Attualità

Una letteratura sportiva di qualità

Una lunga riflessione a più voci su cosa vuol dire scrivere di sport in Italia, e cosa vuol dire farlo bene. Per chi, in che modo, con che forze?

di Davide Coppo

Il 22 novembre 2013, sul Financial Times, è apparso un articolo molto lungo il cui titolo, e il cui autore, hanno subito incollato la mia attenzione alla pagina. L’autore era Simon Kuper, uno dei miei giornalisti o scrittori preferiti, e uno dei miei giornalisti o scrittori preferiti nel trattare il calcio, nello specifico. L’articolo si chiama “How books about sports got serious”, e il titolo spiega praticamente tutto sul contenuto: da quando ci siamo messi (il “noi” si riferisce all’umanità) a scrivere libri sportivi che potessero competere con le12 altre letterature, generalmente considerate “alte”, o semplicemente “più alte?”. Kuper cita Hemingway, che decenni fa fu pagato 30.000 dollari per un reportage di 2.000 parole sulla corrida. Poi cita Don DeLillo, e Bernard Malamud, e altri scrittori che hanno ambientato romanzi (romanzi molto “alti”) nel mondo sportivo. Poi arriva a Nick Hornby, che con Febbre a 90° ha sdoganato nel mondo che potremmo chiamare mainstream la narrativa calcistica di qualità. Era il 1992. Dalla letteratura in forma di libro, Kuper fa un breve stacco e una piccola esplorazione in quella in forma di articolo: se il giornalismo che aspira a essere “alto” e allo stesso modo trattare di sport nasce nel mondo anglosassone, non ci vuole molto prima che si diffonda in Europa. In poche righe, Simon Kuper riassume l’evoluzione così:

In 1994 two Dutchmen who had read My Favourite Year, a collection of writing on football edited by Hornby, started a literary football journal called Hard Gras. In 1997, in the bubble era of football literature, when publishers were throwing money at any football book as if it were a subprime mortgage, I launched a British imitation. It failed, but Jonathan Wilson’s The Blizzard has since made the idea work in Britain. Other literary soccer magazines thrive elsewhere: Offside in Sweden, Josimar in Norway, Panenka in Spain, Howler in the US, while Hard Gras has become the bestselling literary journal in Dutch history. Recently the genre even reached hoity-toity France. The other day a French writer visited my library to borrow some books. He’s now in Rio de Janeiro researching a book on Brazilian football.

Qual è il grande assente in questa lista di paesi virtuosi, per così dire? L’Italia. Poi, più in giù, sempre nello stesso pezzo, si legge:

[N]owadays people can see every game on TV. Match reports no longer serve much purpose. Deeper writing is required.

Momenti sportivi di una certa importanza / 1: la Champions League vinta dal Manchester Utd nel 1999

La prima volta che mi è balenata in testa l’idea di poter scrivere di calcio in una certa maniera che si può chiamare “originale”, o “approfondita”, o “alta”, è stato circa tre anni fa. Pensavo fosse una grande trovata: ero arrivato in questo mondo (il mondo in cui scrivi qualcosa, ti pagano e ti pubblicano pure) da pochissimo tempo, e come accade spesso quando devi imparare a maneggiare uno strumento con cui non hai confidenza, provi un po’ di approcci prima di trovare quello che fa per te. Mi viene in mente, come termine di paragone, qualcuno che prende le bacchette della cucina asiatica in mano per la prima volta. Dopo qualche falsa pista, sono arrivato allo sport. Cosa mi piace, mi sono detto, di più nella vita? Il calcio e la letteratura. E così ho iniziato a prendermi cura del calcio e della sua narrazione. Naturalmente non era niente di originale: lo dimostrano le parole di Simon Kuper qui sopra. Ma l’illusione di originalità era giustificata, anche solo parzialmente: a uno sguardo ancora poco attento, come era sicuramente il mio, l’attenzione alla scrittura e narrazione sportiva (e calcistica nello specifico) in Italia era visualizzabile sotto la forma di deserto, o ancora meglio: di buco nero. Però, è ovvio, ci sono altre persone a cui piacciono il calcio e la letteratura. Non potevo essere l’unico, anzi ero uno degli ultimi arrivati, forse.

