Attualità

Addio anni Novanta

Ovvero: quando Aphex Twin diventa argomento per una tesi di laurea. Ora che è uscito il suo primo disco dopo un silenzio durato 13 anni, una riflessione sulla sua musica, sull'eredità musicale e culturale dei Novanta, sull'invecchiare.

di Cristiano de Majo

Era il 1991 e avevo sedici anni quando uscì Nevermind dei Nirvana  e provo un certo orgoglio ricordando di essere stato il primo a far sentire quel disco ai miei compagni di classe, chitarristi in fissa coi Led Zeppelin o soltanto cultori del rock sentimentale. Eppure oggi, a distanza di più di vent’anni, sento che quel disco, celebrato come uno dei più importanti di sempre nella storia della musica, al di là dell’aura mitologica che ha poi avvolto la figura di Cobain e oltre la sua  bellezza ancora viva, non sia in fondo il disco più rappresentativo o generazionale di quel decennio. Provo a spiegare quest’affermazione apparentemente contro il senso comune: Nevermind non fu l’inizio di qualcosa, se non del ritorno delle camicie a scacchi e di tutto il filone epigonale della cosiddetta scena di Seattle, ma la fine di qualcos’altro. Si potrebbe dire apoditticamente “la fine del rock in senso lato come spazio di sperimentazione”, o più sinteticamente “la morte delle chitarre” o, inventandomi sociologo della cultura, “l’esaurimento di una codificazione estetica della angst giovanile incarnata nel modello beatlesiano della band ribelle”, un modello che assunse nel tempo forme diverse ma sostanzialmente fedeli ai principi originari, fino ad arrivare al punk e al dark e, infine, appunto, ai Nirvana.

Un anno dopo Nevermind, nel 1992, usciva invece Selected Ambient Works 85-92 di Aphex Twin. Una cosa completamente diversa. A differenza di Nevermind, non comprai quel disco nel momento in cui uscì; lo feci due o tre anni dopo ma, da allora in poi, smisi del tutto di ascoltare la musica cosiddetta rock (cioè quella con le chitarre e le canzoni). E, a distanza di vent’anni, se dovessi pensare a una colonna sonora dei ’90, non me ne verrebbe in mente una più rappresentativa.

Un processo produttivo sostanzialmente casalingo, più Do It Yourself del punk, perché lo studio di registrazione era la cameretta di un adolescente.

Tha, Ptolemy, Heliosphan, Actium… Le sonorità da fantascienza… le alte concentrazioni lisergiche… l’idea che la musica house e le sue derivazioni non fossero soltanto una fesseria per ballare, ma anche qualcosa di profondamente mentale… mentale e al tempo stesso emotivo… e  al tempo stesso ritmico… l’esperienza completamente nuova di un disco che poteva essere coinvolgente sin dal primo ascolto… e che tutto questo fosse scaturito da un processo produttivo sostanzialmente casalingo, molto più Do It Yourself del punk, perché lo studio di registrazione era la cameretta di un adolescente, non faceva che rendere quella musica ancora più vicina ed elettrizzante: la traccia numero 8, intitolata We Are the Music Makers, sarebbe stata il nostro manifesto. (We are the music makers/and we are the dreamers of dreams sono i versi di una poesia di Arthur O’Shaughnessy citati da Gene Wilder in Willy Wonka, la cui voce campionata annuncia l’inizio della parte ritmica del brano).

Da quando ho avuto dei figli, mi è capitato di pensare a come tra qualche anno  rappresenterò per loro la mia/nostra giovinezza. Sono stato cresciuto da genitori parasessantottini e l’idea che mi sono fatto soprattutto quand’ero più piccolo di cosa i miei fossero stati da giovani si è formata facendo passare i loro racconti attraverso il prisma dei filmati in bianco e nero delle manifestazioni, le immagini dei volantini delle Br, i saggi di Marcuse, la musica di Bob Dylan e De Gregori… Riascoltando i vecchi dischi di Aphex Twin, oppure dei Daft Punk, degli Orbital, dei Chemical Brothers, le prime tracce house o le compilation di techno detroitiana, le emozioni, la nostalgia, le idee si fanno chiare. Questa musica esprime molto bene, e secondo me più dei Nirvana, o dei Red Hot Chili Peppers, o anche dei grandissimi Beastie Boys, o della locale scena delle posse nostrane, il sentimento di cosa ha significato essere giovani (giovani occidentali) negli anni Novanta.

