Attualità

Kennedy, le emozioni e le immagini

Intervista a Peter Landesman, regista del film Parkland un punto di vista alternativo (ma fedele) sull'omicidio JFK. Si parla dell'importanza delle immagini e dei sentimenti, di giornalismo e del corpo di Kennedy.

di Marco Cacioppo

Esattamente 50 anni fa, il 22 novembre 1963, veniva ucciso a Dallas John Fitzgerald Kennedy. Da allora, tutto e di più è stato detto, scritto e mostrato al riguardo, dalle teorie cospirative che vedono il trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti eliminato dalla Cia, dalla Mafia o dal Kgb a chi invece ritiene che sia stato il solo Lee Harvey Oswald ad architettare e mettere a punto l’omicidio. Va da sé che anche il cinema ha raccontato questo avvenimento attraverso innumerevoli pellicole che hanno affrontato l’argomento declinandolo secondo le diverse angolazioni, primo fra tutti il seminale Azione esecutiva di David Miller con Burt Lancaster, da una sceneggiatura di Dalton Trumbo, che nel 1973 ipotizzava che alla base dell’assassinio ci fossero ben tre diverse persone ad aver premuto il grilletto. Fino all’intramontabile e controverso JFK di Oliver Stone che nel 1991 contribuì a riaccendere i riflettori sulla vicenda. Oggi invece è la volta di Parkland, il film d’esordio di Peter Landesman presentato quest’anno ai festival di Venezia e Toronto, uscito negli Stati Uniti a Ottobre e che in Italia viene mostrato direttamente in televisione il 22 novembre su Rai Tre. Landesman è un ex reporter di guerra che, scottato dai compromessi imposti dal giornalismo, ha deciso di abbracciare il linguaggio delle immagini per continuare le proprie inchieste alla ricerca di un punto di vista il più possibile oggettivo con cui interpretare e dare un senso alla realtà contemporanea. Con Parkland, un po’ come nel 2006 aveva fatto Emilio Estevez per raccontare in Bobby l’omicidio di Robert Kennedy, rinuncia a ipotesi e teorie per soffermarsi sugli effetti che l’omicidio Kennedy ha avuto sulle vite di quelle persone che direttamente o indirettamente si sono trovate loro malgrado coinvolte nella tragedia durante e nel corso dei tre giorni che sono seguiti alla morte di JFK: gli uomini della scorta, i medici del Parkland Hospital di Dallas, gli agenti dell’Fbi inviati sul luogo del delitto, e civili come Abraham Zapruder che senza volerlo hanno impresso per sempre attraverso la pellicola delle loro telecamere amatoriali uno dei momenti che hanno fatto la Storia del Ventesimo secolo.

 

Perché in vista del cinquantesimo anniversario della morte di Kennedy hai scelto di raccontare proprio questo aspetto della vicenda?

Nel corso degli anni la morte di Kennedy è stata riproposta da molteplici punti di vista. Da quello mitologico, a quello astratto, dalla cospirazione all’omicidio ammantato di mistero. Per me non c’è alcun mistero. Se c’è un mistero, piuttosto, questo è comprendere come gente mediamente comune come gli uomini della scorta di Kennedy e i medici coinvolti possano essere sopravvissuti a eventi simili e in quelle circostanze trovare una forza che per me è inconcepibile e che dimostra il loro eroismo. Il vero coraggio, infatti, non risiede in quelle persone che fanno un lavoro eroico ma nei piccoli gesti che hanno fatto grande una storia come quella dell’omicidio Kennedy.

 

A proposito dei gesti, nel film viene costantemente sottolineata la gestualità, peraltro molto umana, dei personaggi. In particolare mi viene in mente il momento quando maneggiano la bara…

L’aspetto pratico, quello che fanno i medici e gli uomini della scorta, è proprio il tessuto del film. I suoi tendini, i muscoli. Sono gesti onnicomprensivi che spaziano dall’ordinario al complesso dallo sgradevole alla follia. Prima della morte di Kennedy non era mai successo nulla di simile per cui mancava la preparazione a un evento del genere. A differenza di oggi che c’è un protocollo molto rigido da seguire. La scorta e i medici di Kennedy hanno invece dovuto improvvisare un passo alla volta in un contesto sgradevole, caotico e tesissimo. L’importanza della gestualità deriva anche da questo.

