Attualità

Perché esistono ancora le «università per donne»

In Italia c'è chi propone di tornare all'istruzione separata per maschi e femmine, in nome della difesa dei vecchi valori. In America invece la "single sex education" è una questione (anche) di sinistra. Ecco cosa raccontano due laureate di un'"università per donne".

di Anna Momigliano

Recentemente Costanza Miriano ha proposto sul suo blog di educare separatamente maschi e femmine. La scrittrice e giornalista vede nell’istruzione separata per generi uno strumento per salvare i nostri figli «dall’ideologia dominante, quindi anticattolica, progressista vagamente di sinistra e politicamente correttissima». In altre parole Miriano – che probabilmente non ha bisogno di presentazioni ma che, a beneficio dei pochi che non la conoscono, definiremo come “una che si augura che le donne tornino sottomesse” – desidera educare i maschi con i maschi e le femmine con le femmine con l’obiettivo dichiarato di rafforzare le distinzioni tra i due generi, e i ruoli ad essi associati: le femmine più tranquille e riflessive, i maschi più interessati all’azione.

Più o meno negli stessi giorni, si svolgeva anche su The New Republic un dibattito sull’educazione separata tra maschi e femmine, la single sex education, come la chiamano negli Usa. Solo che la prospettiva era diametralmente opposta. Due giovani donne, entrambe dichiaratamente femministe, dibattevano sul ruolo dei women’s colleges, le università per sole donne, in un periodo storico dove la percentuale di studenti transgender è in aumento.

Ambedue le autrici concordavano nel definire i women’s colleges come un punto di riferimento fondamentale non solo per il femminismo militante, ma anche per l’educazione delle ragazze in genere. Entrambe si rammaricavano del fatto che molti women’s colleges stiano scomparendo. Solo che Monica Potts, giornalista classe 1980, sostiene che le università per sole donne non dovrebbero accettare studenti transgender che si identificano come maschi («è un posto per donne»), mentre Greta LaFleur, studiosa di American Studies a Yale classe 1981, è convinta che invece accettare gli studenti transgender (che essi si identifichino come maschi o femmine poco importa) sia un dovere dei women’s colleges.

Ora, senza entrare nello specifico del dibattito “studenti transgender sì” e “studenti transgender sì,” il punto è questo: per quanto possa forse sembrare bizzarro, visto da qui, l’educazione separata per maschi e femmine – anzi: una certa educazione separata per maschi e femmine – in America è vista come progressista. Educare le giovani donne in un’università unicamente femminile non significa dire loro di assumere atteggiamenti tradizionalmente femminili. Non significa dire loro di essere più tranquille, pacate, concentrate sul “lato umano delle cose” anziché sulle scienze. E certamente non significa educarle alla sottomissione.

Esiste tutta una scuola di pensiero negli Usa  che incoraggia la creazione di “spazi protetti” dove le bambine e giovani donne possano sviluppare il loro lato più indipendente senza incorrere il rischio di essere chiamate “prepotenti” o “maschiacci.”

Piuttosto, l’obiettivo dei women’s colleges è esattamente il contrario: spingere le studentesse ad assumere atteggiamenti spesso associati – erroneamente, aggiungerei io – alla sfera maschile. In altre parole: creare donne con le palle (con le ovaie, direbbe qualcuno di più politicamente corretto di me). Educare le ragazze allo spirito di iniziativa, all’indipendenza, e all’assertiveness. Incoraggiarle a sviluppare opinioni, personalità e interessi senza il timore di essere giudicate negativamente dai compagni maschi, e in un ambiente protetto dove l’assertività femminile non è soltanto non ostacolata, ma addirittura incoraggiata.

Avete presente la campagna lanciata da Marissa Mayer e le Girl Scouts “ban bossy”? Partiva dalla percezione, piuttosto diffusa negli ambienti liberal, che alcuni atteggiamenti lievemente aggressivi, come dimostrare un’indipendenza spiccata o il rispondere per le rime agli insegnanti, siano visti favorevolmente dagli educatori quando sono i maschi a dimostrarli (“ha un carattere forte, il ragazzo”) mentre siano bollati come “prepotenze” quando vengono da una femmina – le bambine non hanno “un carattere forte”, sono prepotenti, o bossy, questo il succo della campagna.

Ebbene, esiste tutta una scuola di pensiero negli Usa – e non necessariamente femminista militante – che incoraggia la creazione di “spazi protetti” dove le bambine e giovani donne possano sviluppare il loro lato più indipendente senza incorrere il rischio di essere chiamate “prepotenti” o “maschiacci.” Sempre in base a questa scuola di pensiero, il modo efficace di creare questi spazi è escludere (in un contesto specifico e per un lasso di tempo definito, mica ovunque e per sempre!) i maschi. Il risultato sono i women’s colleges, appunto, ma anche delle sopracitate ragazze Scout – il cui slogan non a caso è “where girls grow strong”.

