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Vita martoriata di Andre Dubus, lo scrittore amato dagli scrittori

Ritratto di uno dei maestri del racconto americano, di cui è da poco uscito Riflessioni da una sedia a rotelle.

02 Maggio 2021

Nei suoi ultimi anni di vita, Andre Dubus (1936-1999) aveva finito per assomigliare in maniera impressionante a Ernest Hemingway, uno dei maestri di cui parla anche in Riflessioni da una sedia a rotelle, la raccolta di scritti autobiografici da poco uscita anche in Italia. Originario della Louisiana, cresciuto tra i bayou, ex capitano della Marina, Dubus è stato uno di quegli scrittori amati soprattutto dagli altri scrittori forse perché, per lealtà nei confronti di David R. Godine, il primo piccolo editore che per primo gli aveva dato fiducia, a lungo si rifiutò di pubblicare con grandi case editrici, cosa che gli ha impedito di essere facilmente rintracciabile dal grande pubblico.

La sua è stata una vita martoriata un po’ più di altre: tre matrimoni finiti, una figlia, Suzanne, stuprata da ragazza, sorte che toccò anche alla sorella Kathryn e che è al centro del primo, durissimo, brano di Riflessioni da una sedia a rotelle. Eppure, quando ci si accinge a snocciolare la biografia di quello che è stato senza dubbio uno dei più dotati autori americani di storie brevi (nel 1967 aveva esordito con un romanzo, Il luogotenente, ma non era uno da maratona ed era tornato ai cento metri) non si può prescindere dall’incidente spaventoso che, nel 1986, gli aveva portato via una mezza gamba e gli aveva reso inutilizzabile l’altra, incatenandolo a una sedia a rotelle per il resto della vita.

«Avevo avuto bisogno di provare la pena di stare in un letto d’ospedale per capire che la parte sul dolore fisico era molto più importante di quanto pensassi»

In Riflessioni da una sedia a rotelle, pubblicato da Mattioli1885 (dopo 8 volumi di racconti, tra cui Non abitiamo più qui, Voci dalla luna, Ballando a notte fonda, e un’altra raccolta di saggi, Vasi rotti) grazie al traduttore Nicola Manuppelli al quale va tutto il merito se oggi possiamo leggere questo autore nella nostra lingua, Dubus tira fuori Hemingway in riferimento a un suo racconto, In un altro paese, che parla di uomini e malattie, un testo che, nonostante lo avesse a lungo insegnato agli studenti, lui stesso dice di avere capito davvero soltanto più tardi, quando si era trovato su un letto a fare a pugni con il dolore fisico. Descrive così, quel momento: «Questa storia parla anche di guarigione. […] Le ragazze mi guardavano felicemente, mentre scoprivo una verità, o mentre era una verità a scoprire me, quando finalmente ero pronto per lei».

La sua è stata definita una scrittura «muscolare», che di solito sta per «maschia», «da uomini veri». Ma ripulendolo dalle connotazioni, l’aggettivo muscolare si riferisce «agli aspetti istologici, anatomici, patologici e funzionali dei muscoli». Nei suoi racconti le persone sono soprattutto corpi: che ammazzano, ballano, vanno a prendere i figli, soffrono, fanno l’amore. E gli uomini non sono del tipo che non devono chiedere mai, e questo perché lui stesso sapeva di non esserlo.

«Mio padre aveva messo al mondo un ragazzo sensibile, che veniva ferito e si spaventava facilmente, e ciò faceva sì che si preoccupasse per me. Io lo sapevo già da ragazzo, e lui me lo confermò sul letto di morte, quando ormai ero un capitano della Marina»

Andre Dubus veniva da una famiglia cattolica. Suo padre era un ingegnere civile che amava soprattutto giocare a golf e spesso lo aveva portato con sé, ricompensandolo per fargli da caddie. Nello scritto intitolato “Scavare”, racconta di quando, a 16 anni, lo aveva quasi costretto ad andare a lavorare in un cantiere in piena estate. Lui, per non deluderlo, aveva resistito alla stanchezza e alla durezza dell’impatto con un mondo che finora gli era stato sconosciuto. E in “Scavare” lo ringrazia per questo, per non averlo lasciato alle cure delle donne di casa (Andre era l’unico maschio) a fargli solo desiderare «di essere un uomo tra gli uomini» e, soprattutto, per essergli stato vicino in maniera dolce e discreta, comprandogli un caschetto da lavoro. A sua volta. Andre avrà sei figli da tre mogli. Tra i maschi c’è anche Andre Dubus III, nato nel 1959, diventato a sua volta scrittore. Tra i suoi libri c’è il bel romanzo La casa di sabbia e di nebbia (di cui esiste anche un film) e il memoir I pugni nella testa (entrambi sono usciti in Italia per Nutrimenti), scritto nel 2011 per ricordare il padre.

I suoi maestri furono Richard Yates e Kurt Vonnegut che un giorno gli disse «Andre, ti cambi più vestiti tu di una Barbie». Tra gli amici, invece, ci sono gli scrittori E.L. Doctorow, John Irving, Stephen King e John Updike che, nel 1987, assieme ad altri, organizzarono dei reading a Cambridge per raccogliere fondi e aiutarlo economicamente, dopo che fu vittima dell’incidente automobilistico.