C’erano state, prima del “baleno” nella mia testa, esperienze piccole ma significative: una si chiamava Stone Island Football Blog, era diretta e partecipata da persone che oggi dirigono e partecipano anche in riviste come Studio: è ovvio che i semi di quell’esperienza si erano depositati nella mia corteccia cerebrale, e stavano germogliando per i fatti loro, dandomi l’illusione di aver avuto una grande trovata. Oggi il giornalismo e la narrazione dello sport e del calcio, in Italia, non è in buona salute. Forse, dal punto di vista della forma libraria, piccole perle sono state trovate in conchiglie rare e poco diffuse: penso a due libri di Sandro Modeo, L’alieno MourinhoIl Barça, opere che dal punto di vista della qualità e dell’ampiezza di sguardo storico e analitico sul calcio (su Mourinho, nel caso particolare del primo, e sul Barcellona, nel caso particolare del secondo) sono tali da dover essere considerate come a tutti gli effetti “alte”.

Se in Italia la situazione è così povera e desolante, va detto anche che le esperienze “virtuose” rimangono comunque una nicchia all’interno di un discorso giornalistico o narrativo mondiale. Un prodotto come The Blizzard, mensile fondato dall’inglese Jonathan Wilson, è certamente apprezzato in Inghilterra e ha una piccola fan base europea, ma sono sicuro che se sommiamo gli spettatori totali di tutti gli stadi dell’ultima giornata di Premier League e cerchiamo di stabilire il rapporto che c’è tra questo numero e i lettori, in quegli stadi, di The Blizzard, arriveremmo a una ratio che mi fa pensare alla distanza tra la Terra e la Luna confrontata con la distanza tra la Terra e Alpha Centauri. Qualche mese fa lo stesso Jonathan Wilson mi disse, riguardo al team che lavora a The Blizzard, che «nessuno sta facendo una fortuna, nessuno può permettersi di farlo come unico lavoro o come primo lavoro!». Lo stesso termine “football hipster”, coniato proprio negli ultimi anni per indicare questo fenomeno, non indica altro che nicchia, minoranza, specie protetta – anche se spesso attaccata.

Ma in Italia qualcosa si sta muovendo? A guardare i quotidiani e la loro copertura sportiva, no. La cronaca della partita del giorno prima rimane la stessa, il linguaggio piatto e caricaturale (e così poco reale, poi: chi è che nel mondo vero, quello che esiste fuori dalle pagine rosa della Gazzetta dello Sport dice davvero cose come “rammaricato” con la folle frequenza con cui lo si scrive negli articoli sportivi? Tommaso Pellizzari poco tempo fa ha raccolto tutte queste assurde inattualità linguistiche in un bel pezzo sul Corriere della Sera), il gossip di calciomercato su ogni pagina, le non-notizie sui litigi, i malumori (altra parola inattuale, lo so) tra “la stella” e l’allenatore, le paparazzate notturne e i tweet da interpretare come steli di Rosetta. Però ci sono prodotti che cinque anni fa non esistevano, e iniziative anche individuali (blog) che provano a colmare la lacuna – che è una lacuna enorme – della scrittura di qualità applicata allo sport. Citarli probabilmente si porterebbe dietro la critica molto italiana di “autoreferenzialità”, che è una critica che ho sempre capito poco, e allora citerò alcune persone che – su svariati progetti editoriali tra cui questo su cui state leggendo – stanno cercando di cambiare qualcosa.

Ho chiesto a loro cosa pensassero della situazione italiana, e ho chiesto anche di commentare alcuni miei dubbi. Il primo è di natura stilistica: quando scriviamo un lungo o anche solo approfondito e impegnativo pezzo sportivo, per cosa lo facciamo? Che cosa stiamo scrivendo? Una biografia? Sarebbe una biografia poco dettagliata, visto che le parole del protagonista (il giocatore in questione, o il mister, o la squadra di cui parliamo) non ci arrivano direttamente dalla sua bocca. Della fiction? No, non del tutto io credo, perché parliamo di storie reali. Una via di mezzo tra biografia e fiction? Probabilmente, a mio parere, sì. Perché prendiamo elementi di una vita e li mischiamo facendoli diventare una trama, cioè costruiamo noi un intreccio, accostando e giustapponendo eventi. Perché diluiamo i meri fatti con emozioni, opinioni o sentimenti nostri che escono naturalmente nella scrittura. Ho pensato a una cosa che mi aveva detto Brian Phillips, giornalista / scrittore americano tra i migliori quando si parla di queste cose, che in un’intervista uscita sul numero 12 di Studio, a gennaio 2012, disse: «abbiamo un accesso “intimo” agli atleti che non si è mai verificato prima, e il risultato di questa vicinanza è che siamo sempre più tentati di trattarli come fossero personaggi di un romanzo. Mario Balotelli è un essere umano, con opinioni e problemi e ricordi suoi, ma lo trasformiamo in MARIO BALOTELLI!!!, questo personaggio da cartone animato un po’ stereotipato incomprensibilmente pazzo e divertentissimo. È una questione morale con cui non ho spesso voglia di confrontarmi però. Cancellare l’umanità di qualcuno soltanto per “entertainment” è ovviamente sbagliato, ma anche con questa consapevolezza è molto difficile dire come potrebbe esistere una cultura sportiva senza questa specie di mitizzazione. L’eroe sportivo vecchio stampo è un’altra forma di caricatura, alla fine, e allo stesso modo falsa nei confronti della vera natura dell’individuo».

