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Akira è ancora il film d’animazione più importante di sempre

A 35 anni dalla prima uscita nelle sale torna al cinema il capolavoro di Katsuhiro Otomo, un film che ha influenzato generazioni di artisti in tutto il mondo e che ha contribuito a fare degli anime il fenomeno globale che conosciamo oggi.

di Francesco Gerardi

Tutte le persone che hanno lavorato ad Akira descrivono quel periodo della loro vita con lo stesso aggettivo: doloroso. Nella mitologia del cinema, la realizzazione di Akira è stata per l’animazione l’impresa matta e disperatissima che Apocalypse Now di Coppola è stato per il cinema live action: non a caso, nel 1980 l’Asahi Shimbun diceva che Katsuhiro Otomo, all’epoca soltanto fumettista, stava facendo per il manga giapponese quello che i registi della Nuova Hollywood avevano fatto per il cinema americano. Per gli appassionati di animazione, la grandezza di Akira sta nei numeri: 124 minuti di durata, moltiplicati per 150 mila rodovetri – i fogli trasparenti di cellulosa sui quali vengono prima disegnati e poi colorati i fotogrammi che compongono l’immagine, sia essa statica o di movimento – disegnati e dipinti tutti quanti a mano da 68 diversi animatori, 2214 inquadrature, 327 colori diversi, 50 dei quali furono creati appositamente per il film (tra questi il più noto è il Rosso Akira, codice Hex #e12120). Lavorare a questo film fu un’esperienza estenuante per tutti quelli che ci parteciparono, anche perché il regista Katsuhiro Otomo è un uomo noto nell’industria dei manga e degli anime per la mania di controllo: le cose vanno esattamente come vuole lui, anche quando vuole fare cose che non hanno senso per nessun altro.

È questa mania di controllo che gli ha fatto rifiutare tutti gli sceneggiatori che gli erano stati proposti per l’adattamento cinematografico del suo Akira fumettistico. Ed è sempre questa mania di controllo che lo ha portato a girare un film d’animazione “al contrario” rispetto agli usi e costumi dell’epoca. Per qualche ragione, infatti, Otomo decise che la prima cosa da sistemare era la colonna sonora: prima ancora che del film esistesse una sceneggiatura, c’era già una Ost completa e registrata, un creolo mai sentito prima che univa gamelan indonesiano e noh giapponese, firmato da Geinoh Yamashirogumi. Dopo la colonna sonora, Otomo decise che era il momento dei dialoghi: i suoi collaboratori a questo punto iniziarono a pensare che non stesse riuscendo a finire di scrivere la sceneggiatura e che queste fossero le scappatoie di un uomo in ritardo sui tempi di consegna. Tradizionalmente, infatti, i dialoghi di un film d’animazione venivano registrati alla fine, quando il film era ormai completato. Otomo decise di fare diversamente, una scelta le cui ragioni spiegherà poi agli animatori: sapete tutte le parole che i personaggi pronunciano e sapete esattamente quando le pronunciano, potete quindi disegnare i movimenti delle loro bocche di conseguenza, disse ai suoi sconvolti collaboratori il giorno in cui si cominciò a disegnare l’Akira cinematografico. Oggi è scontato che in un film di animazione a parola che si pronuncia corrisponda bocca che si muove: lo è grazie alla mania di controllo di Otomo.

Akira usciva nelle sale cinematografiche giapponesi nel 1988, trentacinque anni fa. Ancora oggi, il film è il gold standard dell’animazione giapponese e mondiale, una bandierina solitaria e sgargiante posta in cima alla montagna di questo modo di fare cinema. Akira è un film capace di rendere più piccola – troppo piccola – qualsiasi superficie sulla quale lo si proietti. Ogni immagine dà l’impressione di contenere dettagli in eccesso, minuzie che sfuggono alla percezione iniziale e invitano l’occhio a vagare attorno alla scena, alla ricerca di una luce in lontananza o di un movimento sullo sfondo. E di movimenti Akira è pieno. Prima si diceva degli animatori che hanno disegnato a mano ogni frame del film: in realtà, 68 sono solo i key animator scelti da Otomo, i disegnatori che si occupano di disegnare le “parti fondamentali” dei movimenti che poi vediamo svolgersi sullo schermo. Tra quelle “parti fondamentali” esistono i cosiddetti “in between”, disegni connettivi, meno importanti e più numerosi, che però determinano fluidità, completezza e naturalezza del movimento stesso. Di questi disegni si occupano degli specialisti chiamati inbetweener: nessuno sa esattamente quanti ne siano stati impiegati nella realizzazione di Akira, ma è a loro che si deve la sensazione unica che si prova guardando questo film, quella di personaggi che si muovono in uno spazio a metà tra il 2D disegnato a mano e il 3D generato al computer, con una densità e uno spessore che in certi momenti fa pensare stiano uscendo dallo schermo per materializzarsi nella realtà.

