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Chi sale e chi scende nella Silicon Valley

Sono usciti i trimestrali delle aziende tech: ma non si leggono tanto i risultati quanto le potenzialità. Chi ha in mano la nuova big thing? Chi sta perdendo terreno?

04 Febbraio 2016

La presentazione delle trimestrali a Wall Street, specie di quelle di fine anno, che sono pubblicate tra fine gennaio e inizio febbraio dell’anno successivo, è da sempre uno show per un pubblico con strane esigenze. I Ceo e i Coo (Chief operating officer, direttore operativo) si presentano in conference call, danno dimostrazione della merce, ma sanno che ai clienti non basterà quello che vedranno. Se il Ceo in questione presiede una società tecnologica della Silicon Valley, i clienti, gli azionisti, avranno ancora meno interesse per i numeri e le tabelle. A loro importa poco se una società è stata fiscalmente responsabile e ha mantenuto i conti in ordine. A questo livello, tutti hanno risorse per rimanere a galla a lungo: Usa Today ha calcolato che Twitter ha abbastanza denaro per mantenere aperto il suo servizio per 412 anni senza intoppi. Alla presentazione della trimestrale, il Ceo deve far brillare davanti agli occhi degli azionisti la speranza di qualcosa di diverso, far credere loro di avere in mano la prossima big thing, la rivoluzione in grado di cambiare i consumi, il prossimo iPhone. Per questo tutti, scavando tra i numeri delle trimestrali delle aziende tech, non cercano risultati ma potenzialità, non responsabilità ma innovazione, misurabile in investimenti. L’ultimo round di trimestrali, che trattano i risultati fiscali dell’ultimo trimestre del 2015, è stata una conferma quasi plastica di questa regola: nella Silicon Valley l’innovazione decreta il successo sui mercati, secondo regole che non valgono per gli altri settori economici.

Somerset House Opens Major Exhibition Big Bang DataPrendiamo Google. I nuovi re di Wall Street siedono a Mountain View. Google, o per meglio dire Alphabet, il conglomerato che ne ha preso il posto, ha aumentato i suoi guadagni del 24 per cento su base annua (al netto dell’effetto della valuta straniera) e mostrato di aver finalmente completato la transizione verso il mercato mobile che tutti aspettavano da tempo, anche se non ha fornito i dati scorporati. I suoi risultati economici hanno battuto tutte le previsioni e i mercati hanno risposto esultanti, spingendo il titolo fino a trasformare Alphabet nella più grande compagnia al mondo per valore di mercato, detronizzando Apple. Ma uno dei dati economici di Alphabet che più ha meravigliato e attratto è una voce in passivo. Sono i circa 3,5 miliardi di dollari che Google ha investito, perdendoli, nei suoi “moonshot”, cioè i progetti futuristici e magari irrealizzabili che i suoi fondatori finanziano a fondo perduto nella speranza di trovare la prossima big thing. Dalle macchine che si guidano da sole ai sistemi per la smart house, da Google Fiber a Calico, il progetto per ottenere niente meno che la vita eterna per tutta l’umanità, Alphabet ha quasi raddoppiato in un anno le spese per i suoi sogni pazzi (da 1,9 a 3,5 miliardi di dollari). Soldi apparentemente buttati che però non sono spiaciuti agli azionisti, perché anche se la stragrande maggioranza del fatturato continua a essere generata dal vecchio e affidabile business della ricerca, il futuro di Alphabet è in uno di quei progetti.

L’altro grande vincitore tecnologico degli ultimi mesi è Facebook, che ha dato una prova di dominio impressionante, con i guadagni in crescita del 52 per cento su base annua. Anche per Facebook la capacità di cavalcare la rivoluzione degli smartphone e del settore mobile è una linea di demarcazione per il successo: il dilemma di come ottenere guadagni dalla pubblicità su mobile, che negli scorsi anni aveva tormentato mezza Silicon Valley, sembra risolto e oggi Facebook ottiene l’80 per cento dei suoi guadagni in pubblicità dal mobile. Ma a impressionare è la capacità di innovare. Facebook ha lanciato negli ultimi mesi una serie importante di nuovi prodotti e modificato continuamente gli algoritmi e le funzioni dietro alla gestione della sua bacheca. Per bocca della Coo Sheryl Sandberg ha indicato le nuove scommesse: la condivisione in tempo reale, campo dominato da Twitter, e nella categoria moonshot si può annoverare internet.org, il progetto di Zuckerberg, al tempo stesso chisciottesco e interessato, per portare internet gratis in tutto il mondo, che negli ultimi mesi si è esteso notevolmente in India.

