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18:45 venerdì 14 novembre 2025
In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.
Rosalía ha condiviso su Instagram un meme buongiornissimo in cui ci sono lei e Valeria Marini  Cielo azzurro, nuvole, candele, tazza di caffè, Rosalia suora e Valeria Marini estasiata: «Non sono una santa, però sono blessed», si legge nel meme.
Hideo Kojima si è “giustificato” per la sua foto al Lucca Comics con Zerocalcare dicendo che l’ha fatta senza sapere chi fosse Zerocalcare Non c’era alcuna «intenzione di esprimere sostegno a nessuna opinione o posizione» da parte di Kojima, si legge nel comunicato stampa della Kojima Productions.
Anche Charli XCX si è messa a scrivere su Substack Il suo primo post si intitola "Running on the spot of a dream" e parla di blocco della scrittrice/musicista/artista.
A poche ore dalla vittoria al Booker Prize è stato annunciato che Nella carne di David Szalay diventerà un film Ad acquisire i diritti di trasposizione del romanzo sono stati i produttori di Conclave, noti per il loro fiuto in fatto di adattamenti letterari.
Il nuovo film di Tom Ford è già uno dei più attesi del 2026, per tantissime e buonissime ragioni Un progetto che sembra quasi troppo bello per essere vero: l'adattamento di uno dei più amati romanzi di Ann Rice, un cast incredibile, Adele che fa l'esordio da attrice.
Nel primo teaser del Diavolo veste Prada 2 si vede già la reunion di Miranda e Andy Le protagoniste salgono insieme sull’ascensore che porta alla redazione di Runway, riprendendo una scena cult del film originale.

L’eterno ritorno di Amanda Knox

Per sottolineare l'assurdità del processo mediatico che li ha coinvolti, il doc Netflix costringe Knox e Sollecito a rimettere panni che vogliono abbandonare.

02 Ottobre 2016

«Amanda Kànox». Nel primo pomeriggio del 2 novembre 2007 una pattuglia dei carabinieri di Perugia, tra le prime persone a entrare villetta di via della Pergola affacciata sulla valle sottostante dopo l’omicidio di Meredith Kercher, si mette in comunicazione con la centrale; e, la prima volta in cui viene pronunciato, il nome di Amanda Knox è sbagliato: «Il richiedente», per restare al vocabolario del carabiniere, avrebbe potuto chiamarsi in qualunque altro modo, d’altronde. Era così importante? Ad ormai quasi dieci anni – e quattro sentenze – di distanza da quel giorno conosciamo la risposta, perché in quelle quattro lettere c’è un rimando a un caso, a una storia, a una discussione, forse in qualche senso a un modo di essere.

Amanda Knox, il documentario girato dai registi Rod Blackhurst e Brian McGinn per Netflix e da ieri disponibile sul servizio di streaming, inizia proprio con le prime immagini riprese nella villetta, una delle tante villette dell’iconografia criminale italiana: c’è la finestra rotta, ci sono le macchie di sangue; c’è un piede di Meredith che esce da una coperta con cui è stata frettolosamente coperta. I protagonisti chiamati a raccontare l’assassinio perugino si stagliano freddi su un fondo grigio cenere, in alcune scene rimangono in silenzio a fissare lo spettatore, talvolta parlano per metafore: Amanda Knox oggi ha 29 anni, forse ne dimostra qualcuno in più, di certo è bella, e tra le prime cose che dice, afferma: «O sono una psicopatica camuffata da agnellino, oppure sono te», come a dire che la sua innocenza sarebbe – è – un problema per tutti.

