempio, ufficio, luogo di deambulazione e socializzazione obbligatorio, dove si recava dopo il pomeriggio a scrivere e dopo il pranzo a casa della madre (in questo simile, per ingenuità, a uno scrittore che gli assomigliava solo fisicamente: Kerouac) – sapeva passare ore e ore, dapprima a cucinare il preserata con le birre e poi ad accelerare lentamente a furia di cubetti, piccoli Cuba Libre che l’avrebbero accompagnato fino a quello che lo attendeva in fondo, dove non avresti voluto trovarti mai. Era capace di fermarti a metà frase – con garbo, eh – e alzarsi per andare a chiedere a una ragazza appena entrata se aveva voglia di venire al tavolo. Raccontava che Pinketts era un cognome irlandese, mentre sulla carta d’identità faceva Pinchetti, e poi si dimenticava tutto per dirti che G stava, modestamente, per Genio. Semplice, fastidioso, divertentissimo.

La copertina del primo libro, pubblicato da Metropolis nel 1991

Scriveva tutti i giorni, transitava di tanto in tanto in televisione, a volte partiva per qualche luogo esotico, ma alla fine vorticava sempre lì al bancone del Trot, finché non glielo spostarono in Ticinese, dove intestarono una sala tutta a lui. Ma, soprattutto, scriveva. Dopo una serie di noir impeccabili con protagonista Lazzaro Santandrea, alter ego di una vita, era finito nell’antologia di nuovi narratori arrembanti Gioventù cannibale e quando lo intercettai aveva già abbandonato il suo editore storico per passare a Mondadori, dove sarebbe rimasto fino alla fine. Dietro alla traccia nera e poliziesca, c’era sempre un’ironia sorniona e, anche nei momenti sardonici, una vaga malinconia che forse – chissà – aveva a che fare con il suo passato e con la morte del padre. Spesso partiva a scrivere il romanzo da una ballata, per poi distendere la trama dietro una lunga sequela di quadri, speziati di battute e motti, come se il fantasma di Leo Chiosso fosse apparso in sogno a Raymond Chandler per offrirgli un whiskaccio o, meglio, un giro in linea rossa da Loreto al Giambellino.

Capace di aforismi perfetti e fin troppo ghiotto di giochi di parole, nei primi romanzi aveva uno stile pulito, mutuato dai maestri americani e rinfoltito grazie all’italiano sfaccettato che amava molto. Snocciolava incipit leggendari – «Non so sciare, non so giocare a tennis, nuoto così così, ma ho il senso della frase» – che poi dissipava in mille rivoli. Con il tempo si lasciò andare a una pagina fin troppo ripiegata sui calembour, che forse nuoceva un po’ al suo talento, ma che non gli portò via un pubblico fedelissimo. Continuò a trovare nella scrittura – credo – il piacere che l’aveva portato al successo.

Adesso, come in quelle schiarite improvvise e sognanti dopo ore di nebbia solo alcolica, il finale di quella prima serata lo ricordo. A un tratto ci trovammo a barcollare verso una grapperia vicina al Trot, per bere la staffa. Appena usciti dal locale, si imbronciò e disse: «L’altro giorno ho fatto a botte con un tizio qui dentro ma loro nemmeno se lo ricordano». Espressi il mio rammarico. «Meglio così», mi rassicurò. All’improvviso, mentre ciondolavamo lì, un sigaro lui e una sigaretta io, quel gigante mansueto e manesco venne molestato da un singhiozzo persistente. «Ma porca miseria, non mi passa…», disse Andrea nella notte fonda milanese. «Devi tenere il fiato per almeno dieci secondi». «Proviamo».

Strinse le labbra intorno al sigaro ciancicato e il viso gli si contrasse in un pugno. Spiazzato, gli misi la mano davanti al grugno, come l’arbitro che conta durante un incontro di boxe. «Ok, tieni duro. Dieci, nove, otto…». Ecco, ora puoi tirare il fiato.