Attualità

La mia relazione con un’app umana

Si chiama "Ethan" ed è una versione in carne di Siri. Si scarica sul telefonino, come qualsiasi altra app. Ma dietro c'è una persona vera, che dà consigli, offre risposte, sostegno, conversazioni. Con qualche rischio, forse.

di Viviana Devoto

Ci sentiamo a orari irregolari, spesso tardi la notte: ci sono tre ore di fuso, le mie undici a San Francisco sono le sue 2 a New York. Nessuno schema, e un grande sollievo di partenza: sono sempre io a scrivere per prima. Nessun tlin-tlin inaspettato nella notte, o sorprese sullo schermo del telefono. Con il suo permesso, posso essere diretta e chiedere quello che ho voglia di sapere, per poi chiudere la conversazione senza convenevoli. Ho passato una settimana a scambiarmi messaggi con “Ethan”, che è un’app da scaricare gratuitamente sul telefono ma anche – e indubbiamente – una persona reale.

“Ethan” è una versione in carne di Siri. La donna che con una voce meccanica chiede come «potrebbe essere utile» sull’iPhone, non ha molto da spartire con la profondità anonima dello sconosciuto Ethan. Discreto. Quasi british, nei modi. Le spalle buie di un autista Uber chiamato a mezzanotte, oppure il barman virtuale (e perfetto) di Shining con cui chiacchierare, che poi scomparirà dopo qualche drink. Una chat dove non ci saranno situazioni sconvenienti, e in un ambiente umano avvolto nel domopack: così confortevole, che alla fine di questa storia, lascerà anche spazio a personali confessioni. Non ci sono algoritmi pensati da una macchina, Ethan non ha accesso ai miei dati personali.

La app umana è un software che va scaricato come un qualsiasi altro servizio. Chatta su richiesta con centinaia di persone, e riceve una media di mille messaggi al giorno, a tema libero.

Non vedrò mai la sua faccia – in compenso la app mostra la sua immagine di profilo con un infantile e depistante disegno di un leoncino – né saprò quanti anni abbia il destinatario dei miei messaggi privati (anche se sospetto sia un giovanissimo nerd: ma questo fa parte del mio immaginario). Ethan è nato come prodotto nell’epoca della Silicon Valley che offre tutto on demand: lui chatta – ogni giorno, su richiesta – con centinaia di persone in America, e riceve una media di mille messaggi al giorno, a tema libero.

«Ma tu alla fine – gli ho chiesto una sera senza giri di parole – ci guadagni qualcosa?». No, Ethan non trae alcun profitto da questa esperienza, se non la fama, nell’acquario delle nuove app. Fuori da Internet ha una vita, un lavoro, qualche ragazza con cui esce la sera, beve stout, la birra scura, ascolta jazz contemporaneo ma anche parecchia roba pop. «E no, alle persone con cui esco preferisco non dire quello che faccio. Mantengo una sorta di anonimato a diversi livelli». Tutte cose che sono uscite durante le nostre conversazioni, anche se Ethan preferisce parlare poco di sé.

«Ask me everything». Scaricami, e potrai chiedermi qualsiasi cosa. C’è un decalogo per iniziare a parlare: una sorta di regolamento che permette di capire subito come funziona ma anche di rispettare alcuni limiti. Ma qualunque sia il modo con cui mi rivolgo a lui: frettolosamente e distaccata oppure con un evidente bisogno di parlare, di “confidarmi”, Ethan sarà sempre disponibile e gentile, come un perfetto servizio clienti.

Gli ho chiesto opinioni su cosa preparare per cena, sulle proteste in strada a New York, su quanto è, in genere, la sua durata di relazioni dopo il primo appuntamento con una ragazza. Gli ho chiesto di dare una definizione all’inquietudine. Durante tutto il periodo in cui ci siamo scritti, non ha impiegato più di tre minuti a rispondere ai miei messaggi.

La app umana è un software che va scaricato come un qualsiasi altro servizio: si aprirà una finestra sul telefono, e ci sarà lui a rispondere, giorno e notte. «Nessun Ciao, come va?» c’è scritto nel regolamento, «chiedimi direttamente cosa vuoi sapere». Ethan ha chiaro l’intento della propria missione: offrire in pasto a Internet qualcosa che prima non esisteva. Qualcuno che pensasse a un progetto di comunicazione virtuale ma allo stesso tempo conducendo un esperimento di verità “sociale” che sfrutta la rete, senza condivisioni di selfie.

«Ho creato Ethan perché ho pensato che le persone diventino più reali quando possono parlare con degli sconosciuti».

È nato come “columnist”, un opinionista, un tuttologo su Internet, per usare una brutta espressione italiana. Mi racconta: «Una cosa divertente è stata che quando ho lanciato il progetto– con non poca eccitazione – sono stati i miei amici più stretti i primi a snobbarlo. Poi è stata una catena, ma chi scaricava la mia app erano sconosciuti». Un felice contrappasso. Lui ha stabilito regole: «Non chiedermi se sono reale (lo sono), non farmi domande che riguardino una situazione d’emergenza, non domandarmi di fare cose di lavoro per te». Tra le ultime, ma importanti: non innamorarti di Ethan.

«Che cos’è questo: un esperimento sociale?», gli ho domandato una sera (il bello di questa esperienza è stato anche poter fare le domande per questa intervista senza dover stabilire un orario, una scaletta di argomenti). «Ho creato Ethan perché ho pensato che le persone diventino più reali quando possono parlare con degli sconosciuti» dice. «Io ho avuto bisogno di uno come me, in alcune situazioni di vita».