Il 23 luglio del 1986, mentre stava guidando per tornare a casa da Boston a Haverhill, in Massachusetts, dove viveva, si era fermato per dare assistenza a due motociclisti che avevano avuto un incidente. Nel mentre, era sopraggiunta un’auto e lo aveva investito. Gli venne amputata una gamba e perse l’uso dell’altra, poi tre anni di operazioni dolorosissime che lo portarono a trascorrere il resto della vita su una sedia a rotelle. E in effetti, i suoi racconti sono pieni di uomini e donne mutilati nel più svariato dei modi, malattie, guerre, relazioni, infanzie, scelte, e noi li incontriamo sempre quando il colpo è stato inferto e stanno cercando di riscrivere la propria esistenza, che è un altro modo per dire cura. E Riflessioni da una sedia a rotelle – che riporta anche episodi come l’incontro con Liv Ullmann a una cena letteraria a Boston, quello con Norman Mailer all’Algonquin e la decisione improvvisa di rinunciare alla sue otto pistole – potrebbe anche essere letto come un diario della cura, che accompagna l’ossessione per quello che non c’è più e una specie di incredulità per non avergli dato importanza quando ancora lo aveva con lui.

«Era l’ora di arrendersi all’idea che la mia gamba non fosse altro che un arto che spesso mi procura dolore e che sono comunque contento di avere, perché mi permette di essere ancora alto un metro e ottanta, e perché è mia; era ora di accettare la vita su una sedia a rotelle»

Il verbo «arrendersi» appare ripetutamente in questa raccolta, appaiato a un altro, «ringraziare». Dubus scivola invisibile accanto ai suoi personaggi e ne coglie pensieri, paure, desideri, in un mondo in cui le cose «succedono» e ciascuno ha il compito di accettarle e andare avanti. Dopo l’incidente, Dubus si aggrappò alla religione dei suoi genitori, il cattolicesimo. Prendeva la Comunione tutti i giorni o quasi e iniziò a venerare i «sacramenti», una parola-mantra alla quale dedica una vera e propria elegia. Per lui, cose come una telefonata, preparare il pranzo per le sue figlie, fare l’amore con una donna, diventarono tutti sacramenti, fatti fisici in cui è soffuso l’amore di Dio: «È fisico come lo è un panino, nutriente e piacevole, dentro c’è l’amore, se qualcuno te lo porge e te lo dona con amore». Il peccato (che assieme alla colpa e alla redenzione sono spesso al centro della sua narrativa), in questo modo così laico e limpido di intendere la religione, allora si trasforma in qualcosa di diverso da quello che indica la dottrina: peccare è dimenticarsi di tutto quello che riceviamo e perciò isolarci, cosa che, dice Dubus, nemmeno le foglie fanno, perché loro «ricevono, e danno, e sono verdi». La salvezza, sembra dirci, sta tutta nello stare attenti, in un perenne atteggiamento di ricezione.

Dubus cantava spesso – Sinatra, soprattutto – perché cantare «unito alla fatica dei muscoli e del sangue, rende tutto più gioioso». Lo faceva quando correva con le sue gambe sulle strade di campagna, anche durante i giri per tenersi in esercizio sulla sedia a rotelle attorno al parcheggio della chiesa, con le persone che lo guardano e pensano che sia un po’ tocco. Ma si fa anche cantore «di quelli che non possono e non ce la fanno». Tra gli scritti di Riflessioni su una sedia a rotelle è riportata anche una lettera che inviò all’Amtrak, la compagnia ferroviaria americana, dopo che, durante un viaggio verso Chicago, non gli era stato possibile accedere a un bagno: «Ho avuto la sensazione che quella bandiera (americana, ndr) non mi includesse, non mi desiderasse. Non mi sentivo un uomo o un padre, ma un pezzo di carne avariata». E la scrisse non solo a nome proprio, ma dei milioni di persone disabili per tutti gli Stati Uniti perché «ci piacerebbe poter camminare, ma non possiamo. E non possiamo farci niente. Siete voi che dovete fare qualcosa per noi, come fanno i nostri amici, quelli di noi che hanno amici».

Dopo l’incidente, Andre iniziò a raccogliere alcuni giovani scrittori a casa propria il giovedì sera. Quella serata si chiamavano Thursday Nights. In Riflessioni su sua sedia a rotelle è inclusa una nota che Dubus scrisse ai vari partecipanti dopo che due membri, gli scrittori Christopher Tilghman e Jim Thompson, gli avevano fatto notare alcune mancanze del gruppo, che lui non mancò di imputare a se stesso. Nel testo, in sostanza, Dubus ribadisce l’idea che a ciascun autore deve essere permesso di scrivere le storie che deve scrivere «non nel modo perfetto, ma nel migliore modo possibile». Cita anche Hemingway, che una volta disse di avere poco talento naturale, e che ciò che la gente chiamava il suo «stile» era semplicemente il suo tentativo di superare quella mancanza.

I suoi eroi letterari, oltre a Hemingway, erano Cechov (che lui definiva «la mia coscienza»), Cheever, e poi Faulkner, Turgenev, Malraux. Diceva che, quando si scrive, si finisce per amare i propri personaggi alla maniera di Dio con gli uomini. E che in Cechov, e soprattutto in Cheever, ci si scopre ad amare delle persone che non vorremmo mai in casa nostra.

«Che cos’è l’arte se non un tentativo, concentrato e appassionato, di fare qualcosa con il poco che abbiamo, il poco che vediamo?»

Leggere Andre Dubus fa venire voglia di mettersi a studiare al microscopio gli autori che amiamo, anche se il tempo per farlo non lo troveremo mai. Perché la vita è fatta di tutto il tempo che non abbiamo di prestare attenzione alle cose che, se ce lo chiedessero, diremmo che per noi sono le più fondamentali. E a volte non lo facciamo perché abbiamo il sospetto che quelle cose possano nascondere un segreto che, una volta scoperto, ci potrebbe disintegrare. Ma il desiderio, quello resta. E la vita è esattamente quello: la somma dei nostri desideri.

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