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L’acquisizione di Warner Bros. da parte di Netflix sta mandando nel panico tutta l’industria dell’intrattenimento La geografia del cinema e dalla tv mondiale cambierà per sempre, dopo questo accordo da 83 miliardi di dollari.
Lily Allen distribuirà il suo nuovo album anche in delle chiavette usb a forma di plug anale Un riferimento a "Pussy Palace", canzone più chiacchierata di West End Girl, in cui racconta come ha scoperto i tradimenti dell'ex marito, l'attore David Harbour.
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Farsi una ragione della Ferrante Fever

Perché il documentario diretto da Giacomo Durzi può conquistare anche chi non è stato contagiato dai libri.

29 Settembre 2017

La prima volta che ricordo di aver visto i libri di Elena Ferrante in una libreria ero a New York. Doveva essere il 2013, era una domenica di gennaio e fuori era troppo freddo e grigio per fare qualunque altra cosa che non fosse andarsene in giro tra gli scaffali di una libreria. Da McNally Jackson, dove ero entrata, avevano allestito un vero e proprio siparietto a tema: “Ferrante Fever”, recitava il font a mo’ di neon rosa dell’espositore pieno dei libri dell’autrice napoletana, che presentava almeno cinque o sei titoli diversi, dalle copertine dimenticabili e dalle quarte entusiaste. Ricordo di aver saltellato da una pagina a un’altra e da un titolo all’altro per un po’, e di aver pensato che forse a causa di tutti gli anni passati all’estero (all’epoca abitavo a Parigi da sette anni, e altri due li avevo passati a New York) mi ero persa un pezzo della storia letteraria italiana. Fotografai volumi e siparietto, e mi ripromisi di cercare uno dei suoi libri in lingua originale la prossima volta che sarei tornata a casa, ma poi non lo feci.

Ai tempi dell’Amica geniale non sapevo nulla, e oggi in fondo non so poi molto di più, visto che non sono mai riuscita a leggerla. Ci ho provato un paio d’anni dopo quella domenica, quando il fenomeno Ferrante ormai era esploso anche in Italia, e mia madre per Lila e Lenù non dormiva la notte e la mia migliore amica in spiaggia durante le vacanze mi rivolgeva a malapena la parola, ma ho abbandonato il primo volume della tetralogia dopo una cinquantina di pagine. Dovessi dire perché non saprei di preciso: con i libri va così, come con le persone, le case e molte altre cose, e non credo che, in quanto lettore, ci sia molto da dire al riguardo.

Nel frattempo su Elena Ferrante, che pubblica dal 1991 e in questi anni è diventata il caso letterario che tutti conosciamo, è stato scritto, detto e pensato, insinuato di tutto. Totonomi e spionaggio fiscale a parte, Saviano nel 2015 l’ha presentata al premio Strega (anno della vittoria di Nicola Lagioia), il Times nel 2016 l’ha inserita tra le 100 persone più influenti al mondo, Hilary Clinton in un podcast durante le ultime presidenziali l’ha definita una scoperta formidabile, Franzen dice di aver trascorso in sua compagnia uno dei suoi “20 best moments ever” della sua carriera di lettore, Jane Campion l’ha consigliata a Nicole Kidman e Daniel Pennac ha regalato i suoi libri a tutti i suoi amici (almeno stando alla fascetta con cui Gallimard ha pubblicato la sua edizione della Ferrante in Folio).

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Il mondo del cinema, che per lei si era già entusiasmato in tempi non sospetti con le regie di Mario Martone (L’amore molesto, 1995) e Roberto Faenza (I giorni dell’abbandono, 2005) non è stato a guardare, e nel 2018 uscirà per HBO Neapolitan Novels, una serie in 4 stagioni e 8 puntate diretta da Saverio Costanzo. Ora, verrebbe da chiedersi, c’era davvero bisogno di un documentario su di lei? La risposta è sì, e per ragioni non così ovvie. Per come il fenomeno Ferrante è stato gestito in Italia, a sentir accostare le parole “documentario” e “Elena Ferrante” uno potrebbe essere naturalmente portato a pensare che si tratti dell’ennesima indagine sull’identità della scrittrice, o quantomeno di un tentativo (“molto italiano”, direbbe Stanis) di riappropriarsi di un fenomeno editoriale e culturale che, malgrado la sua essenza napoletana, è stato anzitutto americano, e quindi tradotto, d’importazione.

