Attualità

Casistica degli amori finiti

Da sempre abbandono e letteratura esercitano uno sull'altra una forza di gravitazione reciproca. Un censimento di episodi tra racconti e romanzi che mostra la variegata casistica della separazione.

di Gabriele Di Fronzo

Le storie come Sylvia di Leonard Michaels sono scatole nere di amori precipitati. Relazioni finite, separazioni mai consensuali, addii. Sentimenti ormai non più corrisposti. E sono le ennesime conferme che i libri, meglio di qualunque altro luogo al mondo, persino meglio di cimiteri e studi di avvocati divorzisti, ospitano l’abbandono. E gli abbandoni, preferendoli a qualunque altra cosa, scelgono i libri per finirci dentro. Si tratta di una fascinazione reciproca, una forza di gravitazione che va da una parte all’altra e viceversa. È probabile che capiti perché gli addii, sentendosi ovunque in esilio, cercano ed esigono rifugio nella letteratura; da parte loro, i racconti e i romanzi ospitano gli amanti separati meglio del divano del migliore amico. Si direbbe che sia nella privazione, nella distanza tra i corpi e non nella coincidenza, nella scomparsa, che lo scrittore trova lo spazio più adeguato per insediarsi. Lì le storie s’inquattano.

C’è chi sconta il dolore da fermo, alla stregua delle bestie che non si muovono dal luogo in cui sono state ferite, come la coppia di coniugi in Stagione di divorzio di John Cheever, che pure oramai a mollo nell’insoddisfazione, soprattutto lei, Ethel, perseverano nel matrimonio; e c’è al contrario chi prende e va via il più lontano che gli sia possibile. A tirar dietro a questi episodi letterari si può arrischiare un censimento di quel che capita durante e dopo la caduta, e dei mille e uno tentativi di rimanere in salute nonostante si sia appena finiti da soli. Perché, come fa dire a un suo personaggio Richard Ford in Canada, e come poi quasi con le stesse parole ribadirà a Livia Manera Sambuy: «Una cosa che so è che nella vita la tua possibilità di sopravvivere dipende da quanto riesci a sopportare la perdita».

Certi personaggi ne sono assottigliati, piccoli edifici spazzati via dal vento, mentre altri, al contrario, hanno messo su i muscoli e hanno saputo tirare avanti infischiarsene delle ferite. Tra chi ha patito di più a farsi tornare il coraggio c’è la donna de Il bufalo di Clarice Lispector: lei «che sapeva solo perdonare, che aveva imparato soltanto a possedere la dolcezza dell’infelicità, che aveva imparato solo ad amare, amare, amore» e ora è talmente malandata e infiacchita dall’essere stata lasciata, che va allo zoo «a cercare la carneficina», a «imparare a odiare per non morire d’amore», a lezione da scimmie, elefanti, cammelli a domandar loro come «andare fino in fondo al suo dolore». Qualcuno è vivo, dunque, parecchio acciaccato come il protagonista di A guardarmi non si direbbe di Tiziano Scarpa che lasciato dalla sua Teresa si è «voltolato nel trugolo della tristezza» e poi ha iniziato a buttarsi degli strapiombi in Cile, ma c’è anche chi ne è morto. Nei racconti di storie di amori infelici ammiriamo, spaventati, l’alone dove prima c’era la persona amata, e saremo noi a custodirne la lacuna che fa così soffrire, e a dedicare a ciascuna rottura un cono di luce, come è giusto, come merita.

A François Truffaut, che gli chiedeva se i sogni che faceva gli servissero a qualcosa, Alfred Hitchcock raccontò della sola volta che si fosse alzato nel bel mezzo della notte, convinto che il sogno appena fatto contenesse un’idea buona per un film: si tirò su dal letto, prese l’appunto sul quadernetto che per l’evenienza teneva sul comodino e si riaddormentò. Era da diverse notti che aveva approntato il quadernetto per questa finalità, ma fino a quella volta ancora niente. Al risveglio quel che vi trovò scritto fu BOY MEETS GIRL. Ora, l’innesco che battezza invece alcuni racconti è il suo contrario o disgraziatamente, il suo progredire, il deperimento: BOY LEAVES GIRL, e viceversa.