Tutte le storie di successo sono  simili, ogni storia di declino invece è diversa a modo suo

Una crescita costante unita alla capacità di far sognare gli azionisti è il tratto distintivo di chi sale nella Silicon Valley, e anche Amazon, con numeri meno eccellenti ma con una marea di nuovi prodotti e un campo di enorme innovazione, quello dell’intelligenza artificiale in stile Siri (l’assistente personale di Amazon si chiama Alexa), segue gli stessi trend.

Tutte le storie di successo sono  simili, ogni storia di declino invece è diversa a modo suo. E la storia di inizio d’anno è sicuramente la crisi di Twitter. Prima ancora che in crisi di talenti (nelle ultime settimane una parte importante della dirigenza ha lasciato la compagnia), di guadagni (stagnanti) e di crescita degli utenti (ancora più stagnante), Twitter è in crisi di identità. Sul New Yorker, Joshua Topolsky ha decretato la sua fine, o meglio la sua cacciata dal giro dei grandi, perché alla domanda: a cosa serve Twitter?, nessuno sa dare la stessa risposta. Perso in questioni esistenziali, il social network è rimasto simile a se stesso per troppi anni, i nuovi progetti sono stati timidi, con l’eccezione rara di Periscope, e alla fine il gap di innovazione ha iniziato a farsi sentire. Ha gli stessi crucci anche eBay, che non ha problemi di identità ma fin dall’impostazione grafica, così simile a quella dei primi anni 2000, fa capire che il suo fondatore Pierre Omidyar si è gettato con troppa dedizione nei suoi progetti editoriali.

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L’implosione del gigante stanco Yahoo invece è storia vecchia, è il declino straziante dell’anziano re che lotta impotente per cercare di recuperare l’influenza perduta. Nel 2012 l’arrivo del nuovo Ceo Marissa Mayer fu salutato come salvifico. Lei, tra i massimi dirigenti di Google, generò entusiasmo con una serie di acquisizioni di alto profilo, la più importante delle quali è stata Tumblr, comprata nel 2013 per un miliardo di dollari. Questa settimana, alla presentazione dell’ultima trimestrale dell’anno, Yahoo ha registrato perdite per circa 4,4 miliardi di dollari, ha ammesso che il suo business mobile è anni luce dietro a quelli di Facebook e Google, e di aver sopravvalutato pesantemente il suo gioiello Tumblr. La società ha deciso di licenziare il 15 per cento della forza lavoro e si prepara a mettere in vendita il suo core business, in pratica decretando la propria fine per come la conosciamo.

Poi c’è Apple. Ha i numeri dalla sua parte (nessun altra azienda quotata nella storia ha guadagnato tanto quanto Apple nell’ultimo trimestre del 2015) e perfino l’innovazione, vista la gran mole di nuovi prodotti presentati nel 2015, dall’Apple Watch all’iPad Pro. I commentatori e gli azionisti però rumoreggiano di una crisi strutturale. Alcuni la vedono nei particolari, in certe scelte di design poco rifinito «che Steve Jobs non avrebbe mai accettato»; altri la vedono nell’eccessiva dipendenza dell’azienda nei confronti delle vendite degli iPhone, che fanno oltre il 70 per cento del fatturato e sono in rallentamento. Ma quello che tutti temono veramente è che la vena creativa lasciata in eredità da Steve Jobs si stia ormai esaurendo, che Apple finora abbia vissuto di rendita e perfezionamenti ma non sia in grado di reggersi da sola. Non bastano risultati economici spettacolari; gli azionisti cercano di fiutare la prossima big thing e temono che il Ceo Tim Cook non sia in grado di dargliela. Lui lascia sornione che i leak su nuovi progetti circolino liberamente sulla stampa, dall’auto con la mela, di cui si parla da ormai un anno, a nuovi device per la realtà virtuale, novità di questi giorni. Anche Apple ha i suoi “moonshot”, ci tiene a dire. Ma è stato Steve Jobs, si sa, a mettere l’asticella delle aspettative nei confronti di Apple più in alto di tutti gli altri.

Immagini dalla mostra “Big Bang Data” alla Somerset House di Londra, dicembre 2015 (Peter Macdiarmid/Getty Images for Somerset House).
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