Il caso vuole che, per un anno, anche io abbia frequentato un’università di sole donne. Sempre per un caso, era la stessa delle due autrici che hanno litigato su The New Republic (Monica era un anno avanti a me, Greta della mia classe, di entrambe ho solo qualche vago ricordo): Bryn Mawr, a pochi chilometri Philadelphia. Non mentirò, né fingerò di essere una sostenitrice a spada tratta dei women’s colleges. Io avevo sempre voluto entrare in una scuola dell’Ivy League, a UPenn, ma al primo giro ero stata respinta, seppure per pochi punti. Dunque ho frequentato un anno di Bryn Mawr con l’unico obiettivo di prendere il massimo dei voti ed essere trasferita a Penn. Non appena ci sono riuscita, l’ho fatto, senza pensarci su due volte. Ma devo anche ammettere di avere conosciuto, proprio a Bryn Mawr, alcune delle donne più toste, brillanti e intelligenti che mi sia mai capitato d’incontrare. E che, a differenza mia, erano ben contente di stare lì. Ecco cosa mi hanno detto due di loro.

«Dare alle donne degli spazi specifici, per un piccolo lasso di tempo, dà loro l’opportunità di capire che nessuna donna si merita di essere “messa al suo posto”» (Caroline Drucker)

Caroline Drucker, oggi è a capo dell’International Brand Communications di Etsy. Vive a Berlino, è sposata ed ha un bambino meraviglioso: «Non è che mi fossi messa in testa di andare a un women’s college, è una cosa che è successa. Avevo scritto una lista di tutte le cose che volevo da un’università e avevo scoperto che uno dei posti migliori che aveva tutte le caratteristiche (e cioè: ottimo livello accademico, vicino a una grande città, mensa buona) era Bryn Mawr. Che ci fossero o meno dei maschi non m’interessava proprio. Ma una volta che sono arrivata lì, ho scoperto l’enorme valore dell’educazione universitaria al femminile».

Prosegue Caroline: «Mi sono resa conto, più e meglio di quanto non capissi prima, che le donne potevano essere incredibilmente brillanti, divertenti e, soprattutto, capaci di superare le aspettative. Che ci porta alla domanda: perché c’è questo salary gap? Perché così poche donne hanno vinto un Premio Nobel? Perché ci sono così poche donne nei consigli di amministrazione? L’avere frequentato un women’s college mi ha messo a mio agio con l’identificare e il discutere più apertamente le questioni di ineguaglianza. Certo, gli uomini sono un elemento imprescindibile per raggiungere l’eguaglianza delle donne, ma dare alle donne degli spazi specifici, per un piccolo lasso di tempo, dà loro l’opportunità di capire che nessuna donna si merita di essere “messa al suo posto” e, cosa più importante, dà loro la sicurezza in sé stesse necessaria per non accettarlo. Abbiamo bisogno di più spazi dove le donne possono riunirsi e dimostrare solidarietà, non meno, I women’s colleges sono uno dei pochi spazi di questo tipo che esistono oggi»

«Forse proprio grazie all’eliminazione del fattore maschile, non eravamo frenate dalle nostre inibizioni e dal nostro innato desiderio di compiacere. Eravamo indipendenti e ambiziose» (Giao Le)

Giao Le Kelly, medico e ricercatrice al Trinity College, nata in Vietnam, cresciuta negli Usa, oggi vive a Dublino ed è sposata con un irlandese: «Alla fine dell’ultimo anno del liceo, in genere gli studenti chiacchierano sulle loro scelte di università. La reazione dei miei compagni quando raccontavo di Bryn Mawr, una scuola per sole donne, era di totale incredulità. In genere seguiva qualcosa tipo ‘ma chi te lo fa fare di andare in un college pieno di ragazze?.’ Eppure, devo dire, Bryn Mawr è stata la scelta migliore di tutta la mia carriera accademica. Bryn Mawr mi ha formato, da un punto di vista accademico ma anche sociale».

Giao va avanti: «Grazie a un ambiente dove le donne erano leader e mentori, ho imparato ad avere fiducia in me stessa e sviluppato le mie capacità comunicative. La competizione tra studenti non esisteva a Bryn Mawr. Al contrario, competevamo con noi stesse, imparando a raggiungere i nostri limiti, e a spostarli più in là. Le donne di Bryn Mawr si sostenevano a vicenda, per raggiungere dei risultati. Forse proprio grazie all’eliminazione del fattore maschile, non eravamo frenate dalle nostre inibizioni e dal nostro innato desiderio di compiacere. Eravamo dirette, senza timidezze. Eravamo indipendenti e ambiziose. Queste sono le qualità che ho acquisito grazie a un women’s college. Ancora oggi penso con grande affetto ai miei giorni a Bryn Mawr: è il luogo che ha dato la luce alla persona che sono oggi, fiduciosa e aperta al mondo, e dove ho stretto molte amicizie con donne meravigliose».

Quanto a me, non fingerò di essere stata un’alunna entusiasta di un’università per sole donne. Al momento, m’era sembrata un mondo anacronistico e. Quando mi hanno preso a Penn, a “un’università normale,” ero contenta come una pasqua. Ma ho continuato a frequentare le vecchie amiche di Bryn Mawr. Chissà perché, ancora oggi, mantengo legami più forti con loro, che con gli altri miei ex compagni. E talvolta mi capita di domandarmi se in parte devo ciò che sono diventata proprio a quell’esperienza.
 

Nell’immagine: Bryn Mawr College 1886 (Getty/Hulton Archive)