Childrens' Artwork Reflects Thoughts On 9-11 La letteratura racconta le assenze, fiorisce nei lasciti, centimetro a centimetro esegue il distacco tra gli amanti e, una volta che l’ha inscenato, magari lo saggia facendolo reagire con le unioni attorno. In ciascuna storia è possibile segnare a dito cosa c’è appena prima e cosa dopo l’addio, che succede quando siamo abbandonati, quanto si perde nel corso di una vita adulta. Ed è un’occasione mica da poco visto che, come dice il narratore de L’uomo che cade di Don DeLillo, da un certo istante in avanti «tutto è all’insegna della perdita». Oltre a conoscere le più diverse soluzioni che ci si dà per tirare avanti. Perché ciascun personaggio, qualcuno d’istinto, altri in maniera più programmatica, inventa un suo personale escamotage per salvarsi le penne. «Come può un rapporto d’amore trasformarsi in una tortura, in un disgusto perpetuo, nel desiderio di morire piuttosto di allungare di un giorno solo la serie di inganni, litigi, insulti, sofferenze?», si chiede senza darsi risposta L’uomo che bruciò un’isola per amore di Edoardo Albinati.

Alla portata di ogni lettore c’è un ingannevole tentativo di tassonomia. L’imbroglio sta nel fatto che non è possibile censire le sfumature delle separazioni come non è consentito a essere umano farlo con l’amore. La coloristica degli abbandoni è troppo varia. C’è il primo bacio mai dato del racconto Oltre i tetti di Kevin Barry, in cui due ragazzi tra cui è palese sia scoppiato l’amore trascorrono insieme l’intera notte finché lei se ne va via lentamente, così che lui si rende conto «di che cosa mi stavo perdendo». E all’estremo opposto c’è Verena Kuster, La vecchia vanesia di Fleur Jaeggy, che il giorno delle loro nozze d’oro spinge giù dalla finestra il marito Kurt, perché «tutto si guasta, aveva pensato, anche il suo matrimonio felice». Le forme dell’addio a volte sono lampi, altre pulviscolari, a volte trovano la loro ambientazione nel salotto di casa, altre sdraiati a terra in camera da letto: sempre tramortiscono, sempre ne faremmo a meno.

Il termine abbandono deriva dal francese medioevale “à ban donner”, mettere a disposizione di chicchessia, lasciare ad altri che non siamo noi. Che sia in agguato o che arrivi a bruciapelo senza annunciarsi, si è abbandonati e si abbandona di continuo. L’abbandono è subìto o perpetuato, è a volte irriducibile nella stessa misura in cui altre volte è arbitrario. I legami si ossidano, si slabbrano per scarsa assiduità, logorati per consunzione, come avviene ai due amanti di Pazienza, Primavera di Goffredo Parise, che si danno appuntamento «sotto una piccola pensilina» per metter fine a «un brodo troppo lungo», ma poi infine forse convengono che «tutti gli esseri viventi sono abitudinari» e quindi non sarà neppure quello il loro ultimo giorno insieme. Inoculato a piccole dosi giornaliere, come un veleno fatto gocciare nelle pietanze così che il gusto cattivo non sia percepito, o avvistato come una tempesta in arrivo da cui cercare inutilmente riparo, come accade per il protagonista di Pasticcio di merli di Raymond Carver cui non basta neanche la lettera della moglie, scritta di suo pungo e passatagli sotto la porta, per fargli accettare l’idea di cosa stia accadendo. La separazione tra gli amanti ha circostanze variegate. E il presentimento non smussa il dolore, acutizza anzi l’angoscia. E neppure la reciprocità, in certe occasioni, è buona ad smussare i cuori. In uno dei racconti di Centuria, Giorgio Manganelli ci dice di un uomo e di una donna che, pur scoprendo assieme che «il loro folle amore era comunque cosa del passato» perché entrambi pressoché in contemporanea hanno smesso di essere innamorati, sono destinati a odiarsi per sempre da quando lei scopre che ci sono stati «venti minuti di differenza» da quando ha terminato il suo sentimento lui a quando l’ha terminato lei, un lasso di tempo in cui lei si è sentita abusata e naturalmente «coperta di oltraggio, calcolato e freddo».

