Cultura | Dal numero

Guida razionale all’apocalisse inevitabile

Intervista a Robert Jensen, uno dei due autori di An Inconvenient Apocalypse, libro in cui descrive la fine del mondo come un fatto inevitabile e spiega come prepararsi al futuro che ci aspetta.

di Francesco Gerardi

Foto di Agustin Paullier via Getty Images

Nel loro An Inconvenient Apocalypse (University of Notre Dame Press), uscito a settembre 2022, Wes Jackson e Robert Jensen raccontano la fine del mondo non più come un rischio da evitare ma una certezza alla quale prepararsi e, forse, paradossalmente, come unica vera speranza di sopravvivenza. Wes Jackson è un ex docente universitario – nella sua carriera accademica si è dedicato a biologia, botanica e genetica – che a un certo punto ha lasciato la cattedra per fondare il Land Institute e provare a risolvere un problema vecchio letteralmente quanto la civiltà umana: quello della sostenibilità dell’agricoltura. Robert Jensen è anche lui un professore in pensione, ma i suoi campi prediletti sono il giornalismo, la filosofia, la politica. Si sono incontrati e si sono piaciuti e hanno deciso di collaborare a uno di quei progetti ai quali tutti i pensionati del mondo prima o poi pensano di dedicarsi: scrivere un libro sulla fine di questo mondo e l’inizio del prossimo. Dalla loro collaborazione è nato An Inconvenient Apocalypse, un libro che racconta l’apocalisse come inevitabile e persino desiderabile. Per Jackson e Jensen siamo ormai oltre il punto di non ritorno, e non saranno le macchine elettriche o i trattati multilaterali sulle politiche climatiche a fare la differenza: sarà l’apocalisse stessa, un concetto a loro dire frainteso, da ripensare come nuovo inizio e non come fine di tutto, come ci ha spiegato Jensen in questa intervista.

Nel libro riducete le crisi che stiamo vivendo, quella climatica e quella politico-economica, a questioni rispettivamente di consumo e di significato. Spiegheresti meglio cosa significano queste definizioni?
La crisi del consumo riguarda la quantità di esseri umani che vivono sul nostro pianeta e le risorse che consumano. Quando parliamo di crisi di consumo parliamo della nostra maniera di trattare la questione ambientale come un problema astratto e quindi slegato dal tema del consumo: il consumo è il problema. Una maggioranza degli abitanti della Terra consuma troppo, e fin qui non abbiamo avuto davvero voglia di affrontare questo problema. La crisi del significato, invece, spiega il fatto che, a prescindere dai sistemi valoriali che abbiamo inventato e definito, nessuno di questi ci ha fin qui aiutato a capire cosa significhi “essere umani” in un senso più ampio, collettivo, che è invece quello di cui abbiamo bisogno per affrontare le crisi che ci aspettano.

Più che un libro sulle apocalissi che vivremo e sulle soluzioni da inventare, il vostro è un manifesto contro quelli che considerate i due mali della nostra epoca: l’escapismo e la nostalgia.
Il libro è questo: una critica contro l’escapismo e un avvertimento sui pericoli della nostalgia. L’escapismo assume tre forme. Negli Stati Uniti, per esempio, a destra abbiamo dei fondamentalisti convinti che sarà il libero mercato a salvarci dall’apocalisse. A sinistra esiste una convinzione uguale e contraria: sarà il socialismo democratico a redimerci. Ma in realtà il problema più grave è quello che Wes [Jackson, co-autore del libro, nda] ha definito fondamentalismo tecnologico. L’idea che inventeremo la soluzione a tutti i nostri problemi, anche a quelli che abbiamo creato con le nostre precedenti invenzioni. La nostalgia, invece, riguarda una supposta età dell’oro nella quale il nostro stile di vita non causava questo tipo di danni al pianeta. Ovviamente sono esistite, nella storia dell’umanità, società che avevano un minore impatto sull’ambiente. Ma fare riferimento a quelle società non serve. Non importa quale approccio avessero con il mondo attorno a esse, perché nessuno di quegli approcci costituisce per noi un piano utile. Il nostro problema è: come facciamo a ridurre una popolazione di otto miliardi di persone fino al punto in cui la presenza umana sulla Terra sia sostenibile? Ed è per questo che la nostalgia è pericolosa: perché occupa lo spazio della programmazione, che è l’unico che ci resta per costruire la nostra salvezza.

C’è una ragione, secondo te, per la quale di fronte a difficoltà non a caso definite apocalittiche mostriamo sempre la tendenza a guardarci indietro, a romanticizzare il passato?
Guardare al passato con nostalgia e al futuro con irrazionalità sono entrambi due istinti dell’essere umano. Stiamo affrontando l’apocalisse imminente guardando a un passato dorato che non è mai esistito e una futura utopia che non esisterà mai. Penso che entrambe queste tendenze, in questo momento, siano così pronunciate perché viviamo un’epoca in cui non esistono risposte facili e, in certi casi, non esiste nessuna risposta. È da tanto tempo che lo penso: ci sono problemi che resteranno insoluti, se pensiamo che la soluzione preveda il mantenimento dell’attuale stato delle cose.