Ovviamente, il film fu un’operazione costosissima: la leggendaria Akira committee, alla fine, si ritrovò fatture da pagare per dieci milioni di dollari, una cifra assurda per l’epoca, un conto salatissimo che per anni ha fatto di Akira il film d’animazione più costoso di sempre. È alla necessità di rientrare delle spese che dobbiamo l’arrivo del film nelle sale occidentali: gli incassi del botteghino giapponese non sarebbero mai bastati a pagare quelle fatture. La leggenda vuole che le prime scelte di Otomo per la distribuzione in Occidente fossero Steven Spielberg e George Lucas, che però rifiutarono l’offerta perché convinti che il film non fosse adatto per i gusti cinematografici degli americani dell’epoca. Otomo non si arrese, capì che la distribuzione nelle sale – dalla quale però, alla fine, riuscì comunque a incassare 49 milioni di dollari in tutto il mondo – non era l’unica strada e capì che il vhs era la via più breve per l’Europa e l’America. Fu un successo senza precedenti nella storia dell’animazione, il coming of age di un cinema fino a quel momento considerato un giocattolo per bambini. Da una recensione di Roger Ebert: «Guardarlo significa capire che l’animazione non si limita ad animaletti carini e tazzine ballerine. Essa libera l’immaginazione in modi che potenziano qualsiasi storia e può mostrare cose che non possono esistere nel mondo reale». Akira è stato poi inserito nella Criterion Collection, il primo film d’animazione a ricevere questo riconoscimento. Forse questo successo occidentale era destino: se è vero che Akira è un prodotto quintessenzialmente giapponese – l’influenza di Tezuka, le gang di teppisti, le paranoie atomiche post-belliche, l’esasperazione dell’amicizia maschile – è anche vero che Otomo ha sempre detto che l’Occidente ha enormemente influenzato gli anni della sua formazione artistica, fatti di rewatch ossessivi di Bonnie e ClydeGioventù bruciata e Easy Rider.

Ma il successo del film sta anche in una miriade di riconoscimenti ulteriori, non misurabili né in introiti né in recensioni. Se Akira non ci fosse stato, non avremmo avuto Matrix e tutto quello che da esso è venuto. Se Akira non ci fosse stato, probabilmente non avremmo avuto neanche il Kanye West di cui oggi sentiamo tutti la mancanza, quello del video di “Stronger” (praticamente il suo remake del film, per il quale si fece realizzare anche una riproduzione della moto di Kaneda) e quello vestito di Akira Red che presentava Donda. Se Akira non ci fosse stato, i manga e gli anime non sarebbero diventati il fenomeno pop globale che conosciamo oggi. Se Akira non ci fosse stato, non avremmo un’estetica che oggi vediamo anche al di fuori degli schermi grandi e piccoli. Prima che le collaborazioni e le capsule collection a tema fossero la norma, infatti, nel 2017 Supreme faceva uscire una delle prime linee di prodotto ispirate al mondo dell’animazione giapponese: Supreme X Akira, ovviamente tutto in rosso, quel rosso. Se Akira non ci fosse stato, oggi non avremmo buona parte dell’immaginario fantascientifico, post-apocalittico, distopico. Quando chiedono a Otomo se è consapevole di aver cambiato per sempre un genere narrativo e un mezzo di comunicazione di massa, lui risponde come solo un uomo affetto da gravi manie di controllo può rispondere: «Non lo so. Io so solo che quando ero ragazzino nessuno faceva la fantascienza che piaceva a me. E quindi decisi che l’avrei fatta io».