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La Casa Bianca si è stufata di Israele?

Quanto è profonda la crisi diplomatica tra Usa e Israele. Quando è iniziata. Come è cambiata la copertura mediatica del conflitto in America. Ne parliamo con Lisa Goldman della New America Foundation.

di Anna Momigliano

Qualcosa sta cambiando nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele. Quella “special relationship” – già incrinata dall’ultimo decennio di espansione delle colonie e dalla scelta da parte di Obama di intavolare rapporti più amichevoli del suo predecessore col mondo arabo – ha subìto un ulteriore duro colpo a causa dell’operazione Protective Edge. O, meglio, a causa del rifiuto israeliano di accettare la proposta di tregua presentata dal segretario di Stato John Kerry. Non è la prima volta, certo, che le relazioni tra Usa e Israele stanno attraversando un momento difficile: già quando l’attuale premier Benjamin Netanyahu era impegnato nel suo primo mandato, alla fine degli anni Novanta, i rapporti con l’amministrazione di Bill Clinton non erano propriamente dei migliori. Eppure l’impressione è che questa volta Washington ne abbia veramente fin sopra ai capelli, forse come mai prima d’ora.

Di segnali mediatici e diplomatici ce ne sono stati tanti negli ultimi mesi, prima e durante il conflitto con Hamas. Come quando John Kerry ha dichiarato in un’intervista lo scorso aprile che Israele rischia di diventare uno stato di Apartheid, salvo poi scusarsi, ben sapendo che “la parola che inizia con la A” è quella che più manda su tutte le furie gli israeliani. Sempre Kerry, proprio in questi giorni, si è fatto beccare off-camera mentre esprimeva la sua frustrazione per l’operazione Protective Edge. Oppure come quando il Dipartimento di Stato ha rifiutato, sempre ad aprile, la richiesta israeliana di avviare un programma reciproco che permetta di spostarsi tra i due paesi senza visti (simile a quello che gli Usa già anno con l’Italia e molte nazioni europee), spiegando chiaro e tondo: smettetela di discriminare i nostri cittadini di origine araba e poi ne riparliamo. Di recente il Senato americano ha congelato i fondi per Iron Dome, il sistema anti-missile, anche se pare su basi economiche.

In questi giorni, poi, l’ambasciata americana di Tel Aviv ha annunciato che non rilascerà visti se non in casi di emergenza. Poco tempo prima l’FAA (Federal Aviation Administration) aveva sospeso i voli diretti verso l’aeroporto Ben Gurion, anche se ora la misura è stata revocata. In entrambi i casi s’è trattato, ufficialmente, di misure dettate da ragioni di sicurezza: con l’allarme razzi, l’ambasciata di Tel Aviv fatica a lavorare a pieno regime, mentre la cancellazione dei voli era dettata dalla preoccupazione dei razzi caduti nelle vicinanze dell’aeroporto. Ma più di un osservatore ha visto nel semi-blocco dei visti e nella sospensione dei voli anche un messaggio da parte della Casa Bianca: la nostra pazienza sta per finire. Tra questi, Lisa Goldman, analista canadese israeliana responsabile dell’Iniziativa per Israele e la Palestina della New American Foundation, un think tank indipendente di Washington. «Chiaramente era [una decisione] politica. Nessuno può pensare veramente che l’FAA abbia bloccato i voli per paura di qualche razzo», dice Goldman. Le abbiamo fatto qualche domanda.

Come sta cambiando la percezione di Israele e del conflitto coi palestinesi in America?

C’è stato un cambiamento molto notevole. Soprattutto sui media. Prendiamo il New York Times, per esempio: fino a qualche tempo fa manteneva una copertura degli eventi piuttosto favorevole agli israeliani, adesso si sta sforzando di mantenere una posizione più bilanciata, anche se a tratti punta verso la narrativa israeliana. Mi pare che anche lo spazio dedicato ai morti palestinesi abbia una rilevanza maggiore. Certo, bisogna tenere conto che è un giornale liberal, nell’accezione più statunitense del termine. Però bisogna considerare che se c’è questo cambiamento in atto è proprio perché gli americani liberal percepiscono quello che sta succedendo come una violazione dei loro valori, in una misura in cui prima questo non avveniva. Poi, naturalmente, c’è il ruolo dei social media.

Cosa c’entrano i social media?

Beh, i media tradizionali avvertono la pressione dei social media. Mentre certe immagini, certe notizie rimbalzano su Twitter e affini, anche i giornali si sentono maggiormente in dovere a dare spazio a quell’aspetto del conflitto.

