Adolescence fa male a tutti e ai genitori anche di più

Più che il disagio adolescenziale, la serie Netflix descrive l'impotenza e l'inadeguatezza di genitori e istituzioni di fronte a giovani magari vicini fisicamente, ma mentalmente più lontani che mai.

21 Marzo 2025

«Pensavamo che in quella cameretta fosse al sicuro», dice il padre del ragazzino di Adolescence (interpretato da Stephen Graham), e in effetti lo speriamo sempre anche noi, quando la porta della camera dei nostri figli è sprangata e loro sepolti in cuffie giganti e calati in piccoli schermi. Ma in realtà sappiamo benissimo che loro non sono semplicemente lì. E che quindi non possono essere al sicuro. Tutti parlano di Adolescence, la miniserie inglese ideata da Jack Thorne e dallo stesso Graham che insieme avevano già lavorato a un’altra serie inglesissima dai medesimi toni angoscianti, This is England. Quattro puntate, tutte ambientate in luoghi diversi (commissariato, scuola, casa), ma tutte girate in piano sequenza, senza montaggio e senza ellissi. Si inizia con una squadra di polizia che irrompe alle 6 del mattino a casa di una famiglia proletaria di un suburb coi fucili – «Ci dev’essere un errore» – e li punta addosso a Jamie, un tredicenne mingherlino e carino tutto addormentato nel letto con le lenzuola coi pianeti.

Tutta una brutta faccenda di manosfera

Jamie è accusato dell’omicidio di una coetanea. Ma la serie non si chiama killer, non si chiama murder, non si chiama monster: il titolo è adolescenza. E tutto il tempo stiamo male non tanto perché quel bambino forse ha ammazzato una compagna di scuola, ma perché l’orrore che ha dentro e l’impotenza dei suoi genitori di fronte alle sue scelte è la condanna quotidiana di tutti noi genitori di figli anche non assassini, magari solo svapatori o trapper. «Mio padre mi picchiava con la cintura», rimpiange Graham nella quarta puntata, «e io pensavo che avrei fatto meglio». A chi lo dici, Eddie, a chi lo dici.  

La polizia stampa in A4 le schermate del profilo Instagram dell’accusato e della vittima. Ma l’indagine è inceppata fino a quando il figlio bullizzato del poliziotto (lui è Ashley Walters) non gli dice: papà, tu non ci stai capendo un cazzo. Ogni emoji ha un significato nascosto. Questa è tutta una brutta faccenda di manosfera. La pillola rossa rappresenta il risveglio della cultura incel (ma, colpo di genio, il ragazzino non sa niente della pillola rossa di Matrix che ti avvicina alla verità, e vive immerso in una precisa semiotica svuotata però di qualsiasi riferimento culturale: il postmoderno è finito). Se svelo un po’ di roba è perché Adolescence non è affatto un giallo. Il modo degli agenti di brancolare nel buio di fronte ai codici della generazione Alpha non è l’escamotage narrativo per un mistero da risolvere, ma la rappresentazione del divario più incolmabile degli ultimi secoli di storia – e forse di sempre – tra due generazioni: la nostra e quella dei nativi digitali. 

Vittime sacrificali

«Hai buttato via i vestiti sporchi di sangue, ma non le sneakers perché costavano troppo», ci arriva come una fitta al petto, e pensiamo alle Nike TN, alle Airmax, alle Ugg arrivate a Natale pochi anni dopo trenini e dinosauri. Quelle lì sporche di fango buttate all’ingresso, quelle dei nostri figli che sono stati i primi della storia del mondo ad avere il telefonino e il profilo TikTok, Instagram, Snapchat a 11 anni: e forse anche gli ultimi, le vittime sacrificali delle più grande rivoluzione tecnologica di sempre, se il grande movimento consapevole di genitori degli ultimi anni sta ridiscutendo le condizioni di accesso dei minori ai dispositivi e alla rete, e persino le scuole nordeuropee ritirano i tablet dai banchi e tornano ai libri di carta. 

L’episodio girato a scuola, a proposito, è uno dei più devastanti: strisciando con la camera tra aule e cortili, Thorne ritrae il fallimento della missione educativa dell’istituzione scolastica, ma più che il fallimento si direbbe proprio la rinuncia, se gli insegnanti appaiono solerti solo nel sottrarsi alle proprie responsabilità; pronti a intervenire solo a posteriori e in maniera repressiva, per contenere non i danni ai ragazzi, ma a loro stessi e alla loro immagine. Questo posto è una gabbia, dicono i due agenti, abituati alle galere. Ma a dire il vero, le istituzioni figurano tutte ugualmente inadeguate nei riguardi dei giovani. La scuola finge di non vedere, la comunità interviene solo per additare e umiliare il capro espiatorio a cose fatte, il carcere minorile pieno di urla e botte è lì per giudicare e punire, non per capire e rieducare. 

Le colpe di tutti

Ma quindi, di chi è la colpa? «Avremmo potuto fare di più», piange la mamma di Jamie sul letto. «Non è colpa nostra», pensa invece il padre. Sono le due opinioni polarizzate di qualsiasi coppia di genitori. Non è mica colpa nostra se ha mollato lo sport. O: avremmo potuto fare di più perché non uscisse conciato a quel modo Le realtà è che la famiglia è lasciata tremendamente sola, e se non riesce a capacitarsi di dove stia il problema (le porte chiuse delle camerette? I limiti infranti di tempo su Whatsapp? La cumpa coi bomber Moncler tarocchi?) è perché tutto il peso di questa enorme transizione epocale, sommato al vecchio peso dello scontro tra generazioni, è lasciato sulle sue spalle.

«Come abbiamo fatto a fare una figlia perfetta come Lisa?», si chiede il padre guardando la maggiore che apparecchia diligentemente la tavola. «Allo stesso modo in cui abbiamo avuto un figlio come Jamie» (Noi madri siamo sempre più sagge). Il presunto reato di Jamie è quello che compiono tutti i giorni i nostri adolescenti crescendo contro di noi. Ci immedesimiamo più del dovuto perché vorremmo una polizia dell’anima che entrasse urlando mani in alto, non leggi un libro da cinque anni, sei truccata come una maschera del teatro kabuki, quest’anno rischi di farti bocciare, hai un milione di vinili in casa e ascolti la trap! Ma soprattutto, come sospirano i genitori normalissimi di un timidissimo omicida: mi sembra ieri che disegnavi zitto in cucina con la faccia tutta sporca di gelato.

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