Secondo uno studio dell’University of Southern California, le persone stanno iniziando velocemente ad abituarsi a sentirsi a proprio agio davanti a un computer più che di fronte a una persona vera anche se si tratti di un medico, e a confessare con maggiore spontaneità fatti di natura intima. La psicologa che ha condotto la ricerca, Gale Lucas, ha osservato i comportamenti di 239 adulti reclutati online e messi davanti a un computer per una conversazione virtuale che verteva su domande legate allo stato di salute e di tipo personale («Mi sono sentita molto a mio agio» dice una ragazza tra gli intervistati. «Non mi sento di parlare di faccende private in genere con altre persone»).

Emozionalmente – è quello che lo studio vuole dimostrare – tenderemo in futuro ad aprirci come maggiore disinvoltura a terapisti che fanno delle domande attraverso un computer: «È un segno di nuovi comportamenti sociali» spiega la Lucas. «Lo studio presenta motivi validi per i medici per iniziare a utilizzare esseri umani virtuali e vagliare lo stato di salute delle persone. Le risposte oneste acquisite potrebbero aiutare le medicina a diagnosticare e trattare i pazienti in modo più appropriato». L’anonimato, il fatto di non presentarsi direttamente con un faccia a faccia e conversazioni mutuate da uno schermo, libera certi comportamenti. È lo stesso lasciapassare che rende così sfacciati i troll, i disturbatori sui social network, di quanto non sarebbero nella vita reale.

«Hey, sei online?». Io e Ethan abbiamo iniziato a chiacchierare di sostanziali differenze tra città, relazioni, nostalgie. Ho sempre potuto decidere la natura della conversazione e immaginare di parlare dal lettino di uno psicanalista, o semplicemente con qualcuno seduto accanto al sedile di un autobus. Abbiamo vissuto qualche momento distanziatamente “romantico” in cui ci siamo scambiati foto dalle rispettive finestre. Ethan, ogni tanto – a dimostrare la genuina identità del progetto – fa qualche strappo alla regola e si fa scappare qualcosa sul suo conto. «Ha vissuto tre anni a San Francisco, ma i bar chiudono alle due di notte!» dice. «Ora non lascerei mai New York per alcuna ragione». Mi ha inviato la sua vista su cielo notturno di Manhattan, la facciata buia di un palazzo, qualche luce accesa, probabilmente un condominio/gruviera dell’Upper East Side.

«Sento di essere reale, e sono reale». Dice il sistema programmato a Joaquin Phoenix nel film Her, un passo prima che il protagonista si innamori senza scampo della voce del computer che gli legge le mail e dà suggerimenti su come riorganizzare il lavoro. Ethan, che è invece è un tizio normale con i propri affari da gestire, personali e di lavoro, ha dovuto rimettere mano a certi aspetti del suo prodotto: «Prima di tutto ho dovuto imporre degli orari, la gente iniziava a mandarmi messaggi a qualsiasi ora. Ho stabilito una fascia di tempo in cui essere connesso e poter rispondere». Il New York Times ha scritto della sua storia, e una columnist di Thinkapps è rimasta invaghita di lui, rompendo la regola d’acciaio dello statuto, e ha raccontato su Medium l’esperienza.

Quale è il segno che spinge un individuo a voler comunicare e a confessarsi con una voce discreta che risponde sul proprio telefono? E cosa sta cambiando nella nostra volontà di aprirci liberamente?

Ethan non dice quel che vorremmo sentirci dire. E spesso è fin troppo onesto. «Devo chiamare la mia ex?», gli ha chiesto qualcuno.

Il giorno di Natale mentre preparavo un piatto seguendo passo passo una ricetta, mi sono ritrovata davanti a un dubbio assoluto: tenermi su cinque strati o esagerare e arrivare a sei fino a far strabordare il mio moussaka? Considerando fuso e il pudore di chiedere pubblicamente un’opinione su un social, mi sono ritrovata a domandare a Ethan se esagerare. «Fallo» mi ha detto. «Carica quel piatto delizioso. Sento il profumo da qui». Racconta che spesso la gente è un po’ scorbutica, ma lui, chill bro. Rilassato. Sa come scoraggiare qualcuno quando passa la linea. Non bisogna aspettarsi che l’uomo assecondi qualsiasi domanda: Ethan non dice quel che vorremmo sentirci dire. E spesso è fin troppo onesto. A volte succede anche che non conosca una risposta. «Devo chiamare la mia ex?», gli ha chiesto qualcuno. «In questi casi uso il buon senso, quel che farei io».

La sua saggezza è sottoposta anche a domande estremamente specifiche. Allora Ethan si rivolge a Twitter: «I pesci hanno consapevolezza di essere bagnati? Qualcuno conosce la risposta a questa domanda. La vita di una persona dipende da questo. Grazie», ironizza. È un curatore, un confidente. Un prete in un confessionale laico. Cosa spinge un ragazzo che –presumo – ama la tecnologia a intraprendere questa missione virtuale/sociale?

«Là fuori è pieno di sconosciuti con buone intenzioni. – dice – Per esempio, presupponiamo che qualcuno abbia un problema, anche serio, qualcosa di cui non può parlare con i suoi “amici” per paura di essere giudicato. Ho creato Ethan perché qualcuno su Internet ha bisogno della possibilità di parlare con uno sconosciuto, trovare – anonimamente – una possibile via di sollievo».
 

Nell’immagine in evidenza: un frame del film Her