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Quella di Timothée Chalamet ai David è stata davvero una pessima serata E dire che l'attore ha pure saltato il Met Gala per partecipare alla premiazione, assieme alla fidanzata Kylie Jenner.
Con Vermiglio, Maura Delpero è diventata la prima donna a vincere il David di Donatello per la Miglior regia E il suo si è confermato il film italiano dell'anno, portandosi a casa ben sette statuette.

The Fabelmans, Spielberg secondo Spielberg

Dopo Alejandro Gonzalez Iñárritu, Paolo Sorrentino e Kenneth Branagh, un altro grande regista si lascia prendere dalla nostalgia dell'infanzia e si toglie lo sfizio dell'autobiografia.

03 Gennaio 2023

In un’intervista al New York Times del 1999, quando già veniva trattato con il rispetto che si riserva ai grandissimi e dove confessava la fobia di volare, combattuta bevendo tè alla cannella, Steven Spielberg racconta per la prima volta la sua idea di realizzare un film autobiografico. Nessuno l’ha preso per un megalomane. Gli sarebbe piaciuto, nel caso, intitolarlo I’ll be home. Non se n’è fatto poi nulla, era troppo presto: Spielberg lasciò perdere il progetto per timore di essere indelicato con i suoi genitori, all’epoca in formissima, e per dedicarsi a consolidare il suo status di leggenda del cinema girando storie scritte da altri. Momentaneamente. Dopo essere diventato orfano nel giro di poco, fra il 2017 e il 2020, Spielberg deve aver pensato che i tempi fossero maturi per stilare i bilanci. Così ha convocato Tony Kushner, il suo sceneggiatore più fedele, e per la prima volta negli ultimi vent’anni ha anche partecipato alla scrittura di un film che avrebbe poi diretto. Ci hanno messo soltanto un paio di mesi, cambio del titolo compreso. Spielberg ha passato la sceneggiatura per una rilettura alle sue sorelle (tre, più piccole di lui, proprio come nel film), che hanno concesso la loro approvazione. Le riprese sono iniziate durante il lockdown e il risultato, nelle sale in Italia dal 22 dicembre, a molta distanza dall’ideazione, è The Fabelmans.

The Fabelmans è tratto da una storia vera, foto, filmini e ricordi hanno modellato trama, costumi e scenografie. Inizia tutto, come spesso accade, da un trauma nell’infanzia del protagonista. Siamo all’inizio degli anni Cinquanta. Nella prima scena il ritratto del regista da giovane, Sam Fabelman, è un moccioso che va al cinema nel New Jersey, con i genitori, a vedere in una sala strapiena Il più grande spettacolo del mondo (Oscar nel 1952 come Miglior film), scelta forse poco indicata per un bambino di cinque anni (del resto ci va in macchina seduto senza cintura sul sedile anteriore): un film che inscena amori tossici e l’incidente pulp del deragliamento di un treno dove muoiono un bel po’ di passeggeri. Sam rimane talmente traumatizzato, e tanto sfinisce i suoi genitori, che quelli gli comprano per Hanukkah il modellino di un treno a vapore. Il treno in miniatura, però, non cura il trauma del piccolo Sam, così madre Fabelman permette all’ometto di casa di filmare un cortometraggio con la cinepresa 8 millimetri di famiglia. È l’opera prima di Spielberg/Fabelman (interpretato da Gabriel LaBelle, scelto dopo mesi di casting): la storia di un trenino giocattolo che si scontra con una carrozza in legno. Sam scaccia le sue ossessioni e ottiene l’approvazione delle persone che lo circondano. Come spesso accade in casi simili, si innamora e guadagna un’ossessione a lungo termine: è nato un cinefilo.