La tesi più importante e anche più inquietante del libro è che tutti i nostri problemi derivino dal fatto che otto miliardi di esseri umani sono troppi.
È la cosa più importante da discutere e anche quella che ha meno possibilità di essere discussa. La questione del cosiddetto controllo della popolazione in passato è spesso stata associata a razzismo e politiche contro gli immigrati, quindi molte persone non vogliono nemmeno avvicinarsi a questi discorsi. Inoltre, c’è un problema di tempo. Abbiamo una finestra di tempo ampia al massimo pochi decenni. E in questa finestra di tempo non abbiamo idea di come fare a ridurre la popolazione fino a un livello che sia sostenibile.

Non ne abbiamo idea forse perché la definizione stessa di “controllo della popolazione” ci fa venire in mente immagini di stermini di massa e regimi dittatoriali.
Il controllo della popolazione non è questo. Un esempio: sappiamo che favorire l’istruzione e il miglioramento delle condizioni socio-economiche delle donne porta a una riduzione della natalità. Ma questo è un processo lungo e lento, che non sappiamo come rendere più veloce. Inoltre, nell’equazione della popolazione non entra solo la variabile della natalità ma anche quella della mortalità. Attraverso la tecnologia abbiamo allungato di moltissimo la durata della vita umana. E quindi, come possiamo portare avanti un dibattito sul controllo della popolazione senza parlare di come, nei Paesi ricchi, prolunghiamo la vita umana attraverso tecnologie sempre più avanzate? Queste sono tutte domande alle quali nessuno, comprensibilmente, vuole dare una risposta. Oggi ci troviamo costretti ad affrontare due sfide senza precedenti da che la vita si è manifestata sulla Terra. La prima: siamo la prima specie nella storia del pianeta a doversi autoimporre limiti al consumo di energia e di materie prime. La seconda sfida: dobbiamo trascendere la nostra natura di “animali locali” e cominciare a pensare davvero in senso globale. Questo vuol dire agire con la consapevolezza di appartenere a una specie che conta otto miliardi di esemplari. Non sappiamo come si fa, non possediamo gli istinti necessari. La nostra professione di coscienza globale è soltanto un artificio retorico. Non è facile farne una pratica, figuriamoci un automatismo. Non perché siamo cattivi, ma perché siamo creature con una precisa pulsione e storia evolutiva.

Ma spiegare certe cose con la natura umana non porta al rischio di deresponsabilizzazione? Le crisi che viviamo hanno colpevoli noti e questi hanno colpe precise.
Se vogliamo salvarci, dobbiamo smetterla di concentrarci sulla distribuzione della colpa, che mi sembra la parte più grossa dell’attuale dibattito pubblico. Le soluzioni non verranno dalle condanne, nella nostra situazione i giudizi morali, per quanto rilevanti dal punto di vista individuale, non aggiungono nulla allo sforzo collettivo che dovremmo fare. Mi spiego e ti faccio un esempio. Quando si discute di povertà, a destra si tende a colpevolizzare l’individuo e a sinistra si risponde che la causa della povertà non sono i comportamenti individuali ma le storture sistemiche. Sono d’accordo. Ma se questo è un modello valido, dobbiamo accettare anche il fatto che non ha senso attribuire le responsabilità dell’apocalisse tutte ai Ceo delle grandi aziende. La verità è che tutto ha a che vedere con la natura umana. E la natura umana, come la natura di tutti gli organismi viventi, segue un principio che in ecologia si chiama “maximum power principle”. Wes pensa che la migliore definizione di “vita” sia «la lotta per accaparrarsi quanto più carbonio ricco di energia possibile». E noi esseri umani siamo diventati incredibilmente capaci in questa forma di lotta. È parte della nostra natura, quella che nel libro chiamiamo “human carbon nature”. Non solo natura umana. Dobbiamo riconoscere che siamo animali, che la nostra base organica è il carbonio e che come tutte le forme di vita basate sul carbonio partecipiamo a quella lotta di cui parla Wes. E una volta acquisita questa consapevolezza, è inevitabile smettere di ridurre le disfunzioni della società alle colpe dell’individuo e cominciare ad attribuirle a ciò che tutti condividiamo: la nostra natura.