Il secondo dubbio, o tentativo di riflessione, è di natura meno stilistica, e più, diciamo, morale (ma diciamolo con molte virgolette): i protagonisti di queste nostre narrazioni non leggeranno probabilmente mai ciò che noi scriviamo. Per cosa lo facciamo, allora? Per lo sport, o per la letteratura? Lo facciamo perché lo sport richiede una spiegazione più profonda, sempre, e questa deve passare dalla scrittura? O perché crediamo abbia bisogno di una mitologia, come le guerre ateniesi avevano bisogno di qualcuno che le cantasse?

Momenti sportivi di una certa importanza / 2: la Champions League vinta dal Chelsea nel 2012

Il primo a rispondermi è stato Francesco Costa, giornalista de Il Post e di IL, il magazine del Sole 24 Ore, uno che ha scritto anche ritratti come questo di Stephan El Shaarawy e come questo (il mio preferito) di Alberto Gilardino.

«Per chi scriviamo?» mi ha detto Francesco, rispondendo poi subito: «Per chi legge. E riguardo questo, secondo me è bene saperlo e dircelo: in Italia, in questo momento, scriviamo quasi per nessuno. Le persone che cercano consapevolmente un tipo di lettura sportiva del genere sono così poche da non poter essere definite nemmeno un pubblico. Sono più di ieri, certo, e domani saranno di più ancora: oggi esiste un positivo fenomeno emulativo rispetto a quello che leggiamo in altre lingue e soprattutto comincia a prendere forma un’offerta piccola ma ambiziosa. Mi sembra una di quelle situazioni in cui è l’offerta a cercare di costruire la domanda: in cui sono gli autori a cercare di crearsi un proprio pubblico, in cui sono le testate a tentare di “educare” i lettori a un genere di articoli che questi prima di adesso non stavano cercando». È un’analisi che condivido, e che mi mette molta tristezza. Grazie al cielo poi ha concluso con un’impennata di ottimismo, e pure un po’ di eroismo, che mi è piaciuta molto: «Nel complesso, la potenziale trasformazione di cui parliamo vede realtà editoriali di piccole dimensioni fare da avanguardie. A fronte della loro deliberata ricerca di un pubblico ancora in nuce, l’obiettivo fondamentale di queste testate rimane però la sopravvivenza economica e non “diventare grandi”. Per questo la vittoria culturale di questo nuovo giornalismo sportivo non arriverà quando i piccoli media che oggi lo ospitano diventeranno grandi, ma se e quando parte dei nuovi standard, dei nuovi progetti, dei nuovi stili e delle nuove idee saranno adottati e sposati dalle grandi realtà editoriali. È successo così in un sacco di settori, è un percorso noto. Il primo a correre verso il muro si spacca la testa ma grazie a lui gli altri passano; e solo quello che si spacca la testa poteva provarci, libero e “disperato” com’era».

Daniele Manusia, autore della rubrica “Stili di gioco” su Vice, vice-direttore de L’Ultimo Uomo, autore della biografia Cantona. Come è diventato leggenda (una biografia notevole e importante sotto certi punti di vista, soprattutto nell’ambito di questo discorso. Ne ho scritto qui), ha preso il discorso su un altro piano, pur simile. Daniele Manusia sposta il discorso su un piano laterale, più narrativo che giornalistico, forse più artistico: «Nel tipo di pezzi di cui stiamo parlando la parte informativa passa in secondo piano rispetto alla forma. O almeno questo è quello che piace a me. A volte il punto è semplicemente vedere scritta una certa frase, una descrizione o una storia intera. A me sembra che in Italia si parli di calcio come fosse politica, e per certi versi lo è. Per quell’aspetto ci sono i quotidiani e i siti di calciomercato o i commenti nei siti di informazione sportiva, quello che proviamo a fare noi è dare un’angolazione diversa. Secondo me Kuper non cita libri italiani perché non legge libri in italiano. Modeo è stato tradotto? Io ho letto bei libri di calcio per questo ho voglia di scrivere bei libri di calcio».