 

Hai lavorato su una mole di documenti spaventosa, tra cui l’imponente libro di Vincent Bugliosi Reclaiming History: The Assassination of President John F. Kennedy. Alla fine che cosa hai tenuto, che cosa ti interessava veramente? A un certo punto il film è come se uscisse dalla storia per diventare metaforico. Ad esempio questa corrispondenza tra le due operazioni, quella di Kennedy e quella di Oswald, la corrispondenza tra la storia delle due bare. La bara che non entra nell’aereo e la bara che nessuno vuole portare. Sei andato oltre.

È vero, solo il libro sono 2.000 pagine più un dvd allegato con tutte le note a pié di pagina. La prima stesura della sceneggiatura era di 400 pagine, l’equivalente di quattro ore di film. Alla fine però, quello che ho portato sullo schermo corrisponde a quello che non si era ancora visto. Per certi versi era la semplice definizione dei personaggi, quello che non sappiamo della storia, che mi ha fatto scegliere cosa mostrare e cosa no. Da un certo punto di vista sono d’accordo con te. L’ospedale di Parkland porta con sé un significato metaforico, come ha fatto Roman Polanski in Chinatown. È il luogo dove le nostre speranze e i nostri sogni muoiono. Ma è tutto affidato all’interpretazione del ruolo che ebbero quelle persone e che per tutta una serie di coincidenze , viste poi a posteriori, possono effettivamente leggersi in una chiave diversa. Mi fa piacere che tu l’abbia colto. Però è un po’ come costruire una teoria intellettuale letterale anziché una teoria letterale tout court.

Tutto quello che si vede nel film corrisponde al vero?

Sì, tutto quello che mostro è successo veramente.

 

Anche la scelta di dare spazio soprattutto al personaggio del fratello ha a che fare col desiderio di mostrare qualcosa che non era stato ancora raccontato?

In parte sì, anche se il vero motivo riguarda di più una mia personale identificazione con quel personaggio. In qualche modo Robert racchiude il significato poetico di quello che è successo. Era l’uomo comune, quello che potrebbe diventare ognuno di noi trovandosi in una situazione non dico uguale ma molto simile e non penso che sia una coincidenza se la seconda parte del film è tutta su di lui. L’azione era finita, l’isteria pure per cui il problema era solo integrare quello che era successo con il peso di Robert di convivere con la tragedia.

 

Gli attori sono stati scelti per una somiglianza con i personaggi della vicenda oppure no? E come li hai preparati?

Nel caso di figure conosciute ho cercato di trovare attori somiglianti ma che per prima cosa fossero bravi, come Paul Giamatti nel ruolo Abraham Zapruder. A lui nello specifico ho chiesto espressamente di non prepararsi perché secondo me quando fai un film basato su eventi reali gli impulsi devono essere personali. Ha a che fare con la differenza tra performance e personificazione. Personificare significa scimmiottare qualcuno recitando. La performance, invece, è più reale e spiritualmente vera. Quando gli attori si presentavano con delle loro proposte io li fermavo subito, chiedendo al contrario di calarsi nella situazione attraverso la performance, come se stesse accadendo a loro e non alla persona reale che stavano interpretando. Ho fatto un’eccezione per Jeremy Strong, l’attore che interpreta Harvey Oswald. Non solo assomiglia incredibilmente al vero Oswald, ma si è presentato sul set calato nel personaggio, in manette senza aver bevuto per tre giorni. Quello che si suol dire l’epitome del metodo. Però devo riconoscere che nel suo caso ha funzionato alla grande. Fino all’ultimo non sapevo cosa aspettarmi anche perché si è rifiutato di parlarmi fino al giorno delle riprese. Il film è nato da quest’incontro tra due diverse scuole di pensiero. Poteva risultare una merda, e invece il risultato è stato grande.

 

Un altro aspetto molto interessante del film è il dialogo a livello di immagini tra la realtà d’archivio e la finzione soprattutto in relazioni ai corpi e a quello di Kennedy in sala operatoria in particolare. Anche nel momento in cui vengono portate al medico le parti di cervello da parte della moglie.