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C’è anche Raffaele Sollecito, l’altro grande protagonista della vicenda di cui un anno fa era uscito un non entusiasmante memoir per Longanesi, che racconta (di nuovo) la sua breve e sfortunatissima storia con Amanda, e (di nuovo) dà la sua versione dei fatti accaduti la sera della morte di Meredith Kercher e nella questura del capoluogo umbro nei giorni seguenti. Parla in inglese, senza riuscirci sempre bene. Il personaggio più interessante è parso Giuliano Mignini, il magistrato portabandiera dell’accusa la cui parlata roca rivela un’oratoria da grande narratore italiano. Il Gassman inquirente ricostruisce le sue intuizioni, rimarca sedicenti indizi di colpevolezza che la Cassazione un anno fa ha invece definito «carenze investigative scioccanti», parla della sua fede cattolica e si fa riprendere in un lungo piano sequenza mentre prega in chiesa, o mentre percorre Perugia – «la mia piccola patria» che dopo la condanna era orgogliosa di lui, sostiene – in automobile.

Fino alla fine del documentario il volto più detestabile è al di là di ogni dubbio Nick Pisa, il giornalista del Daily Mail in prima linea a Perugia fin dall’inizio delle indagini, l’uomo che ha ribattezzato Knox “Foxy Knoxy” e messo per primo le mani sui diari scritti dalla ragazza di Seattle in prigione (primato di cui non manca di vantarsi nel film), producendo più articoli sulla vicenda di qualunque altro reporter del mondo. Come lo stesso Pisa ha modo di dire guardando in camera:

A murder always gets people going . . . [a body is found] semi-naked, blood everywhere. What more do you want? All that’s missing is the Pope!

Amanda Knox, filmato nel corso di cinque anni, è stato accolto in modo tutt’altro che unanime: per il Guardian è «affascinante ma difettoso», perché, spiega il quotidiano, Blackhurst e McGinn avrebbero potuto rimestare più a fondo nel torbido delle negligenze delle autorità italiane, «facendo di quello il focus del loro film» (tradotto: fate Making a Murderer, non avete visto quanto funziona?). Sul New York Times, invece, Jeanette Catsoulis ha definito il documentario «una riconsiderazione del caso rivista con fermezza, strutturata in modo coerente ed essenzialmente commovente». Per il Wall Street Journal, «perora la causa dell’innocenza della Knox in maniera ineccepibile».

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In realtà i 90 minuti di Amanda Knox sono imparziali, non aggiungono nulla all’enorme corpus di materiale relativo al caso, e hanno più l’aspetto di singoli ritratti delle persone coinvolte nell’omicidio di via della Pergola che di una tesi coerente e consapevole (anche se il sottotesto della persecuzione mediatica subita dalla Knox rimane sempre tangibile). Parlando al magazine People, i due registi hanno dichiarato: «Le persone al centro di questa storia erano state rese titoli di giornale volgari e divertenti, e altre cose che stavano velocemente diventando giornalismo; noi volevamo capire chi fossero davvero come individui, e cosa significava per ognuno di loro essere stato coinvolto in questi eventi».

Sollecito l’altro giorno ha detto a Bbc Newsnight di voler tentare di «ricostruire la sua immagine» come passo necessario per dedicarsi a una nuova vita, lasciandosi tutto ciò che è stato alle spalle. La sua fidanzata dell’autunno di quasi dieci anni fa, Amanda, oggi è un’attivista per i diritti delle vittime degli errori della giustizia. L’ho fatto per spiegare cosa significa essere condannati ingiustamente, ha risposto a Good Morning America a chi gli chiedeva perché stava per tornare sotto ai riflettori, anni dopo il momento in cui milioni di persone nel mondo all’improvviso sapevano con quante persone era andata a letto. Amanda Knox, il documentario, vuole puntare il dito sull’assurda demonizzazione di almeno due persone, sulle loro vite svelate e distrutte, su chi ha deciso di sacrificarle per “lo scoop” («è come fare sesso», dice a un certo punto il mefistofelico reporter del Daily Mail). Ma per farlo rimanda in scena Knox e Sollecito nei panni della coppia forse perversa e forse omicida del 2007, il ruolo pubblico a cui quei due trentenni vorrebbero dire addio.

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