Da lì parte The Fabelmans, saga di una famiglia borghese numerosa ai tempi del boom economico, dei traslochi a Phoenix e in California e della vita domestica fra macchine Cadillac e frigoriferi General Motors. Film americanissimo, il romanzo di formazione del figlio di un ingegnere informatico, un papà esperto nell’elaborazione di dati prima che si capisse come sfruttarli, e di una madre pianista dilettante, soltanto qualche triste apparizione in tv nel curriculum fra molti rimpianti, bionda dalle unghie lunghe e curatissime. Una famiglia di ebrei blandamente osservanti. Il giovane Spielberg riesce a convincerli, come sa chiunque abbia visto E.T. e Jurassic Park, che se lavori sodo e ti comporti con educazione anche il cinema può offrire una carriera dignitosa. È una vita nei sobborghi residenziali, innocua e foderata di marshmallow, lontana dal lato oscuro del sogno americano: in più di due ore non si menziona mai la guerra, nemmeno di sottofondo, nessun reduce, zero armi fra la popolazione civile, niente riferimenti al razzismo. Le scene più disumane e sordide in The Fabelmans sono interpretate dai bulli della scuola, bellocci inetti alimentati a bistecche e foderati dall’immancabile giubbotto della squadra di football, e ci sale un po’ di tristezza guardando il piccolo Spielberg che a tavola si ritrova invariabilmente pollo arrosto, mais e piselli surgelati, sempre serviti su piatti di plastica che vengono buttati a fine pasto – con la tovaglia e le posate – nello stesso bidone con il vetro e la carta.

Ma è anche il racconto universale di cosa succede quando i figli capiscono che i genitori non sono supereroi. È un processo delicatissimo, dove servono concessioni da entrambe le parti, e perdite dolorose. Detto questo, è pur sempre un film di Spielberg, intrattenitore di una certa morbidezza, basato sulla sua storia vera, ci si può divertire con lo stesso spirito con il quale si spierebbero le sue storie Instagram in evidenza. Seth Rogen, che interpreta lo zio (non di sangue) di Spielberg da giovane (e che per una volta riesce a recitare tutto un copione senza fumarsi nemmeno una canna), ha raccontato un paio di mesi fa in un’intervista a People che Spielberg piangeva spesso sul set, e che tutte le volte che gli è capitato di chiedere alla produzione, riguardo a qualche scena, “ma questa è tratta da una storia vera?”, la risposta era sempre “sì”. The Fabelmans regala parecchie chicche: la genesi di Salvate il soldato Ryan, per esempio, i consigli kosher dello zio Boris o anche il cameo di David Lynch che appare all’improvviso, si accende un sigaro con dodici tirate e recita una delle più belle battute viste al cinema nell’ultimo anno. Un po’ È la stata la mano di Dio, un po’ Dawson’s Creek (c’è anche Michelle Williams, tormentatissima).

Sono i giorni d’oro del cinema, nella finestra fra Natale e Capodanno, siamo costretti in casa con la famiglia, il tempo libero non manca. Infatti la sala a Milano dove si è visto The Fabelmans, all’orario della siesta, era quasi tutta piena. Prima della proiezione, a sorpresa, c’è anche stato un video-saluto di Spielberg, che guardando in camera ci ha ringraziato e ha annunciato che stavamo per assistere alla sua lettera d’amore dedicata al cinema e alla famiglia. Nella categoria dei film che omaggiano la storia del cinema si possono trovare, probabilmente, esempi migliori. Per quanto riguarda i film che trattano temi universali con un tocco delicato, be’, Spielberg non è certo l’ultimo degli sprovveduti. Questa volta, in più, ci ha messo il cuore, e si vede, a volte forse troppo: è difficile perdersi nel film per più di qualche minuto di fila senza pensare “È la storia di Spielberg!”. Comunque, al momento, The Fabelmans ha incassato poco più di dieci milioni, a fronte di una spesa di oltre quaranta per la realizzazione (otto solo per il marketing), peggior flop nella storia di Spielberg. Importa poco. Facendo due rapidi conti, e guardando un paio di classifiche, ci si accorgerà in fretta che i suoi film hanno incassato in totale oltre dieci miliardi di dollari, di gran lunga il regista più remunerato nella storia del cinema. Come Bob Dylan e David Hockney, anche Steven Spielberg si è guadagnato il diritto di levarsi qualche sfizio, e d’altronde la maggior parte delle autobiografie in commercio costano più di un biglietto per il cinema e sono meno belle di The Fabelmans.

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