Prima di girare quelle scene ho spiegato al cast che il corpo di Kennedy era l’elemento che accomunava tutti. Toccandolo era come se fossero connessi l’un l’altro attraverso esso. Le immagini d’archivio all’inizio le ho selezionate e poi usate per abbattere la barriera tra la realtà e la finzione e portare gli spettatori nel mondo del film e degli eventi che accadono. Sono queste immagini a infondere di fatto veridicità alla storia che viene raccontata a livello di finzione dai personaggi interpretano i veri testimoni della vicenda.

 

Per chi usa le immagini come strumento di comunicazione è molto importante il personaggio di Paul Giamatti che riprende la scena dell’omicidio ma poi non vuole che proprio il dettaglio della morte venga reso pubblico per un rispetto della dignità della persona. Noi siamo i figli di una generazione che ha fatto in tempo a metabolizzare il dramma della perdita di Kennedy e al contempo i testimoni dell’11 settembre che ha rappresentato la perdita della nostra innocenza e ci ha obbligato a fare i conti continuamente con la rappresentazione morte. Cambia qualcosa tra il vedere e il non vedere? È davvero necessario mostrare oppure è lecito, come fa Paul Giamatti attraverso il suo personaggio, reclamare il rispetto della morte?

È la domanda cruciale del nostro tempo. Il suo personaggio reclama dignità. L’omicidio di Kennedy, ed è il motivo per cui ho preferito non mostrarlo nel dettaglio, è estremamente sanguinoso. Si vede la testa esplodere come un melone. Una scena che è tutto fuorché divertente da guardare. Oggi siamo bombardati di immagini simili di fronte ai reportage che documentano la guerra in Siria. Sono un padre di famiglia e guardare quei bambini morti o agonizzanti è incomprensibile. Mi affligge. Sono stato per molti anni un corrispondente di guerra e ho documentato le atrocità che si sono compiute in Uganda, Kosovo e Afghanistan. In Kosovo soprattutto ero perennemente circondato da cadaveri. Corpi e parti di corpo accatastati. Eppure vederli dal vivo mi ha turbato meno di quando li vedo in televisione. Perché lo schermo non si limita a offrire la realtà così com’è, ma aggiunge un significato e una composizione.

 

Se proviamo più emozioni di fronte alla tv che non alla realtà vuol dire però che c’è qualcosa che non va.

Assolutamente sì. Ed è il motivo per cui i nostri figli sono così ossessionati da questa televisione del cazzo. Ho due figli e tre figliastri e per loro la televisione produce lo stesso effetto di un’overdose di cocaina. Non ne possono fare a meno. Attraverso le immagini si creano un significato che altrimenti mancherebbe. Ecco perché l’arte è così importante. Storia e realtà, in sé, non hanno alcun disegno, sono una semplice successione di situazioni di merda che accadono. Attraverso l’arte, invece, è possibile estrapolare, togliere o aggiungere e di conseguenza creare una narrazione. La vita non è narrativa. La narrazione è artificiale.

Interessante, specie perché detto da te che sei anche un giornalista. Però effettivamente sono in molti a considerare vera una cosa solo per averla letta sul giornale…

Noi sappiamo più di chiunque altro. Ne parlo tutti i giorni. Anche quando facevo il giornalista a tempo pieno. In fin dei conti è solo una questione di scelte editoriali che fanno sì che si decida di parlare di un argomento piuttosto che di un altro con l’inevitabile conseguenza che anche la gente riflette su una problematica anziché un’altra.

 

Si sceglie di seguire una linea.

Esatto. È per questo motivo che penso che il cinema sia lo strumento più veritiero per raccontare una storia. Ti permette di essere spiritualmente più vero, riempiendo quello spazio scuro che altrimenti non puoi colmare per via delle costrizioni imposte dal tuo giornale.

 

Ho capito perché dai così importanza all’arte. Vorrei però che spiegassi meglio il motivo per cui la elevi addirittura al di sopra della realtà e delle emozioni che questa può infondere.