Ai bambini, tra le prime cose che s’insegnano a scuola, ci sono i concetti di dentro e di fuori. All’asilo le maestre usano circonferenze, fanno colorare negli spazi, suggeriscono loro di stare bene attenti alle linee dei poligoni e di rimanerci dentro col pennarello rosso e di usare il blu per quel che c’è fuori. Ugualmente, agli adulti dovrebbero essere insegnato come sia lo stare dentro e lo stare fuori da una relazione. Il miglior modo di entrarci. Magari anche qui con i colori, che spesso aiutano a semplificare le cose più difficili da comprendere. Ma soprattutto se esiste il miglior modo per uscirne. Non ci sarebbero così donne come la protagonista de Il fiume di Julio Cortzár che trascorre le notti nel letto del suo uomo, ma minaccia continuamente di buttarsi nell’acqua della Senna, né esisterebbero uomini come quello di Comincia a far male di James Lasdun, che ogni giorno che dio manda in terra non sa da che parte stare, e la mattina del funerale della vecchia amante, si dimentica di scongelare il salmone come gli ha commissionato la moglie. C’entra l’inganno e c’entra la decenza. Da lettori, ammirando le gesta dispari dei personaggi di questi racconti, possiamo continuare a non imparare nulla al riguardo.

Strolling In Paris

Infatti, l’unico insegnamento che ci vien dato è che, a meno di non avere una vocazione particolarmente spiccata alla sofferenza, nessuno dovrebbe mai innamorarsi. Men che meno fidanzarsi. Non sia mai sposarsi. Ma c’è chi lo fa, sia la prima che la seconda che addirittura la terza cosa, perciò c’è chi malauguratamente lascia o è lasciato. Perché come per Paul Virilio l’invenzione della ferrovia è di per sé l’invenzione del deragliamento, l’invenzione della nave è quella del naufragio e quella dell’aereo è quella dello schianto al suolo, la scoperta dell’amore è di per sé la scoperta dell’abbandono.

I rimorsi; le zuccherine crudeltà femminili per cui «cosa importante è che, quando si lasciano alle spalle le tenere creature che non le lascerebbero mai, le donne abbiano qualcuno da lasciare, sempre che abbiano donato il loro cuore» (Nel rifugio di animali, di Amy Hempel); il cinismo di chi calcola tutto per svilire, «il biglietto costava 600 dollari e dopo di ciò altri per l’albergo, per il cibo eccetera, per soltanto dieci giorni. Diciamo 80 dollari al giorno, no, più vicino ai 100 dollari. E facevamo l’amore, diciamo, in media una volta al giorno. 100 dollari al colpo. E ogni volta durava forse due o tre ore, così stavamo intorno ai 33 dollari o 50 dollari all’ora, che è costoso» (Pezzo e pezzo, Lydia Davis); il tradimento fin lì occultato e ora platealmente rinfacciato: come esistevano fino a quel momento le conseguenze dello stare assieme, ora ci saranno le tristi ripercussioni dell’essersi separati. Il collasso e il coraggio, la rassegnazione e l’avvilimento, la rabbia. L’ostinazione con la quale si continua a cercare. Il decorso per quella che è una versione noiosa di una malattia, come forse qualcuno l’ha definita. A volte chi lascia lo fa come chi spinge un bicchiere e con soddisfazione l’osserva cadere in frantumi. Dice a sé stesso: ci sono ancora e ne sfido le conseguenze. Altri rimangono in coppia per la ragione identica, con l’illusione di esistere ancora, temono che senza quella persona, scomparirebbero.

La moglie di non so più chi ripeteva che il segreto dell’amore tra lei e suo marito risiedeva in chi dei due avrebbe saputo resistere più a lungo. In questa breve casistica degli amori letterari nessuno resiste, men che meno per sempre. Qui tutti lasciano tutti, anche quando rimangono assieme.

 

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