Attualità

Filmare le vite degli altri

È arrivato nei cinema italiani Boyhood, il nuovo film di Richard Linklater che segue la vita di un ragazzino dai 6 ai 18 anni e riesce a sperimentare senza far morire di noia lo spettatore. Portare su pellicola vite vere di persone vere: guida al realismo cinematografico più reale.

di Mariarosa Mancuso

Il montaggio è la grande invenzione del cinema, anche se a vedere certi film da festival sembra ci sia bisogno di reinventarlo di continuo (o di rivelarne l’esistenza ai debuttanti con pretese e ai venerati cultori dell’Arte). Il montaggio è la grande invenzione del cinema: per questo il realismo della presa diretta senza stacchi e senza parti noiose tagliate via rappresenta per i registi la grande tentazione. Nel 1929 il teorico russo del cinema verità Dziga Vertov (Kino-Pravda, il riferimento al quotidiano comunista sovietico è voluto) mandò un operatore a riprendere scene di vita quotidiana nelle strade di Odessa. Il film era intitolato L’uomo con la macchina da presa, non aveva trama né personaggi: la vita come viene, dall’alba al tramonto, unico guizzo qualche inquadratura sbilenca o qualche punto di vista audace. Lo possiamo considerare il primo tentativo conosciuto di reality show. “Si vede crescere l’erba” è gergo festivaliero per un film da sbadiglio. L’originale diceva «Ho visto un film di Rohmer una volta, era come guardare la pittura asciugare»: così rispondeva il detective Gene Hackman – in Bersaglio mobile di Arthur Penn – a una signorina che gli proponeva una pellicola francese.

Veder crescere un ragazzo americano dai sei ai 18 anni è molto più interessante. Accade in  Boyhood di Richard Linklater, premiato con l’Orso d’argento per la regia all’ultima Berlinale. Quasi tre ore di film girate dando appuntamento agli attori una volta l’anno dal 2002 a oggi: ne uscivano dieci minuti che il regista metteva da parte in attesa del seguito. Nel cast, il protagonista Ellar Coltrane (nel film ribattezzato Mason), i genitori Rosanna Arquette e Ethan Hawke, la sorellina Lorelei Linklater, figlia del regista.

Quando lo vediamo per la prima volta, Mason è un moccioso che gira nel quartiere con la sua biciclettina. Poi i genitori si separano, la madre si trova un paio di compagni assai difettosi, la sorella diventa sempre più impertinente, i cellulari e i computer che avevano provocato agli spettatori più adulti fitte di nostalgia diventano quelli di oggi. Una ragazza gli spezza il cuore, Mason pensa che da grande vorrebbe fare il fotografo. Per scelta del regista – azzeccatissima come il resto del film – gli avvenimenti importanti restano fuori scena. Il contrario di quel che insegnano le regole: un divorzio è più drammatico della solita colazione con i cereali.

Richard Linklater sa sperimentare senza far morire di noia lo spettatore. Aveva girato Waking Life con attori veri, salvo poi disegnare sulla pellicola per trasformarli in personaggi da cartoon. La trilogia Before Sunrise, Before Sunset, Before Midnight segue la vita di Celine e Jesse dal primo corteggiamento su un treno per Vienna fino a quando – sorpresa! – hanno due gemelle grandi e son sull’orlo di una crisi di nervi. Gli attori Ethan Hawke e Julie Delpy hanno contribuito parecchio alla scrittura dei dialoghi: la naturalezza è frutto di dura fatica, chi dice il contrario è un dilettante. Boyhood combina con astuzia la vita in presa diretta con le parti noiose tagliate via. Siamo abituati agli attori che invecchiano con il trucco (a volte ben riuscito, a volte esagerato al punto da impedire la sospensione dell’incredulità). Molto più affascinante è osservare la trasformazione fisica di un ragazzino che diventa adulto. In qualsiasi momento avrebbe potuto abbandonare l’impresa cominciata come un gioco. Con il passare degli anni avrebbe potuto perdere la sua carineria e la sua bravura (i bambini rubano sempre la scena agli adulti, gli adolescenti son goffi e spesso inguardabili: un professionista dà maggiori garanzie).

Geniale ma non del tutto nuova, se dalla semi-fiction – Ellar Coltrane contribuisce alla storia di formazione con la sua faccia, il suoi capelli, i suoi brufoli, il suo corpo in maniera che nessun direttore di casting avrebbe potuto immaginare o governare – passiamo al documentario. Nel 1961, quando fu costruito il muro di Berlino, Winifred e Barbara Junge iniziarono una serie intitolata I bambini di Golzow.

42 ore di pellicola e 46 anni dopo – l’ultimo capitolo lungo 290 minuti risale al 2007 – il documentario che avrebbe dovuto celebrare la Ddr ha visto crollare il muro di Berlino. I bambini sono cresciuti, dalla cittadina al confine della Polonia si sono spostati in città, alcuni sono morti, un’altra non sa darsi pace: viveva la sua vita privilegiata da figlia del notabile, non capisce perché dopo la riunificazione i vicini di casa abbiano smesso di trattarla con rispetto. Nel 1964 il regista Michael Apted fece le ricerche per un documentario intitolato 7 Up, interviste a 14 settenni britannici di diversa estrazione sociale e provenienza geografica: uno già rubava il Financial Times a papà e sognava Cambridge, il più povero sognava di fare l’astronauta. Sette anni dopo ebbe la curiosità di sapere che ne era stato di loro, e così ha fatto a scadenze regolari fino a 56 Up, uscito nel 2012. Nel 2000 la Bbc ha avviato un’altra serie, con lo stesso meccanismo e ragazzini nuovi. Tutti abbiamo il gusto di curiosare nelle vite degli altri, ogni volta gli ascolti vanno alle stelle.
 

Nell’immagine, dettaglio della locandina di Boyhood

Dal numero 21 di Studio