E invece Ferrante Fever (che prende il nome proprio dal siparietto col neon rosa della libreria di Sarah McNally), non è né l’una né l’altra cosa. Diretto da Giacomo Durzi e sceneggiato da Laura Buffoni, il film – che è stato girato tra l’Italia e gli Stati Uniti l’anno scorso e sarà nelle sale italiane il prossimo 2, 3 e 4 ottobre – non si sofferma minimamente sull’identità della scrittrice, e si interessa solo marginalmente alle polemiche ideologiche e culturali che per settimane (anni?) hanno riempito pagine e pagine dei nostri inserti culturali.

Attraverso la voce degli intervistati (intellettuali, studiosi, addetti ai lavori del mondo editoriale italiano e americano, da Elizabeth Strout a Saviano, passando per Jonathan Franzen, Mario Martone, Francesca Marciano, la stessa McNally, Nicola Lagioia e Ann Goldstein, traduttrice americana di Elena Ferrante e a detta di molti se non artefice complice del suo successo negli Usa) il film cerca di fare i conti con il fenomeno Elena Ferrante, e porta avanti un discorso che travalica i singoli libri dell’autrice e a tratti perfino l’autrice stessa, ponendosi domande letterarie e sociali a ben vedere universali.

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Quanto conta cosa (e come) scriviamo rispetto a chi siamo? E il come siamo su quel che facciamo (e faremo)? Quanto influisce il modo in cui siamo vestiti, quello che scriviamo sui giornali, la vita che abbiamo scelto di vivere sul modo in cui veniamo letti, interpretati, giudicati? Quali sono i diritti e i doveri di un autore verso il suo pubblico? E quelli del pubblico verso gli scrittori? A cosa serve esporsi quando si scrive? O meglio, cosa significa esattamente: dare o prendere, aiutare l’opera oppure offuscarla? A che serve andare alle presentazioni di un libro? E rinunciare a un’identità pubblica? Cosa significa per una traduttrice, una regista, un editore o un libraio misurarsi con un’autrice che esiste solo sulla pagina? E lei a sua volta cosa si aspetta da loro? Ognuno nel film espone la sua personale versione dei fatti ma, sia che a parlare sia una giovane studiosa (Giulia Zagrebelsky) o un premio Pulitzer (Elizabeth Strout) il parere è pressoché unanime: il prodigio Ferrante è un miscuglio di talento e accanimento, coerenza e tempismo, mistero e spontaneità.

E quello che manca al film forse è giusto la voce di un detrattore, che spieghi perché a lui questa febbre non è venuta, non in quanto lettore, ma in quanto critico, autore, o editore (da lettori, come abbiamo detto, anche un “mah” può bastare). Eppure, anche se parlare sono a ben vedere solo dei sostenitori della sua opera, Ferrante Fever non è un film su o per Elena Ferrante, ma sulla letteratura, i suoi equilibri e i suoi eterni compromessi e dilemmi. E qui sta il suo interesse. È come se l’immagine opaca della scrittrice diventasse specchio per un’indagine su quelli che parlano di lei; in assenza di un volto e di una personalità pubblica, e di coordinate sociali e culturali in cui situarla, ognuno nelle sue pagine finisce per vederci quello che vuole, il pretesto per guardarsi da fuori e ragionare “a prescindere”.

Michael Reynolds (direttore editoriale di Europa editions, la sorella americana di E/O) è convinto che parte del suo successo sia merito delle librerie indipendenti (prima fra tutti proprio McNally); Saviano invidia a Elena Ferrante la sua immensa popolarità mediatica e forse soprattutto l’eleganza e la coerenza nel non abusarne, Franzen il fatto di aver avuto l’idea di scrivere un romanzo sull’amicizia (“erano 150 anni che a nessuno era venuto in mente di scrivere un romanzo sull’amicizia”), Elizabeth Strout la sua capacità di suonare al tempo stesso letteraria e viscerale, napoletana e universale, Francesca Marciano e Ann Goldstein ritengono che parte della sua grandezza stia nell’aver nominato sentimenti femminili o forse solo umani – la frantumaglia, la smarginatura, che fino a quel momento non avevano trovato voce. A ben vedere quello che Ferrante Fever dimostra è che in qualche modo puoi non occuparti della Ferrante ma la Ferrante si occupa di te.

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