Attualità

Mircea Cantor

«Siamo tutti mendicanti». Chiacchierata in occasione della personale a Roma

di Sara Dolfi Agostini

Tra i molti appuntamenti del nuovo MACRO diretto da Bartolomeo Pietromarchi, c’è la mostra “Sic transit gloria mundi”, personale di Mircea Cantor (1977) visitabile fino al 6 maggio. Rumeno di origine e francese di adozione, l’artista si esprime attraverso immagini delicate, metafore della condizione esistenziale dell’uomo. Il suo frequente riferimento al quotidiano mediato da cibi, utensili e simboli popolari echeggia gli objets trouvés di Duchamp e l’Arte Povera. Nel suo lavoro, però, non sono semplici dispositivi intesi a riconnettere la nostra esperienza estetica con la realtà; quanto, piuttosto, indizi che possono condurci a scoprire – non senza ambiguità e ironia – il significato archetipo della vita. A Roma presenta quattro nuovi lavori e ci concede la sua prima intervista in loco.

Appena entrata, sono stata attratta dalla sottile catena dorata che scende dritta dal soffitto del MACRO. Da vicino ho riconosciuto la struttura a doppia elica del Dna, realizzata con un migliaio di spille da balia agganciate l’una all’altra. Fino a qualche anno fa le spille da balia si usavano per chiudere i pannoloni dei bambini, e nella parola italiana questo oggetto ha conservato il ricordo del suo uso principale. Viene, quindi, naturale pensare che l’opera sia una forma di elogio alla vita..
Lo è. In passato avevo già impiegato il motivo del DNA, per me rappresenta l’albero della vita. Questa volta però ho deciso di spingermi un po’ oltre, raffigurandolo attraverso le spille da balia, un oggetto intimo e privato che svolge la funzione di tenere insieme le cose. Nel titolo, “Prima del Pralaya”, l’opera assume una dimensione collettiva che trasferisce questo senso di unità dalle cose alle persone. Infatti, il “Pralaya” è un concetto della filosofia Indù e indica la fine del mondo, che arriva con la notte. Prima della dissoluzione c’è il giorno, in cui la divinità, Brahma, crea tutte le cose in unione le une con le altre.

Non è la prima volta che vedo una tua opera dorata. Osservando “Prima del Pralaya” mi è venuta in mente “Arch of Triumph” (2008), l’improbabile incontro tra la forma di un cancello, forse di una fattoria, e l’apparenza di un’architettura pubblica celebrativa. Perché l’oro?
Se avessi usato delle semplici spille da balia avrei fatto del bricolage. Ma queste spille da balia devono rappresentare il Dna che è qualcosa di estremamente prezioso, è quanto di più personale abbiamo in quanto uomini, è unico per noi. L’oro mi dà la possibilità di materializzare questo suo inestimabile valore perché ha un potere di fascinazione.

Le tue opere producono un effetto epifanico, una sorpresa, perché impieghi oggetti e immagini che appartengono alla quotidianità. Poi, però, cambi qualcosa – le dimensioni, il materiale – e pur rimanendo riconoscibili acquisiscono un quid in più a causa della variazione. Questa enorme struttura in legno ha la forma della Basilica di San Pietro, ad esempio. Cosa ti guida in questo processo di trasformazione degli oggetti?
La trasformazione della materia è solo la parte visibile di un processo che implica una necessità estetica, etica e anche spirituale, ma non in senso religioso. È spirituale perché riguarda il nesso che tiene insieme le cose. Naturalmente non c’è innocenza nella decisione di presentare questa forma qui e non da un’altra parte: ogni mio lavoro scaturisce da un’esperienza, ma richiede poi di essere pensato in autonomia dal suo contesto.

Intorno a questa riproduzione della Basilica di San Pietro scorrono delle corde che sono agganciate ad un manico a forma di croce, simile al comando per muovere le marionette. Chi lo impugna?
È impossibile saperlo. Quello che sappiamo è che la Basilica di San Pietro è un simbolo e rappresenta il potere della religione cattolica. Ho intitolato l’opera “Anima” perché volevo recuperare il senso latino del termine, e quindi riferirmi a quel potere nascosto che è il motore di tutte le cose.

Muovendomi tra “Prima del Pralaya” e “Anima” mi sembra di attraversare un campo di forze. L’una rappresenta l’uomo, è dorata ma sottile e fragile all’apparenza; l’altra identifica un potere che l’uomo riconosce in qualcosa di materiale – una chiesa, un edificio – ed è imponente. C’è una contrasto fisico in questa giustapposizione…
Non sono l’artista che si interroga sui significati. Il mio compito è fornire delle risposte. Una mostra deve permettere al visitatore di nutrirsi “visivamente”, mangiare con lo spirito. E questo è un bisogno fisico e comporta una responsabilità da parte dell’artista. Per far sì che la mia mostra nutra il visitatore devo proporre una ricetta che sia valida e comunicativa per me e per l’altro.

Mi è stato detto che il modo in cui è stata intagliata e modellata “Anima” è tipico dell’artigianato della Transilvania. Qual è il ruolo dell’elemento biografico in questa ricetta artistica di cui parli?
Non voglio promuovere nessun esotismo. La biografia è secondaria quando si vanno ad interpretare i significati di una forma, e immaginarla valida in un contesto museale, diverso da quella da cui è stata estrapolata, è un processo caratteristico nell’attività di un artista. Mi viene in mente Picasso, che per “Les Demoiselles d’Avignon” (1907) si è ispirato alle maschere africane che ai tempi inondavano i mercati occidentali. Questo significa che ha realizzato un’opera biografica? Penso che saremo d’accordo a rispondere di no. Picasso scelse le maschere perché vi riconobbe la possibilità di innescare un campo di battaglia estetico nella sua opera.

Nel video che fornisce il titolo alla mostra, il campo di battaglia possiede il biancore della stanza di un museo. Inginocchiati in un cerchio, ci sono degli uomini dal volto coperto, e in mezzo a loro una donna che, incalzata da un suono assordante, appicca il fuoco ad una miccia. Il fuoco brucia rapidamente la miccia – che è appoggiata sulle mani fasciate degli uomini – e si spegne in quelle della donna. C’è qualcosa di mistico?
Parlare di mistico a proposito di un’opera d’arte può essere fuorviante. Oggi, nessuno vuole più sentir parlare di qualcosa di mistico o spirituale, come se questi due caratteri non fossero sempre stati presenti nella storia dell’arte. Siamo disposti, invece, a parlare di un processo di secolarizzazione della società e a rifiutare così tutto ciò che non può essere controllato. Certamente mi sto riferendo a qualcosa che va oltre la materialità delle cose, riallacciandomi ad un rituale che si svolge subito dopo l’elezione del papa, quando al suo cospetto un vescovo brucia un pezzo di stoffa e ripete tre volte la frase “Sic transit gloria mundi”. Ma nel video il rituale si produce al cospetto di un gruppo di mendicanti.

Hai impresso questa frase su un muro, bruciandola. È la prima volta che crei un legame tra lo spazio dell’opera e quello del museo?
Si, e l’ho fatto per chiamare in causa i visitatori, perché siamo noi i mendicanti rappresentati nell’opera. Quando pensiamo ad un mendicante ci raffiguriamo gli uomini bisognosi che incontriamo per strada, ma tutti noi mendichiamo continuamente nella nostra vita. Anche tu adesso, per questa intervista.

Che valore ha questa frase per te, al di fuori del rito religioso?
Positivo. È inevitabile che la vita finisca, per questo dobbiamo indirizzare il nostro sguardo a ciò che è essenziale e resta quando la vita finisce.