Cultura | Dal numero

Degli adolescenti abbiamo sempre avuto paura

A ogni nuova generazione viene affibbiato il titolo di "peggiore di sempre", ma la storia, dagli hooligan ai maranza, ci dice che i giovani hanno sempre fatto la stessa cosa: far preoccupare la società.

di Davide Coppo

I ragazzi fanno casino. Lo fanno da decenni, lo fanno da secoli, e c’è sempre qualcuno che si preoccupa e pensa che il casino è troppo, e bisogna correggerli, questi ragazzi. Vivere a Milano negli anni successivi alla pandemia significa essere in contatto costante con una narrazione di terrore che, pure alle mie orecchie di trentasettenne, risulta tremendamente ottocentesca: la vox populi, non supportata da alcuna statistica, racconta di bande di giovani che imperversano per le strade, mettono in pericolo la sicurezza dei cittadini, per non parlare del decoro urbano. Quel che è peggio: sono in tanti e in molti non perfettamente bianchi. Sappiamo che la morale, di per sé, è un elemento conservatore. Il fatto che la nuova forma delle “baby gang” di cui la città è terrorizzata sia composta, spesso, da adolescenti di seconda generazione provenienti da genitori nordafricani rende il pericolo ancora più affilato, nella percezione generale. Mi sembra che facciamo ancora molta fatica, come società, a guardare all’adolescenza senza sospetto. Ci disturba forse tutto questo tempo libero, queste ore senza necessità impellenti, questa libertà così ampia e spaventosa. La invidiamo? Viviamo di un tempo iper-scandito, regolato nelle divisioni temporali e funzionali come un foglio Excel. C’è il tempo del lavoro, il tempo delle vacanze, e anche il tempo libero non è veramente libero: è il tempo dello sport, il tempo della mondanità, il tempo dello shopping, insomma, il tempo del consumo. Il problema di che fare con queste bande di adolescenti inoccupati titilla terrori, come dicevo, vecchi più di un secolo. Inizia tutto, più o meno, con l’avvento della società industriale. Da questo cambiamento di stato delle nazioni e delle loro economie ci siamo trovati tra le mani diversi frutti che non avevamo mai visto prima, e che tuttora non sappiamo bene come gestire: il capitalismo, il socialismo, la globalizzazione, e i giovani.

Nella società pre-industriale il lavoro non è regolamentato: è tutto. Non ci sono distinzioni tra tempo del lavoro e tempo libero dal lavoro, perché si lavora per vivere in qualsiasi ora, in qualsiasi modo, in qualsiasi età. Specialmente tra le classi artigiane e contadine, i bambini iniziano il mestiere appena il fisico lo consente. Un anno sono infanti, un anno dopo sono lavoratori. Il loro stato non si evolve più, se non per i pochi anni da anziani malfermi che precedono la morte.

La regolamentazione del lavoro minorile, a inizio Ottocento, cambia tutto. Si inizia a fissare un’età minima per iniziare a essere impiegati, e soprattutto, dal 1850 in poi, arriva la scuola dell’obbligo. Infine, lo sviluppo della medicina riduce in modo straordinario la mortalità infantile, facendo esplodere la crescita demografica. Nel corso dell’Ottocento, soltanto in Europa, la popolazione passa da 180 a 430 milioni di persone. Improvvisamente, le strade delle metropoli occidentali sono piene di ragazzini: inoccupati, che non si possono mettere a lavorare, e che non sono più – chiaramente – dei bambini. Non si sa ancora come chiamarli, questi giovani uomini. Spesso, quando si organizzano tutti insieme in bande, fanno paura e casino. 

I maranza di oggi camminano sulla stessa strada di queste prime gang ottocentesche, sono il loro equivalente con le Air Max TN Plus. Allora, le bande si davano nomi locali come Fulham Boys, Pistol Gang, Drury Lane Boys e così via. Nel 1898 la stampa inglese le battezza come “hooligan”. Sono ragazzini che amano bere, ballare e fumare sigarette. Non hanno nessuna disciplina né preparazione specifica. Una classe di sfaccendati e incapaci che l’Inghilterra capisce davvero quando li arruola per combattere la guerra contro i Boeri: in alcuni quartieri poveri del Paese vengono esclusi fino a due terzi dei volontari. Governanti ed educatori iniziano a essere assillati da una serie di domande nuove: cosa farsene di questi ragazzi? Dove fargli passare il tempo? Come educarli al rispetto delle leggi e del decoro? Come prepararli – in modo legale – a diventare dei sudditi a modino? Ma prima di tutto bisogna definirli: una cosa dopotutto inizia a esistere davvero quando la si nomina per la prima volta. E a trovargli un nome ci pensa, nel 1898, lo psicologo genetico G. Stanley Hall. Si inventa una parola che è ancora oggi molto di moda: adolescenti.