Tra l’altro ho visto che alcune notizie, come il pestaggio di Tariq Khdeir, il ragazzino della Florida di origine palestinese picchiato dalla polizia israeliana, ha avuto risalto anche su media come la Cnn.

Sì, certo, anche questo sta succedendo.

Finora però abbiamo parlato di media. Anche a livello diplomatico c’è un “cambiamento notevole”?

Mettiamola così: l’America non ne può più di questo governo israeliano [«is getting fed up» nella conversazione originale in inglese, NdA]. L’amministrazione Obama sta mandando il messaggio: non siamo più completamente fedeli [«loyal» nell’originale], stiamo perdendo la pazienza. Ma al contempo sono piuttosto attenti a mandare questo messaggio senza dare troppo nell’occhio, perché c’è ancora una certa opinione pubblica molto legata a Israele, specie tra la destra cristiana.

Mettiamola così: l’America non ne può più di questo governo israeliano. L’amministrazione Obama sta mandando il messaggio: non siamo più completamente fedeli, stiamo perdendo la pazienza.

Trovo interessante che tu abbia parlato di destra cristiana e non di ebrei americani.

In realtà gli ebrei americani hanno un rapporto molto complesso con Israele. Tanto per iniziare: come dimostra un sondaggio del Pew Center di cui si è molto discusso in questi anni, la stragrande maggioranza non considera Israele il collante principale della loro identità. Tra i giovani, poi, appena un quarto la vede così. Molti poi sono molto critici delle politiche di questo governo [sempre secondo lo stesso sondaggio il 48% è convinto che Netanyahu non voglia la pace, NdA]. Infine, la maggior parte degli ebrei americani vota Democratico. Ripeto: i sostenitori principali di Netanyahu in America sono gli evangelici, la destra cristiana. Ma anche tra loro i più giovani cominciano ad avere qualche dubbio, quindi tra una generazione il loro sostegno potrebbe diminuire.

Torniamo alla rottura diplomatica, quali sono le ragioni principali?

Ce ne sono diverse, ma principalmente sono due: da un lato l’Occupazione dei territori e l’espansione delle colonie in Cisgiordania; dall’altro le guerre.

I Territori Occupati sono, beh, occupati dal 1967. Perché è diventato un problema adesso?

Perché a Washington si sta diffondendo la percezione che l’Occupazione sia qualcosa di permanente. Prima di Netanyahu tutti i governi israeliani, di destra o di sinistra, con sfumature diverse, hanno sempre mantenuto la posizione che l’Occupazione dei territori fosse qualcosa di temporaneo. Adesso, anche a causa dell’espansione delle colonie, gli americani si sono convinti che Netanyahu punti a rendere permanente l’Occupazione della Cisgiordania, senza però dare ai suoi abitanti [cioè quasi 3 milioni di palestinesi, NdA]lo status di cittadini, il diritto di voto, eccetera.

Anche per le guerre si potrebbe fare lo stesso ragionamento: è dal 1948 che si scannano da quelle parti…

Già, però per come la vedono gli americani Israele ha iniziato quattro guerre in otto anni: la Seconda Guerra del Libano (2006), Piombo Fuso (inverno 2008-2009), Pillar of Defence (2012) e Protective Edge (2014).

Questo “cambiamento notevole” dei rapporti tra Usa e Israele di cui parli, quando è iniziato?

È una cosa degli ultimi tre-quattro anni, che è montana gradualmente. Ma adesso la tensione è palpabile. L’idea che mi sono fatta seguendo queste cose è che il punto di svolta sia stato Piombo Fuso. Anche se le conseguenze non sono state immediate e gli americani ci hanno messo un po’ a metabolizzare, credo sia partita da lì.

Negli ultimi anni la popolazione americana di origine araba è molto aumentata. Tra il 2000 e il 2011 è letteralmente raddoppiata. Pensi anche questo abbia avuto un impatto?

Onestamente non saprei. Forse l’unica cosa è che gli americani si stanno abituando a vedere i musulmani americani come parte integrante del paese. Adesso capita di vedere spot e altre cose che augurano “Eid Mubarak” [gli auguri per la fine del Ramadan, NdA] proprio come si dice “Happy Christmas” o “Happy Hanukka.”

Al di là del peggioramento dei rapporti, Usa e Israele restano alleati. È concepibile che a un certo punto l’America “scarichi” Israele?

In questa generazione, assolutamente no. Ma tra vent’anni potrebbe accadere.

 

In evidenza: Kerry visita il Medio Oriente per promuovere colloqui di pace, 5 dicembre 2013. (Getty Images)

Nel testo: due prime pagine del New York Times e uno screenshot dalla Cnn rendono l’idea del cambiamento della copertura mediatica del conflitto negli Usa.