La malinconia e la cupezza… la solitudine e le potenzialità interiori… l’autismo volontario e il ballo come principale esperienza di condivisione sociale (viene  da sorridere oggi pensando a tutte le teorie di quegli anni che tendevano a interpretare il ballo come azione politica, ma c’era pure qualcosa di vero)… e poi la cameretta e lo spazio cosmico… le canne e le pasticche come strumenti di amplificazione per sentire di più…

Il figlio chiede: papà anche tu come i nonni quand’eri giovane volevi cambiare il mondo? E il padre risponde: sì, andavo ai rave, ballavo e ingoiavo pasticche, ascoltavo musica elettronica nella mia stanza. Sembra la descrizione di un’esistenza amorfa e decadente – e così del resto è stata definita quella generazione – e tuttavia è un periodo della storia che si può ricordare con lo stesso tipo di lirismo epicizzante usato dai babyboomers per raccontare la loro golden age. Perché banalmente è la gioventù che si presta all’epica e non i suoi contenuti (ma molti sessantottini non l’hanno ancora capito).

Di tutto questo Aphex Twin era uno dei principali simboli. Come tutti i grandi, la sua icona è stata resa ancora più emblematica dalla leggenda personale. Schivo ai limiti dell’autismo. Cresciuto non a Londra o a Manchester o a Bristol, ma in Cornovaglia. Compositore di brani dai titoli enigmatici se non incomprensibili. Un fratello, da cui il Twin,  morto alla nascita (Richard) e incorporato nel suo nome Richard D. James. Capelli lunghi con codino, ghigno satanico, e l’aggettivo geniale usato puntualmente per definirlo. (L’artista “geniale” nel senso di ragazzo prodigio nerd semi-autistico è un’altra cosa molto da ’90 e se penso a DFW, al suo codino e alla sua fissazione per la matematica, le due figure quasi si sovrappongono).

Dopo SAW 85-92, nel 1994  uscirono  Selected Ambient Works Volume 2, disco quasi privo di ritmica molto più vicino alla musica contemporanea di Brian Eno e compagni, e nel 1995 I Care Because You Do, altro capolavoro con altri inni generazionali come “Icct Hedral” e “Alberto Balsalm”. Poi la svolta drum’n’bass (Richard D. James Album). Poi la svolta pop: tutti avranno visto almeno una volta il video di “Windowlicker” firmato da Chris Cunningham, è quell’assurda psichedelica parodia del machismo rap. E poi Drukqs (2001), il suo ultimo album in studio, citato addirittura da Kanye West con un campionamento, che è una specie di summa di tutti i dischi precedenti, troppo drum’n’bass per i miei gusti ma con delle melodie incredibili e dolcissime, il pianoforte di Satie sulle batterie impazzite della Warp.

Ultimo fino a Syro, il disco uscito dopo 13 anni di silenzio negli ultimi giorni di questo settembre che, da vero non più giovane, ho acquistato su Amazon e scaricato sul pc.

Ho ascoltato Syro leggendo un’intervista stranamente intima, familiare, pubblicata su Rolling Stone. E sono venuto a sapere che oggi Aphex Twin vive con la moglie e due figli in un paesino di trecento abitanti non lontano da Glasgow, che è stato molto difficile per lui lavorare nel suo studio con due figli piccoli in casa (immedesimazione) e che un giorno il vicino, che il musicista non immaginava sapesse della sua segreta identità artistica, gli ha chiesto se il fidanzato della figlia avrebbe potuto fargli qualche domanda visto che stava scrivendo una tesi su Aphex Twin.

Syro intanto non suona proprio come un disco di Aphex Twin, se non da piccoli dettagli soprattutto melodici. L’ultima traccia per esempio è uno di quegli ipnotici loop pianistici d’ispirazione satieiana già ascoltati in SAW Volume 2 e in Drukqs. E il pezzo secondo me più bello di tutto il disco – la traccia 5, “180db_[130]” – ha la stessa rudezza da house primordiale che aveva influenzato i suoi primi dischi. Ma per il resto suona come se Aphex Twin reinterpretasse i musicisti che ha più influenzato nel corso del tempo. Tipo Aphex Twin che suona come Flying Lotus che rifà Aphex Twin (“produk 29[101]”),  o Aphex Twin che suona come i Plaid che rifanno Aphex Twin (“minipops 67 [102.2][source field mix]”).

Ma quindi è un brutto disco? Non è che sia un brutto disco,  più che altro è quel tipo di disco che ti fa sentire vecchio. Ma ha l’onesta di non farti sentire vecchio come deve sentirsi vecchio un settantenne alla fine di un concerto dei Rolling Stones dopo tre ore in cui ha finto di essere giovane, cioè vecchio e triste. La componente mentale è molto più forte dell’epica emotiva ed è come se il musicista dicesse all’ascoltatore: «Né io né tu possiamo più fare i giovani, vecchio mio».

 

Nell’immagine in evidenza, Aphex Twin durante il Coachella 2008. Getty