«Sul rapporto con la realtà non mi farei troppi problemi, anche i romanzi sono costruiti con mattoncini di realtà, le città in cui sono ambientati, il tempo, tutte quelle parole che si riferiscono a cose che esistono veramente. I fatti “realmente accaduti” sono la materia, ma a me interessa la forma. E la forma che io do alla storia di Cantona non è la forma che gli daresti te. E quando leggo un tuo pezzo sono interessato alla forma, la “vera storia di Buffon” (è un esempio, ndA) è quasi una scusa. Il terreno comune tra la mia coscienza e la tua. O meglio tra la tua e quella di tutti gli altri».

Tim Small è il fondatore de L’Ultimo Uomo, uno di quei siti o di quelle testate che stanno provando a sfondare il muro di cui sopra. Tim mi ha scritto questo: «Non so se alla domanda “perché lo facciamo” posso dare una risposta più intelligente di “perché è interessante” o “perché ci interessa”. Io personalmente non sono bravo a scrivere di sport, ma L’Ultimo Uomo l’ho fondato perché mi piace leggere di sport in un certo modo. Forse perché lo sport è un mondo privo di pretese. O, almeno, un mondo con molte meno pretese di quello culturale. Ci sono poche “pose” o “attitudini” e tanti dati da analizzare, tanta informazione, e la poesia che ne fuoriesce mi sembra più vera e più sana. Leggere un articolo intelligente di 30 mila battute su Gourcuff. Perché no? A me interessa, onestamente, veramente, e se fatto bene, può essere una cosa che tocca davvero un sacco di persone. È un punto di partenza molto poco pretenzioso, e molto popolare, nel senso stretto del termine. Lo sport interessa alla gente. E pensare che, per questa ragione, non si possa parlarne in maniera, diciamo, letteraria, oppure approfondita, laterale, come vuoi… sono tutti diversi modi di dire che al popolo serve il pane ma non le rose. E io non ci credo.

Dall’altro punto di vista, invece, quello del giornalista culturale, beh, mi sembra che nel giornalismo sportivo ci sia una bassa percentuale di cazzate, di egocentrismo, di voler dimostrare al mondo chi si è, e c’è molta più onestà intellettuale, analisi spassionata, approfondimento vero, voglia di raccontare una storia perché la storia vale, non perché dimostriamo che valiamo noi nel raccontarla. E penso che quindi attragga un certo tipo di giornalista culturale stufo di un certo tipo di approccio alla cultura».

Infine ho scritto allo stesso Brian Phillips (che è staff writer di Grantland, e ha un sito/blog molto interessante, qui nella versione nuova, qui in quella da poco abbandonata), che purtroppo non scrive sulla stampa o sul web italiano, ma è sempre un piacere da leggere. Brian mi ha detto: «Credo che la risposta alla tua domanda (la domanda era la prima, quella sullo stile, o la natura di questo tipo di scrittura “alta” sportiva, ndA) dipenda semplicemente da quanto tu creda che la scrittura sportiva debba rimanere fedele alla verità. Mi spiego: posso, ad esempio, rendere Messi più interessante dicendo che suonava in una cover band degli Oasis, ma Messi NON SUONA in una cover band degli Oasis, quindi sarebbe una falsità. Ma prova a trasformare questa ovvia “violazione” della realtà in un qualcosa di molto, molto più sottile, e vedrai il problema: dire chi è davvero Messi è un compito molto serio, un compito che viene oscurato dal “mythmaking” letterario. D’altro canto, uno sguardo davvero “interno” nella psicologia di un’altra persona è probabilmente impossibile, e questo vuol dire che ogni profilo o ritratto sarà in qualche modo intriso di fiction. Credo sia una tensione costante in questo tipo di scrittura. Ma utilizzare alcune strutture della fiction per colorare una persona reale, o un evento reale, non è la stessa cosa che scrivere fiction».

Cosa può dire, ancora, questo pezzo? Niente di più di quello che ha già detto. Perché esiste, allora, questo pezzo? Perché può invitare a riflettere, a riflettere su quanto riflettiamo quando parliamo di calcio. Oggi, o domani, o dopodomani, qualcuno stamperà un quotidiano o una rivista sportiva e qualcuno lo prenderà in mano e lo leggerà. Dovrebbe essere una lettura arricchente, dovrebbe aiutare una comprensione o stimolare una riflessione o raccontare una storia, una storia raccontata bene. Oggi, molto semplicemente, non è così. Noi cerchiamo di essere quelli che “corrono verso il muro e si spaccano la testa”, per far passare gli altri.

 

Nell’immagine, la conferenza stampa del Manchester United prima della finale di Toyota Cup, a Tokyo nel 1999. Shaun Botterill /Allsport