La nascita di questa classe anagrafica come categoria sociale e, allo stesso tempo, problema di ordine pubblico e terrore dei benpensanti è raccontata con grande attenzione in un libro di Jon Savage uscito nel 2007 (nel 2009 in Italia, per Feltrinelli, tradotto da Giancarlo Carlotti): L’invenzione dei giovani. È qui che troviamo Hall che, nel libro Adolescence, annuncia: «L’adolescenza è qualcosa di più della pubertà e si estende su un periodo di dieci anni, dai dodici, quattordici fino ai ventuno, venticinque nelle ragazze e nei ragazzi rispettivamente, anche se il culmine si tocca a quindici o sedici». L’adolescenza, continua, è «un periodo di pulsioni sessuali» e «il periodo del massimo numero di arresti per reati». Pochi anni dopo la formalizzazione linguistica di Hall, in realtà, arriva un primo tentativo di correzione giovanile, ed è un tentativo che dura ancora oggi. Lo fa un certo Robert Stephen Smyth Baden-Powell: ex colonnello dell’Esercito britannico, che pensa di inventarsi una serie di gruppi locali per leggere libri d’avventura, imparare l’educazione, e soprattutto apprendere a usare delle tattiche di guerra. Crede sarebbero molto utili, per crescere. Nel 1908 pubblica il suo libro manifesto: Scouting for Boys

Se la retorica contro le devianze giovanili oggi è appannaggio delle destre, beh, lo era anche allora. Scrive Savage che «Scouting for Boys era intriso dell’etica imperiale del cristianesimo muscolare delle public school». Ancora: «La gente e i vestiti “dall’aspetto straniero” erano automaticamente sospetti (…). Baden-Powell riecheggiò le teorie della degenerazione in voga in quel periodo con le sue frequenti ingiunzioni contro il fumo, l’alcol, la masturbazione e gli scansafatiche». 

Arriveranno poi un paio di guerre mondiali, in cui gli adolescenti vengono trattati finalmente come ingranaggi funzionali alla macchina statale e bellica. I più fanatici sono i nazisti: la Hitlerjugend non soltanto è una parte fondamentale del regime, ma è a lei che il Reich affida l’ultima, folle difesa di Berlino. Quando, nel marzo 1945, gli Alleati superano il Reno a Ramagen, più di un quinto delle forze naziste che tentano inutilmente di difendere il fiume sono adolescenti. Savage scrive che «questi soldati bambini erano veri fanatici». Era quella chiamata al sacrificio estremo che andava dritta ai loro cuori: «E sapevano che era arrivata la loro ora, il momento in cui contavano sul serio e non erano più sottovalutati perché troppo giovani».

Ma la guerra la vince l’America, e il prototipo di giovanotto che si diffonde per l’Europa insieme alle truppe d’oltreoceano è il contrario di quello sognato dai tedeschi. Nel gennaio del 1945 il New York Times Magazine pubblica la “Carta dei diritti del teenager”, coniando così un nuovo modo di chiamarli, dopo l’invenzione di Hall. A differenza degli adolescenti, i teenager hanno un più spiccato carattere di consumatori: «Il consumismo offriva il perfetto contrappeso alle rivolte e alle sommosse». Nel 1944 nasce la rivista Seventeen, e sostiene che «i teenager di tutto il mondo hanno tanto in comune». La globalizzazione della giovinezza passa dai consumi, e qualcuno se ne preoccupa da subito: il New York Times scrive che «definire “teenager” i giovani, quindi non pronti per le faccende serie dell’età adulta, li invita a sprofondare nelle attività frivole della “cultura da teenager”». Schiacciamo il tasto “avanti veloce”, fino a oggi: i due termini sono diventati di uso comune, senza distinzioni. Le sottoculture hanno frammentato il panorama, creando talvolta gruppi rivali. La cultura pop – la musica, soprattutto – nasce, cresce e si nutre del mercato dell’adolescenza. Il consumismo si è rivelato un metodo straordinario per tenere sotto controllo i giovani. Ogni tanto, tuttavia, c’è un glitch nel sistema: i maranza, dalle periferie, vanno in centro per fare casino, formano bande contro il decoro. Ribelli senza una causa, come nel 1850, più o meno. La domanda più interessante, allora, è questa: è tutto ciclico e normale, o qualcosa, di nuovo, sta cambiando più a fondo?

Questo articolo è tratto dal nuovo numero di Rivista Studio, dedicato a “La minore età”, agli adolescenti e al loro mondo: lo trovate nel nostro store online, qui, e in edicola.