Pensi quindi che il capitalismo non sia il problema, non sia la causa e la spiegazione della crisi che stiamo vivendo?
Il capitalismo è un problema. Non è il problema. Molti pensano che se riuscissimo a trascendere il capitalismo, eviteremmo le apocalissi che verranno. Penso sia una stupidaggine. Non solo un’ingenuità ma proprio una stupidaggine. Leggendo Wes Jackson ho imparato a individuare il punto nella storia dell’umanità in cui gli esseri umani hanno cominciato a spendere il capitale ecologico del pianeta. E quel punto non è l’affermazione del capitalismo, è l’invenzione dell’agricoltura. La frattura tra noi e la natura si apre lì. La cosa più spaventosa della nostra epoca è che ci è toccato affrontare le conseguenze di un problema che ci trasciniamo dietro da diecimila anni. Ora però mi sono dimenticato la domanda che mi avevi fatto.

Dicevamo del capitalismo.
Non credo esista un futuro per l’umanità nel sistema capitalistico. L’imperativo di crescita è entrato ormai in contrasto con il futuro della specie umana. Dobbiamo superarlo. Sono d’accordo con il fatto che socialismo, comunismo e fascismo siano tutte risposte inadeguate. Dobbiamo pensare in modi nuovi e questo richiede, come dicevo prima, pensare sistemi nuovi che tengano in considerazione la nostra human carbon nature.

Il modo nuovo di pensare che sembrate suggerire nel libro è una sorta di decrescita infelice. È questa la conclusione alla quale sei arrivato?
Sono trent’anni che penso a queste cose. Per ventisei ho fatto il professore universitario. Sono andato in pensione e mi sono trasferito da una città, Austin, in Texas, alla campagna, in una casa molto vecchia che ha spesso bisogno di manutenzione. Da quando vivo qui ho avuto per tre volte dei problemi con le tubature dell’acqua che mi hanno costretto a scavare delle buche. Erano buche grosse, ogni volta mi ci sono volute tra le cinque e le sette ore di lavoro. L’ho trovato un lavoro difficile e appagante. Ed è vero, è così. Ma è anche vero che se scavassi buche tutti i giorni, per otto o dieci ore al giorno, farlo non mi sembrerebbe così romantico. In quello che Wes ha definito «il mondo in spegnimento», tutti dovremo scavare buche, molte e spesso, per provare a mantenere in funzione le strutture industriali finché sarà possibile. Se questo è davvero quello che succederà, la cosa più importante alla quale dovremmo pensare, e alla quale non stiamo pensando, è come dividerci il lavoro. Perché un mondo in cui si consuma meno energia è un mondo in cui gli esseri umani fanno più lavoro fisico. E il lavoro è pesante ed è reso meno pesante solo dalla condivisione.

Quindi è questa la tua versione dell’apocalisse?
Quello che ti ho descritto è il mondo che vorrei vedere. In un certo senso, il mondo che vorrei vedere è uno in cui la mia vita precedente, la mia vita agiata da professore universitario, sarebbe impossibile. Penso davvero questo sia il futuro: un mondo in spegnimento, sostenuto dalla volontà di condividere il lavoro necessario. Lo costruiremo? Non lo so. Ma so che è necessario smetterla di usare alcuni slogan. Penso a “less is more”, parole che stanno a significare che se useremo una quantità minore di petrolio, carbone, gas, avremo in cambio una quantità maggiore delle cose importanti davvero: senso di appartenenza, affetto, amore. Non andrà così. Il punto è che “less is less”, ma va bene così. Meno energia vuol dire meno macchine in funzione e più lavoro per noi. Ma va bene così, se ci dividiamo il lavoro. E torniamo a una questione discussa prima: come realizziamo questa divisione a livello globale?

Come?
Questa è una di quelle domande che Wes definisce «al di là delle risposte disponibili».

Quella che descrivi però non sembra l’apocalisse. Almeno, non sembra l’apocalisse per come ci siamo abituati a pensarla dai testi delle religioni o da quelli della cultura pop.
La parola greca apokálypsis e quella latina revelatio significano “disvelamento”. Nella cultura popolare la parola è diventata sinonimo di fine del mondo, ma in realtà indica l’acquisizione di una nuova consapevolezza sulle cose del mondo. Se arriveremo a questa consapevolezza, avremo la possibilità di costruirci un futuro. Dovremo affrontare la fine, certo. Non del mondo, del pianeta o dell’umanità. Ma la fine dei sistemi: la fine del capitalismo, degli Stati-nazione. Passeranno, come sono passati tutti gli altri sistemi di attribuzione e distribuzione del potere. Il punto è: ci prepareremo a questo futuro facendo tutta la razionale pianificazione possibile, per far sì che sia il più “umano” possibile?

Perché avete scelto di definire l’apocalisse “inconvenient”, scomoda?
Ti ricordi il film Una scomoda verità (An Inconvenient Truth, nda) di Al Gore? Il titolo del nostro libro è ovviamente una citazione. Ma non era il titolo iniziale che io e Wes avevamo scelto. All’inizio volevamo chiamare il libro come una canzone di John Gorka, “The Old Future is Gone”, il vecchio futuro non esiste più.