Il fatto è che il più delle volte è difficile dare un senso alle cose. Ti faccio un esempio sulla base della mia esperienza personale. Dopo sette settimane che ero in Kosovo ho incominciato a provare una strana sensazione di desensibilizzazione. Non riuscivo più a provare nulla. Un giorno, addirittura, mi sono imbattuto in un pozzo stracolmo di cadaveri di neonati. I serbi erano molto ingegnosi quando si trattava di uccidere le persone. Eppure, anche di fronte a una simile immagine, non ho provato nulla. Quando finalmente ho ottenuto il permesso di lasciare il Paese, mi sono ritrovato a bordo di un Boeing 747 insieme a gente normalissima, per lo più rifugiati. Ti ricordi il film Galaxy Quest? È un film mitico, divertentissimo. Lo davano sull’aereo e a un certo punto ho iniziato a ridere più forte del normale al punto da attirare l’attenzione degli altri passeggeri. Poi ho capito. Non stavo affatto ridendo, ma piangendo come un bambino. Sono state le immagini di quel film a sbloccare una volta per tutte le mie emozioni. L’arte libera le emozioni e le emozioni sono davvero un casino. Fidati.

 

La scelta di passare dal giornalismo al cinema è stata quindi una reazione o una necessità?

Una necessità dettata dai limiti imposti dal giornalismo, al contrario del cinema che è senza limiti. Ti spiego meglio. Nel 2007 avevo scritto una storia sul traffico del sesso e la tratta degli schiavi.

 

Trade, giusto?

Esatto, anche se quel film, tratto dalla mia inchiesta, era veramente brutto. Comunque, con quel mio resoconto, che per la prima volta portava alla luce questo fenomeno, ho scoperto che in Moldavia e in Ucraina c’erano ragazze che venivano imbarcate per gli Stati Uniti come se fossero casse di pompelmi. Prima di me nessuno aveva mai scritto niente al riguardo. A quel punto ho realizzato che ci sono storie che sono troppo vere per essere raccontate. Molte persone preferiscono sapere solo quello che vogliono. Ero sbalordito. Avevo trascorso un anno a lavorare su questo fenomeno e il risultato è stato sentirmi dire che avevo inventato tutto. Da giornalista puoi capire l’assurdità di quando qualcuno dice che siccome una storia non è mai stata raccontata prima allora vuol dire che non è mai successa. In termini giornalistici significa che ci sono delle storie che la gente semplicemente non vuole sentire. E paradossalmente più sono vere e aberranti meno sono interessanti. Il cinema è diverso. Il cinema crea attese ed emozioni nei confronti del pubblico.

 

Per cui stai dicendo che le emozioni sono più importanti della verità?

Le emozioni creano l’ossatura e la narrazione. Come la storia della nostra esperienza.

 

Con la famiglia Oswald c’è stato qualche rapporto? E se sì, di che tipo?

In realtà no, ho scelto deliberatamente di non contattarli. Marina, la moglie di Lee Harvey, e il fratello Robert sono ancora in vita, ma secondo me non sono più gli arbitri di quello che è successo, hanno esaurito il potere di parlare e raccontare la verità su quei fatti. Mi sono confrontato molto, invece, con due persone che nel corso degli anni sono state vicine alla famiglia Oswald e su cui gli Oswald hanno finito col riporre grande fiducia. Una è una giornalista che si è legata a Lee Harvey e Marina quando vivevano in Russia. L’altra è un noto scrittore di New York che è stato vicino alla madre, Marguerite. Se avessi parlato con Marina e Robert avrebbero raccontato soltanto a condizione di cooptare poi il tipo di narrazione del film, mentre io volevo che fosse il più oggettivo possibile.

 

È cambiato qualcosa nella tua visione personale della storia dell’omicidio Kennedy?

In generale o in merito a chi ha ucciso Kennedy?

 

In generale ma anche la tua opinione specifica.

Le mie ricerche non hanno fatto altro che confermare ulteriormente quello che già sapevo e che ritenevo fosse la verità. La potenza di questa storia non è nell’immagine altisonante avvolta nella leggenda e alimentata di grandi teorie di vario tipo, ma l’aspetto umano della tragedia fatto di persone comuni e da chi aveva i piedi per terra.

 

Nell’immagine,  Abraham Zapruder interpretato da Paul Giamatti nel film Parkland