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Tutti contro Facebook

Coca Cola, adidas, Patagonia e North Face tra gli altri: sono sempre di più i marchi che abbandonano la piattaforma.

di Pietro Minto

Mark Zuckerberg, 25 ottobre 2019. Foto di Drew Angerer/Getty Images

Prima Patagonia e North Face. Poi adidas, il gruppo Unilever, Levi’s e Starbucks, arrivando persino al gigante farmaceutico Pzifer. La lista di aziende e brand che nei giorni scorsi hanno annunciato di non volere più fare pubblicità su Facebook (e Instagram) si fa ogni giorno più lunga. Un effetto valanga che sta colpendo perlopiù le proprietà di Mark Zuckerberg, anche se Unilever ha scelto d’interrompere la pubblicità anche su Twitter, adducendo una motivazione che ben riassume l’aria che tira: «Continuare a fare pubblicità su queste piattaforme in questo momento non darebbe valore aggiunto alle persone e alla società». L’epicentro di questa crisi è la condotta permissiva di Facebook nei confronti di Donald Trump, che ha innescato una nuova polemica sulla disinformazione e l’estremismo sul social network, accusato di monetizzare razzismo e odio in tempi di profonda crisi. Il gruppo Stop Hate for Profit ha quindi iniziato una campagna di sensibilizzazione, chiedendo ai principali investitori di “mettere in pausa” i propri investimenti pubblicitari finché Facebook non farà qualcosa per risolvere la situazione. La lista di aziende firmatarie si allunga di giorno in giorno.

È una “adpocalypse”, insomma, termine nato dallo scontro tra advertising e apocalypse con cui si indicano eventi simili. Perché, ebbene sì, non è la prima volta che succede. Qualcuno di voi ricorderà i fatti del 2017, quando YouTube, nel bollente clima post 2016, ha dovuto fare i conti con l’estrema libertà (o anarchia) che aleggiava nella piattaforma. Quell’atmosfera in cui tutto sembrava possibile, alla base del successo di YouTube, aveva creato un clima poco rassicurante per i marchi, restii a comparire affianco a contenuti offensivi, razzisti e non “advertiser friendly”. Il simbolo della prima adpocalypse è stato Felix Kjellberg, in arte Pewdiepie, lo Youtuber con più iscritti in tutto il mondo (superato solo di recente dal gruppo indiano T-Series), di cui il giornalismo mainstream scoprì all’improvviso il lato più “edgy”, estremo e offensivo.

Tutto è cominciato quando, nel febbraio 2017, il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo in cui spiegava come il beniamino di YouTube avesse inserito “messaggi” estremisti nei suoi video, su Hitler e l’Olocausto. Battute di pessimo gusto, diceva qualcuno. Sintomi della radicalizzazione dello Youtuber, dicevano altri. I brand, comunque, non gradirono l’idea di avere il proprio logo affianco a un cartello con la scritta “Morte agli ebrei”. La Prima adpocalypse era iniziata. La vittima fu proprio Kjellberg, che perse accordi commerciali con la Disney e passò settimane a difendersi e contrattaccare, inseguendo la retorica dello scontro tra “nuovi media” e “mainstream media” (MSM). In un secondo tempo, altre inchieste hanno portato alla luce quanto fosse “pericoloso” per un brand apparire su YouTube, al di là di Pewdiepie, per il rischio di vedere un proprio spot prima di un contenuto offensivo. Seguirono mesi confusi, in cui video e canali interi furono “demonetizzati” (pratica con cui YouTube non condivide con i creatori i ricavi pubblicitari), mentre la piattaforma cercava di smussare gli angoli più appuntiti della sua community.

A quanto pare ogni adpocalypse somiglia alla precedente, perché oggi, a tre anni di distanza, dopo che Pewdiepie ha intrapreso un lungo cammino di “riabilitazione” agli occhi dei mainstream media, passando anche per un’intervista con il New York Times, tocca a un altro social network che da tempo ha un problema di contenuti: Facebook. A dire il vero è da tempo che Facebook attira su di sé critiche sulla sua ambiguità nei confronti dei contenuti politici più estremi, specie da quando Trump è alla Casa Bianca. Pare infatti che Mark Zuckerberg e Trump siano in buoni, ottimi rapporti, resi possibili anche dall’intermediario Peter Thiel, tra i primissimi investitori di Facebook, consigliere di Zuck e luminare della nuova destra americana. Un’amicizia sospetta che isola ulteriormente Facebook, mentre la competizione ha cominciato una timida ribellione, specie dopo il successo delle proteste del movimento Black Lives Matter. Twitter ha cominciato a segnalare e nascondere i tweet più estremi di Trump e, solo negli ultimi giorni, piattaforme come Reddit, Twitch e anche YouTube hanno “bannato” comunità politiche considerate violente e tossiche. È stata una settimana intensa, per la moderazione dei contenuti, dal ban del subreddit di sostenitori trumpiani r/TheDonald a quello di Youtuber come Stefan Molyneux, David Duke e Richard Spencer, grandi personalità della alt-right.

Facebook è in cattive acque. Anche quando annuncia di aver cancellato 9,6 milioni di contenuti violenti e offensivi nel primo trimestre del 2020, non fa che sottolineare quanto quanto l’eversione e l’estremismo siano eventi quotidiani nelle sue pagine, quanto la sua stessa dimensione sia il problema. Intanto, nei suoi gruppi privati la radicalizzazione e l’eversione continua a dilagare, proprio mentre il Ceo si incontra segretamente con Trump a pochi mesi dalle elezioni decisive per il futuro del Paese. La Seconda adpocalypse è quindi una reazione a una narrazione che interessa da tempo il social, secondo cui Facebook sarebbe diventato uno spazio in cui polemiche, odio e risentimenti coprono tutto il resto. In una stanza dove tutti sono arrabbiati e strillano, difficile comunicare con successo le proprietà di un nuovo shampoo. Ma se il boicottaggio pubblicitario di una piattaforma diventasse una forma di pubblicità? Nilay Patel, direttore del sito tecnologico The Verge, ha scherzato sull’argomento, immaginando come alcuni uffici marketing abbiano preso la palla di questa adpocalypse al balzo per tagliare gli investimenti pubblicitari post-pandemici ricavandone una buona figura. Cinismo, forse. Ma quando la migliore forma di pubblicità diventa non fare pubblicità sulla tua piattaforma, non è proprio un buon segno.