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Maria Grazia Chiuri lascia la direzione creativa di Dior Dopo la collezione Cruise presentata a Roma due giorni fa, la stilista romana e la Maison francese si separano definitivamente dopo 9 anni.
Elon Musk ha lasciato il Doge ma assicura che è ancora il migliore amico di Donald Trump I due hanno bisticciato un po' nell'ultimo periodo, quindi Musk ne ha approfittato per rassicurare i fan suoi e di Trump.
Il produttore di Popeye di Robert Altman ha detto che quello è stato senza dubbio il film più incocainato di sempre Secondo Barry Diller, Ceo di Paramount all'epoca delle riprese, così tanta droga sul set di un film non si è mai vista.
Il caso dell’imprenditore italiano rapito e torturato a Manhattan somiglia sempre di più a un film horror Adesso si è consegnato alla polizia un secondo rapitore-torturatore, che ha confermato tutto quello che ha raccontato Michael Valentino Teofrasto Carturan.
Per andare a studiare negli Stati Uniti adesso bisognerà fare attenzione anche a quello che si posta sui social Lo ha deciso il governo, che ha sospeso l'emissione di tutti i visti per gli studenti in attesa di "certificarne" i profili social.
La distribuzione dei primi aiuti umanitari a Gaza è stata una tragedia (annunciata) Tre morti, 46 feriti, sette dispersi a Rafah, durante la distribuzione dei tanto attesi aiuti dopo mesi di assedio dell'Idf.
La serie di Harry Potter ha trovato i nuovi Harry, Hermione e Ron Dominic McLaughlin, Arabella Stanton e Alastair Stout sono stati scelti tra gli oltre 30 mila ragazzini che hanno partecipato al casting negli scorsi mesi.

Abu Dhabi: la “newyorchizzazione” del deserto

27 Aprile 2011

Greg Giraldo la metteva così: niente dimostra lo spirito americano e l’attitudine occidentale verso la libertà come un addio al nubilato a New York, a pochi giorni dalla tragedia dell’11 settembre. Ci hanno provato a spaventarci, ma se le rovine di ground zero ancora fumanti non fanno passare la voglia ad un branco di giovani sgallettate di schiamazzare in un club, “Cosmo” in una mano e dildo nell’altra, allora i terroristi hanno perso.

Sex and the City 2 , seconda protesi cinematografica dell’iconica saga newyorchese, esprime grossomodo lo stesso concetto. Nonostante il messaggio, però, il film paga un tributo decisamente ambiguo all’ambiente che critica – nella fattispecie, gli Emirati.

Senza dilungarmi troppo sulla trama, comincerei dall’inizio, che è esattamente come te l’aspetti. New York City, grattacieli, Empire State of Minddi Jay-Z in sottofondo, pure un matrimonio gay per stabilire che, effettivamente, “there’s nothing you can’t do”. Delle quattro protagoniste, che per anni hanno rappresentato lo stile di vita (più inarrivabile che site-specific) della donna in carriera single, tre sono ormai accasate. Tra infanti piagnoni e mariti pantofolai, quello che ci vuole è una bella gita in un posto esotico, ma che non faccia rimpiangere i cocktail e le boutique della Grande Mela. E così scatta – in circostanze poco realistiche nella vita reale – il viaggio all inclusive negli Emirati, nella culturalmente avanzata e ridicolmente lussuosa Abu Dhabi.

Nel corso delle sue interminabili due ore e mezza (con gag che fanno rimpiangere il peggior Vanzina), le incautamente scollate protagoniste si renderanno conto però che il fascino esotico ma addomesticato dell’emirato è solo una maschera, dietro alla quale si affaccia una realtà retrograda e misogina. Le stanche batterie matrimoniali alla fine si ricaricano e, dopo che Samantha – la più libertina del gruppo – rischia l’arresto per una pomiciata in pubblico, il ritorno alla civiltà newyorchese diventa addirittura imperativo.

A giustificare il metraggio – di solito riservato a film come Transformers o Harry Potter, per fare spazio alle inevitabili mezz’ore di CGI – bisogna dire che nel suo piccolo Sex and the City 2 degli effetti speciali ce li ha. Per dirne una, la produzione è riuscita a trasformare Marrakech nella decisamente più “hot” Abu Dhabi, preferita alla spavalda sorella Dubai più per ripicca che per altro (“Dubai is over. Abu Dhabi is the future”, dice un tizio dall’accento arabo ad un certo punto del film). Questo trick cinematografico, spesso giustificato da banali motivi di budget, è in realtà il risultato di un gioco di rimbalzi e scaricabarile che merita una breve cronologia.

Fase 1: Al principio la sceneggiatura ambientava il film a Dubai. Nota per la sua boria costruttiva ed i suoi affari internazionali scavezzacollo, la città è decisamente più Las Vegas che New York. Perfetta, quindi, come esempio di resort desertica e sfrenata, da spot CNN.

Fase 2: Proposto il film a chi di dovere, Dubai rifiuta. A partire dal nome, le autorità cittadine non ci tengono ad essere associate alla gita debosciata della cricca di Carrie & co.

Fase 3: Si ripiega su Abu Dhabi. Sempre ricca, sempre araba. Senonché, su pressioni di Dubai, pure loro dicono di no.

Fase 4: Soluzione Marocco. Marrakesh ci sta, ma non vuole che la città sia identificabile nel film. Piuttosto che tornare alla scortese Dubai e dargli visibilità gratuita, si decide per Abu Dhabi – che tanto è sempre cool.

Quello che mi affascina della decisione della produzione è la ripicca finale. Nelle parole di un non meglio identificato filmmaker intervistato da ABCNews, infatti, sarebbe stato troppo comodo per Dubai fare la voce grossa e beccarsi lo stesso l’impennata turistica che un film iconico come Sex and the City 2 si porta dietro. Sulla carta la trama non è che renda sto gran servigio alla location ospite, ma anche il Guardian sembra non essere entusiasta della scelta di Carrie e comari, ricordando la condizione decisamente poco rosea dei diritti femminili nell’emirato.

Il fattore mitologico associato alla serie come macchina del glamour è quindi decisamente più potente degli elementi di denuncia sparsi per il plot. La potenza iconografica dei grattacieli di New York, lo stile di vita delle protagoniste e tutto il relativo apparato immaginario vanno ad investire i grattacieli ed il prestigio culturale dell’ultima ora di Abu Dhabi. Una newyorchizzazione, questa, tutto sommato in linea con i tentativi dell’amministrazione cittadina di iniettare prestigio culturale ed immobiliare in un terreno desertico.

Apparentemente senza volerlo, Sex and the City 2 gioca di fatto lo stesso ruolo dei nuovi landmark museali e delle propaggini residenziali di cui la città punta a fregiarsi nei prossimi anni: dal Guggenheim di Frank Gehry al Louvre di Jean Nouvel (costato all’emirato mezzo miliardo di dollari solo per il brand), fino all’eco-sobborgo di Saadiyat Island (impreziosita dalle chicche architettoniche di Norman Foster e Tadao Ando). E tutto questo senza farne vedere nessuno.

Si tratta di un tributo ambiguo, come dicevo prima, e forse inevitabile – considerato lo status di cui già gode la città. Ma se non altro, si spera, l’ondata turistica che seguirà il film saprà come regolarsi in quanto a scollature.

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