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Dario Vitale lascia Versace, appena nove mesi dopo esserne diventato direttore creativo Era stato nominato chief creative officer del brand, appena acquisito dal gruppo Prada, a marzo di quest'anno.
L’unica tappa italiana del tour di Rosalìa sarà a Milano, il 25 marzo Sono uscite le date del tour di Lux: partirà il 16 marzo 2026 da Lione e si chiuderà il 3 settembre a Portorico.
Secondo una ricerca, l’inasprimento delle leggi sull’immigrazione in Europa sta facendo aumentare e arricchire i trafficanti di essere umani Il Mixed Migration Centre ha pubblicato un ampio studio in cui dimostra che le politiche anti immigrazione stanno solo aggravando il problema che avrebbero dovuto risolvere.
Fontaines D.C., Kneecap e molti altri musicisti hanno fondato un’alleanza di artisti per contrastare l’estrema destra Si chiama Together e ha già indetto una grande manifestazione per il 28 marzo a Londra.
C’è un’azienda che sta lavorando a un farmaco simile all’Ozempic per far dimagrire i gatti in sovrappeso Una casa farmaceutica sta sperimentando un impianto a rilascio costante di GLP-1 per aiutare i gatti obesi.
Paul Thomas Anderson ha rivelato i suoi film preferiti del 2025 e ha detto che non è affatto vero che questo è stato un pessimo anno per il cinema Secondo il regista, ci sono diversi film (oltre il suo Una battaglia dopo l'altra) usciti quest'anno di cui dovremmo essere molto contenti.
L’ansia da Spotify Wrapped è talmente grave che migliaia di persone hanno creduto a una bufala su una versione modificabile disponibile a pagamento Evidentemente, quella di scoprire di avere dei brutti gusti musicali scorrendo il proprio Wrapped è una paura più diffusa di quanto ci si immagini.
Jafar Panahi ha detto che dopo gli Oscar tornerà in Iran e andrà di nuovo in carcere Mentre era a New York per una premiazione, ha scoperto di essere stato condannato a un anno di carcere per «attività di propaganda».

Fauxsumerism, come comprano i Millennials

Un nuovo studio racconta che per le ultime generazioni è più importante condividere che acquistare. Le nuove vie dello shopping fra carrelli virtuali, social network, paragoni con le vecchie vetrine e previsioni future.

30 Aprile 2014

Nati tra gli anni ottanta e i duemila, i celebri Millennials (chi scrive ne fa parte) sono stati definiti, peschiamo a caso da un lungo elenco di aggettivi, bamboccioni, choosy, schermo-dipendenti e autoreferenziali. Adesso uno studio pubblicato da WWD li definisce fauxsumers. Il fauxsumerism, dice lo studio, sarebbe a dire il consumo di moda tipico dei Millennials, rivoluziona l’idea stessa di consumo, mettendola a rischio. In breve: preferiamo il navigare al comprare. I Millennials sarebbero in buona sostanza una specie di aggiornamento virtuale del flâneur ottocentesco che, per quanto poetico, non sembra giovare più di tanto all’industria della moda. A meno di trovare il modo di trasformare i “browsers in buyers”.

Lo studio di recente condotto da Intelligence Group, una divisione di Creative Artists Agency, ha intervistato un campione di 1300 Millennials al fine di comprendere i modi nuovi in cui viene consumata la moda. Il risultato più evidente, e per alcuni allarmante, è che nelle loro interminabili sedute di navigazione alla ricerca dei prodotti più desiderati, quello che fanno è comporre magiche liste del desiderio non finalizzate all’acquisto, custodite in carrelli virtuali. E allora perché interessano tanto le aziende? Si stima che i Millennials, circa 2 dei 7.1 miliardi di persone che abitano il pianeta, spenderanno circa 400 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020: un mercato difficile da ignorare. È naturale che il loro comportamento diventi oggetto di studio. Molti degli intervistati dichiarano di acquistare solo ciò che ritengono necessario e di comporre abitualmente liste di oggetti desiderati, mentre il 72% prima di correre in negozio fa le sue ricerche online, nel tentativo di risparmiare tempo e fatica.

Uno dei dati più interessanti dello studio è l’emergere di una “economia della condivisione”, per cui il Millennial sarebbe più interessato all’accesso, all’interazione e alla condivisione, che alla proprietà di un oggetto. Lo studio rintraccia le origini di questo comportamento nelle conseguenze nefaste della recessione. Sono lontani gli anni in cui Audrey Hepburn, la window-shopper più elegante e malinconica della storia del cinema, faceva colazione davanti alle vetrine di Tiffany, ciondolando sulla quinta strada al ritmo di Moon River. Il sogno della merce esposta in vetrina ha una magia che il cinema ha saputo cogliere, un tempo che nulla ha a che fare con quello dello shopping virtuale, che è veloce, effimero, bidimensionale. E l’allure della vetrina (per non parlare di quello della quinta strada) è difficile da riprodursi in un negozio online. Del resto, il suo scopo non è mai stato l’acquisto diretto, quanto piuttosto l’allestimento di una fantasmagoria che stimoli il desiderio e conduca gli oggetti fuori dalla vetrina dentro le nostre fantasie quotidiane.

Alcuni hanno giustamente paragonato il comportamento dei Millennials a quello dei window-shopper. E come qualsiasi commessa sa bene, il rapporto tra quelli che si bloccano imbambolati a guardare le vetrine – imbrattandole – e quelli che entrano a comprare è tutto a vantaggio dei primi. Quindi niente di nuovo sotto il cielo? Forse. Il fauxsumer infatti mantiene poco della passività del consumatore tradizionale. Quello che conta per lui è l’esperienza del consumo e la sua condivisione. Il sogno tramutato immediatamente in immagine Instagram, in tweet, status, racconto. Karl Lagerfeld lo ha capito prima di tutti, tanto che nel suo nuovo store di Londra il camerino è selfie-friendly, mentre in Italia in molti negozi è ancora vietato scattare foto. Il risultato è che il consumatore diventa una strana figura sospesa tra entertainment, consumo e curatela d’arte. Ebay punta proprio su questa confusione quando definisce la sua piattaforma online per la moda una galleria dove tutto è sempre in vendita. E la sfida per i retailer potrebbe nascondersi proprio qui, nell’abbattimento o quanto meno l’accorciamento della distanza tra lo sguardo e l’acquisto. In questa direzione va l’esperimento di Ssense, “I think she’s ready”, primo videoclip “shoppabile” al mondo.

Forse Kurt Vonnegut non aveva in mente il social shopping quando in Mattatoio n. 5 scriveva che «come tanti americani, stava provando a costruirsi una vita che avesse senso dalle cose che trovava nei negozi di souvenir»; però ci è andato vicino, accostando lo shopping a una pratica curatoriale. Nessuno poi esclude che gli anni Ottanta in noi siano solo in letargo, in attesa di tempi migliori.

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